Con la Liberia sotto i piedi Di Paolo Cereda, Pubblicato su "Il Resegone" di Lecco Sayon non conosce la famiglia Maconi, scappata da Monrovia sugli elicotteri americani insieme a qualche centinaio di stranieri. Sayon e’ liberiano e combatte dal 1990. "Nell'agosto ho visto i ribelli uccidere mio padre - racconta - stavamo scappando da Monrovia. Ha chiesto pieta’, ha detto di non essere un soldato e di voler stare con i suoi figli. Sono rimasto a guardare mentre gli legavano le braccia dietro la schiena. Poi gli hanno sparato alla testa e all'addome. E' caduto con la faccia a terra e lo hanno preso a calci... Ho fatto un lunghissimo viaggio da solo, con l'immagine di mio padre per terra che lottava contro la morte". Sayon aveva nove anni e venne subito reclutato e addestrato per uccidere. "Durante il primo attacco avevo paura e allora l'ufficiale mi ha dato 10 pillole. Mi sentivo coraggioso... Ho ucciso tanta gente che ho perso il conto. Quando supplicavano, non li sentivo... Mi pento solo di aver venduto a troppo poco il mio bottino: videocassette, stereo e vestiti... Di notte vedo le loro facce. Devo fumarmi una canna per dormire bene. Ho molta paura, di notte". Liberia 1996: un paese che esiste solo sulle carte geografiche e negli organigrammi della burocrazia internazionale; un paese vuoto: su una popolazione di 2,7 milioni di abitanti, 150.000 sono stati massacrati, altri 350.000 sono morti per conseguenza della guerra, quasi un milione sono scappati nei paesi vicini o sfollati nella capitale; il 95% della gente dipende dagli aiuti internazionali; ci sono circa 70.000 guerriglieri armati - di cui molti minorenni e almeno 2.000 bambini-soldato, baby killers come Sayon - che da sei anni saccheggiano il paese, sotto il comando di una decina di signori della guerra. Dall'inizio del conflitto si sono firmati dodici accordi di pace tra le fazioni mai rispettati; la forza di pace interafricana, l'Ecomog, e’ di fatto diventata una delle parti in lotta. Il silenzio della comunita’ internazionale sulla crisi liberiana e’ quasi totale. Unica risposta: un po' di aiuti umanitari per metterci la coscienza a posto. Ma la Liberia non era un paese ricchissimo, con diamanti, oro, caucciu’ e legname pregiato? Si’, e lo e’ ancora. Forse e’ proprio questa la sua "maledizione": lo sfruttamento selvaggio dei suoi doni naturali da parte di gangsters che devono finanziare la loro guerra per il potere. Cosi’, anche nelle fasi piu’ cruente degli scontri, gli impianti della Firestone non hanno mai smesso di trasformare il caucciu’ e i giganteschi camions di legname continuano ad uscire dal paese, per pochi dollari di pedaggio. Il legname poi arriva fino in Brianza e, come parquet, nelle nostre case. Con la Liberia sotto i piedi. L'unica risorsa abbondantemente sprecata e’ la vita umana: la popolazione disarmata come "vuoto a perdere". Le mafie che si combattono per il controllo del territorio non hanno alcun programma politico, nessuno statuto, solo ora un po' di paravento etnico. Al saccheggio mancava solo Monrovia, la capitale, che dopo sei anni di guerra era rimasta intatta. Ma gli accordi di pace, il governo di transizione di cui facevano parte quasi tutti i capi-banda, prevedevano l'arrivo in citta’ di combattenti armati. Per difendere i propri leaders. Non era difficile prevedere l'incendio della polveriera. Cosi’ ai primi spari, i bambini-soldato in cura al Centro di assistenza hanno ripreso il kalashnikov, sono tornati a uccidere e rapinare per le strade, sotto la regia dei capi. Il vescovo Michael Françis ha parlato di una generazione psicologicamente distrutta; della chiamata di Mose’ da parte di un Dio saturo del grido del suo popolo, delle bambine stuprate, dei bambini drogati e trasformati in assassini, della gente massacrata mentre invoca pieta’. Ma Mose’ risponde che fara’ di tutto per il popolo in esilio: nutrira’ i bambini affamati, cerchera’ vestiti e coperte, curera’ gli ammalati. Ma non andra’ dai Faraoni che controllano il paese, perche’ lo uccideranno prima di ascoltarlo. E forse per i 70.000 armati non c'e’ altra soluzione che un Tribunale penale o un ospedale psichiatrico. Ma per tutti gli altri liberiani, che sono scappati per non uccidere o essere uccisi, la speranza di un futuro di pace non e’ ancora morta. E' per loro che "si deve fare qualcosa", che si deve chiedere a Weah di andare laggiu’ e parlare alla sua gente - poiche’ oggi e’ l'unico liberiano a godere del rispetto di tutti. E' a loro che dobbiamo pensare, quando camminiamo sui nostri parquets.