Sudan quasi dimenticato

Fotogenici, i bambini del Sud Sudan. Una di loro barcollava dalle parti di Juba; a un certo punto scivolò a terra: mentre dietro di lei un avvoltoio aspettava, davanti a lei un altro avvoltoio - di nazionalità europea -scattò la fotografia che gli avrebbe fatto vincere il prestigioso premio Pulitzer 1993.

Mani Tese

Ma fanno "scena" anche i bambini sudanesi che vanno a scuola: nudi, muniti di cartelle patchwork ricavate dai sacchi stampati degli aiuti internazionali e dentro un quaderno e una matita, piovuti lì con progetti di emergenza. Bambini senza passato né futuro, perché nati in un paese che si può tratteggiare a cupissime tinte: a causa della guerra intestina che oppone il governo militare di Khartoum ai secessionisti armati del Sud -che combattono anche fra di loro- ogni anno è in bilico la vita di tre milioni di persone; un milione sono già morte durante gli undici anni di guerra civile compiuti in maggio; il deserto intanto avanza di 5-6 chilometri l'anno insieme alla deforestazione; cicli di siccità e di alluvioni alternate, come le locuste e le epidemie; tratte di schiavi interetniche denunciate da Anti-Slavery International sembrano ancora far parte dell'attualità del 2000. Il paese è tagliato in due dalla guerra, dalla distribuzione delle popolazioni (arabi musulmani e nomadi del Nord, neri cristiani o animisti al Sud) e dal clima (necessità di colture irrigue nel Nord arido, piogge sufficienti ma mal distribuite nel Sud dove comunque pochi riescono a coltivare e commercializzare perché con la zappa non è facile farsi scudo).

PACE DIFFICILE

I due cicli di guerra civile tra il governo centrale e il movimento sudista SPLA (Sudanese People Liberation Army) hanno coperto il periodo 1955-1972 -quando al Sud fu una forma di autonomia giudicata non sufficiente- e dal 1983 a tutt'oggi. Lo SPLA, per altro diviso al suo interno in due fazioni su base territorial-etnica, capeggiate da John Garang e da Rick Machar e in lotta per il potere, che quel governo militare ora presieduto dal generale Al Bashir non intenda accordare:
  • a) l’autodeterminazione delle province del Sud (a quanto pare non una autonomia amministrativa, nemmeno spiccata),
  • b) la fine dell'applicazione della legge cosiddetta coranica, diventata da qualche anno legge dello Stato.
Ma le cause della voglia di secessione quali sono? Certo giocano le divisioni etniche (56 le etnie) e religiose fra il Nord e il Sud di un paese tagliato con l'accetta dalle potenze coloniali; d'altra parte il Sud fa gola perché ricco di minerali e di potenziale agricolo e strategicamente importante; il fondamentalismo del governo militare sudanese è inaccettabile per le popolazioni del Sud che si sentono oltretutto vittime di razzismo. Tutte le fazioni in guerra, peraltro, sembrano stare sulla testa della gente, e i guerriglieri che si accusano l'un l'altro di essere dittatori, anche se verso l'esterno si presentano uniti.

Governo dittatoriale -condannato a più riprese dall'ONU per violazione dei diritti umani- e SPLA non vanno per il sottile quando si tratta di usare l'arma alimentare impedendo ad esempio che giungano gli aiuti nelle aree che controllano. Una anno fa sono iniziati i colloqui di pace a cura dell'IGADD (Intergovernmental Authority on Drought and Desertification), il coordinamento regionale contro la siccità formato da Uganda, Etiopia, Eritrea, Kenya, Djibuti, Sudan e Somalia. Lavoro difficilissimo. La povertà di mezzi dell'IGADD non garantisce un lavoro stabile di discussione ma solo periodici rounds "sanguinosi": di fronte ai "sudisti" che vogliono l'autodeterminazione del Sud Sudan, delle montagne Nuba e delle colline Ingenessa e contestano la legge islamica; Khartoum dice no e accusa l’IGADD di partigianeria. Di recente il presidente dell'Uganda ha raggiunto le fazioni dello SPLA nella richiesta di embargo economico oltre che militare al Sudan, mentre il kenyano Arap Moi accusa i contendenti di non impegnarsi nelle trattative di pace.

I MISSIONARI

Abbiamo voluto capire qualcosa in più della situazione sudanese dopo che i missionari comboniani hanno lanciato un tragico appello e riferito di visioni terrificanti di uomini affamati che si disputavano cavallette per pranzo. Indice di un totale abbandono, umanitario e politico-diplomatico, da parte della comunità internazionale? Le risposte, anziché parziali, sono venute da due incontri: con monsignor Paride Taban, vescovo della diocesi di Torit, di passaggio a Roma presso i padri comboniani, e Tiziana Boari, funzionaria del Programma alimentare mondiale.

Monsignor Taban ha di recente cambiato strategia. Ha scelto di dedicare vari mesi all'anno peregrinando nei villaggi della sua diocesi ai confini con l’Uganda e il Kenya che ha la sventura di trovarsi in una delle aree peggiori: "mi sembra che siano serviti e ben poco i miei appelli alla comunità internazionale. La pacificazione deve cominciare dai villaggi, poi potrà arrivare alle tribù e al governo. C'è un senso politico ma anche uno pratico in ciò: solo dove la comunità locale e le tribù sono in pace possono giungere gli aiuti e l'istruzione. Il governo centrale si ferma alle città, i villaggi se ben organizzati possono buttar fuori chi porta violenza e chi, governativi o ribelli, tenta di non rispettare i corridoi umanitari. Certo è difficile: quando gli elefanti litigano chi ci rimette è l'erba. In Sudan non ci sono nemmeno Caschi Blu ed è quindi la gente a doversi proteggere e mettere gli aiuti in condizioni di arrivare".

Monsignor Taban, che invita gli italiani ad "andare a vedere che succede laggiù", apprezza i colloqui di pace dell'IGADD e ritiene che la comunità internazionale non li sostenga a sufficienza come dovrebbe: economicamente, e mandando i Caschi Blue, anche, ricorrendo all'embargo economico e militare contro il governo "assassino" di Khartoum. Una posizione quest'ultima comprensibile ma criticabile: il paese, e non solo la sua parte Sud, è stretto in una morsa di fame e malattie, che l’embargo commerciale peggiorerebbe. Un auspicabilissimo embargo sulle armi, invece, forse contraddice troppi interessi militari occidentali per essere applicato, là come altrove. La richiesta dell'autodeterminazione dei popoli del Sud Sudan non è rinunciabile, secondo il vescovo. Ma sarebbe poi molto meglio per le popolazioni, il potere in mano a ribelli di cui egli stesso ammette la natura "poco cristiana"? Risposta: "Si faranno le elezioni, chi si dimostrerà cattivo governatore sarà punito".

DIFFICOLTÀ ORGANIZZATIVE

Prima però bisogna non morire di stenti. Com'e possibile che il cavaliere nero della fame minacci o colpisca tre milioni di abitanti? Il governo sudanese ha lanciato il programma di autosufficienza "mangiare e vestirsi con quel che produciamo" e sostiene che le risorse del paese potrebbero nutrire tutti gli abitanti; mancano però, anche nel Nord del paese, strutture logistiche e comunicazioni tali da permettere ai contadini di vendere quel che producono. Manca anche il potere d'acquisto!

Che fa la cooperazione internazionale? Ma soprattutto come mai, in una tale tragedia, l'operazione ONU congiunta di aiuti umanitari Lifeline Sudan (condotta dal 1988 da PAM, Unicef e 40 Ong sudanesi, con il consenso di tutte le parti in conflitto) è considerata fra le più riuscite a livello mondiale?

"Perché lo è davvero" risponde Tiziana Boari del PAM, "solo che finchè ci sarà la guerra gli aiuti non saranno mai sufficienti, anche se bisogna dire che la maggior parte delle morti non è dovuta a fame vera e propria ma a malattie legate alle condizioni ambientali e all'acqua, aggravate certo dalla malnutrizione. Non è strano che intere zone siano tagliate fuori dagli aiuti per periodi più o meno lunghi. Anzitutto i bisogni da coprire sono enormi a fronte delle nostre risorse limitate: in Sudan la guerra fa sfollare le persone in zone più sicure abbandonando i campi e le coltivazioni. Poi vi sono difficoltà enormi di trasporto, le strade praticamente non esistono e soprattutto durante la stagione delle piogge che dura da aprile a ottobre, la distribuzione capillare è impossibile; d'altro canto i centri di smistamento dei viveri (sorgo, lenticchie, olio vegetale, prodotti proteici per i bambini al di sotto dei cinque anni), delle coperte, dei kit sanitari diventano irraggiungibili dalla gente -già indebolita- dei villaggi più isolati.

Inoltre, se i belligeranti non garantiscono corridoi di passaggio più sicuri via terra i convogli di aiuti non passano, rischiano di saltare sulle numerosissime mine o di trovarsi in al mezzo al fuoco. Spesso non restano che i lanci aerei: paracadutiamo i pacchi vicino ai centri di smistanento. Di aerei però ne abbiamo troppo pochi... Non bastano nemmeno gli addetti alla distribuzione, perchè le malattie tropicali li costringono spesso all'inazione" (il PAM non opera nelle zone dove non riesce ad avere un proprio addetto non sudanese). Lifeline Sudan è abbastanza efficace grazie all'inusuale coordinamento fra due agenzie ONU (PAM e Unicef) e decine di Organizzazioni Non Governative.

Si fa attenzione a non concorrenziare la produzione agricola locale: "nella stagione dei raccolti la razione viene dimezzata; il programma inoltre distribuisce semi e attrezzi agricoli"; per arginare la corruzione, le tangenti e i furti, la distribuzione dei "pacchetti" è affidata localmente alle donne dei villaggi. Lifeline Sudan non riguada solo il Sud del Paese: il Nord e soggetto alla siccità e affollato di profughi provenienti dalle zone di guerra. Un milione di persone a rischio è assistito al Nord a partire da Karthoum; un altro milione e mezzo nel Sud, via camion o aerea a partire dall'Uganda e dal Kenya. Aiutarli a sopravvivere, e poi? Tiziana Boari lavora con camion di sorgo e lanci aerei, non nella politica internazionale; tuttavia: "il mondo deve rendersi conto che la stabilità nel Sud Sudan è importante per tutta la regione".





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