Popoli - Culture e diversità

Le montagne Nuba

Articolo di Padre Kizito Sesana, pubblicato su "Linea d'ombra" Giugno 1996

Di miti, in Africa, ne restano pochi. Ricordo la mia delusione, nel 1978, arrivato da poco in Zambia, andai a visitare Mpezeni, il capo supremo degli Angoni. Avevo letto affascinato la storia degli Angoni, un gruppo di guerrieri che si erano staccati dalle falangi di Shaka Zulu in Sudafrica e durante la meta del secolo scorso si erano messi in marcia verso Nord, assoggettando tutte le tribù che trovarono sulla loro strada, sposando le donne locali, espandendosi fino a diventare un grande popolo. Hanno una leggenda che richiama il racconto dell'attraversata del Mar Rosso degli ebrei. Salendo verso nord si erano trovati di fronte allo Zambesi e non riuscivano a procedere. Allora il loro capo alzo le braccia e le acque del possente e rapido Zambesi, all'altezza di dove oggi c’è la diga di Cabora Basa, si fermarono.

Appena attraversato il fiume, mentre le acque riprendevano a scorrere, la moglie del capo diede alla luce due gemelli, che sarebbero diventati i leader dei due grandi gruppi di Angoni a Nord dello Zambesi. In Zambia essi furono gli ultimi ad arrendersi ai colonialismo britannico, e diedero battaglia avanzando con lance e petto nudo contro i fucili.

Pensavo a queste glorie passate mentre, alla guida di una 4 ruote su una pista polverosa, vi avvicinavo al "palazzo" di Mpezeni, poco lontano dal luogo dell'ultima resistenza Angoni agli inglesi. Ma il bisnipote di uno dei due gemelli, l'erede di tanta leggenda, era un quarantenne già ubriaco a meta mattina, interessato solo a sapere se gli avevo portato in dono qualche bottiglia di whisky, non informato su nulla, perfino disinteressato a notizie su progetti di sviluppo fatti per la sua gente. L'unico diritto ereditato dal bisnonno di cui faceva uso era quella di essere il primo ad assaggiare la birra preparata in ogni famiglia.

Ho visto troppe volte la mortificazione delle leggende, delle tradizioni, della dignità antica dei popoli africani per illudermi di trovare ancora delle tracce. Eppure sulle montagne Nuba ho ritrovato il mito. I guerrieri e i lottatori Nuba sono ancora quelli delle foto di George Rodgers e di Leni Riefenstahl. Non si dipingono piu il corpo con le figure geometriche che la Riefenstahl ha reso famose, non tutti hanno il fisico del vincitore portato sulle spalle del vinto della foto-simbolo di Rodgers. Oggi sono impegnati in una lotta più importante, la lotta per difendere la loro dignità di persone umane contro un regime che vuole annientarli.

Arrivare sui Monti Nuba oggi e difficile, più difficile che in passato, quando li si raggiungeva da Khartoum attraversando il deserto. Bisogna andarci illegalmente, su aerei che il governo di Khartoum potrebbe abbattere giustificando l'azione come protezione dell’integrità territoriale, o magari accusando che l'aereo trasportava armi. Ma visitare i Nuba e importante, non solo perché rappresentano uno degli ultimi miti dell'Africa, ma perché l'incanto dell'ambiente naturale delle Montagne Nuba, questi torrioni che si elevano sopra un mare di colline, l'architettura dei villaggi Nuba, con le loro case di pietra in cima a colline terrazzate, aiutano a capire l'animo di questa gente forte che nei secoli ha tenuto vivo l'orgoglio di essere africani. Recentemente un amico africano mi diceva una frase che non può essere capita da chi vede l'Africa come l'immigrato alla deriva per le strade delle grandi città europee, i sotterranei della storia, l'inferno dei emarginati.: "Essere africano e un dono. In termini cristiani si direbbe che e una grazia". Il conoscere i Nuba mi ha fatto capire questa verità più in profondità.

Le Montagne Nuba coprono un'area di 50,000 kmq quasi esattamente nel centro geografico del Sudan, il paese che con oltre due milioni e mezzo di kmq e il più grande dell'Africa. Le Nuba non sono montagne nel senso normale del termine. E' piuttosto un'area collinosa, mediamente 500 s.l.m., da cui si elevano alcune rare montagne, che raggiungono solo i 1,500 metri s.l.m., ma che hanno pareti scoscese che, all’altezza massima si adagiano in vasti altipiani.

Sono delle fortezze naturali, e pochi uomini armati possono difendere con facilita i sentieri che si inerpicano ripidissimi fra le rocce. Dal punto di vista etnico e una zona di confine ed un microcosmo dell'Africa. A nord si entra nell'Africa arabizzata. Appena più a sud si trovano gli Shilluk, il primo gruppo Nilotico, la cui cultura si e sviluppata sulle sponde e nelle paludi del Nilo, un ambiente completamente diverso da quello delle Montagna Nuba,. Qui, sulle Montagne Nuba, si sono rifugiati e arroccati nel corso dei secoli gli schiavi fuggitivi dalle carovane di mercanti di schiavi che dal cuore dell'Africa portavano la loro mercanzia umana verso il mondo arabo, l'Arabia in particolare. Già subito dopo l'espansione dell'Islam e il crollo dei regni cristiani nella Nubia, poco più a nord di qui, alcuni gruppi etnici si rifugiarono sulle montagne.

Ma successivamente Ashanti, Shona, Fulani, Bemba, Lozi, singoli e gruppi familiari di tutti i popoli africani si sono ritrovati qui. Fra i Nuba si distinguono 52 gruppi etnici, ognuno con un nome particolare, una lingua (spesso con chiari legami con la lingua del gruppo etnico originale di appartenenza), cultura e tradizioni diverse. Per esempio nell'architettura Nuba le abitazioni sono costruite con materiali e su disegni estremamente diversi, dai muri a secco e bombati che ricordano le rovine dello Zimbabwe alla creta con porte circolari che ricordano le forme architettoniche dei Dogon del Mali. Alcune tradizioni, come quella della lotta libera a corpo nudo, sono diffuse fra quasi tutti i gruppi etnici, ma i rituali preparatori, il modo con cui i corpi vengono dipinti, variano a seconda dei gruppi.

Eppure questa grande varietà culturale all'interno di un gruppo umano che non raggiunge i due milioni di persone, non ostacola il senso di una comune identità. Alla domanda "Di dove sei?" la risposta non sarà mai "sono un Tira, o un Otoro, o Tullishi, o Moro, o Miri" o qualsiasi dei 52 gruppi, ma piuttosto un "Io sono Nuba".

Paradossalmente, identità Nuba e nata dall'oppressione che costituisce la fondamentale esperienza storica di questo popolo. Nuba e una parola che non esiste in nessuna lingua indigena, ma e la parola usata da secoli in Egitto e nel Nord Sudan per definire le genti nere a sud, considerati potenziali schiavi.

L'amore per la musica e la danza, comune a tutti gli africani, fra i Nuba e particolarmente spiccato. Il musicologo Gerd Baumann ha scritto nel 1987: "Musica e danza non sono riservati e specialisti o professionisti, ma parte normale dell'esperienza di vita di ognuno... In un villaggio di Miri non c'e persona, non importa se dura d'udito, zoppa , o malata di mente, che non sia coinvolta in musica e danza in diverse occasioni parecchie volte al mese, e non c'e giorno in cui musica o danza non sia fatta in una casa o l'altra, in un campo che viene preparato alla coltivazione, nella piazza del villaggio. Invece che un'occasionale divertimento, musica e danza sono parte intrinseca della vita sociale".

Le diverse società Nuba hanno in comune l'assenza di un potere centralizzato. Non hanno mai avuto capi. I "capi" sono stati inventati e imposti verso il 1920 dal colonialismo inglese, che aveva bisogno di intermediari locali per poter applicare il principio dell’indirect rule", ma non sono mai diventati parte integrante del modo di vita dei Nuba. Ancora oggi, come e stato per secoli, la coesione sociale dei diversi gruppi, e garantita dal rispetto della tradizione, da consultazioni a livello di villaggio, dal consenso necessario per implementare ogni decisione importante, e da istituzioni come i sacerdoti delle religioni tradizionali (kujur) e dai gruppi di età. Il Nuba e abituato ad essere consultato ed ascoltato nella gestione ordinaria della vita sociale, e a maggior ragione quando sono in gioco decisioni importanti per il futuro di tutti. Questo atteggiamento ha profondamente influenzato anche lo SPLA (Sudan People Liberation Army) che sulle montagne nuba ha assunto un suo volto particolare ed e stato fin dagli inizi della sua presenza costretto ad abbandonare la rigidità ideologica che lo caratterizzava.

Nonostante l'isolamento i Nuba hanno subito un processo di islamizzazione, che e avvenuto spontaneamente, soprattutto all’inizio di questo secolo. L'amministrazione Britannica nel 1922 con la Closed District Ordinance isolo i Nuba, sanzionando un dato di fatto. Ma se nessuno entrava nella zona delle Montagne Nuba, non era proibito ai Nuba di andare a cercare loro a El Obeid e Khartoum. Molti ritornarono islamizzati, e iniziarono un processo che poi fu continuato dai mercanti arabi, al punto che oggi l'Islam, nella sua forma "africanizzata" - cioè tollerante e con elementi della tradizione africana - e la religione di almeno il 40% dei Nuba. Nelle scuole si incomincio ad insegnare che i Nuba erano Arabi e Musulmani.

Ma già i Nuba stavano perdendo coscienza della loro diversità. Negli anni 60, l'attuale comandante dello SPLA, allora studente a Khartoum, scriveva in una poesia in lingua araba intitolata "My Africaness":

Brothers, with thousands of my apologies forgive me,
forgive me for my frankness and my courage.
Let me tell you:
despite all the talk about my Arabism, my religion and my culture, I am a Nuba.
I am Black. I am an African.
Africaness is
my identity. It is entrenched in my appearance, it is engraved in my lips and
manifested by my skin.
My Africaness is in the sound of my footsteps,
it is in my bewildered past, and in the depths of my laughter.
Brothers, forgive me for my frankness and courage,
despite my grandfather's humiliation
despite my grandmother's sale into slavery
despite my ignorance,
my backwardness and my naivety my tomorrow will come.
I shall crown
my dignity with knowledge I shall light my candle in its light
I shall build my civilization.
At that time I shall extend my hand
I shall forgive those who tried to destroy my identity because
love and peace are my aspirations.

Quali sono i fattori che hanno nel giro di pochi anni reso i Nuba cosi pericolosi agli occhi di Khartoum da scatenare contro di loro una della più metodiche e feroci operazioni di "pulizia etnica" mai viste in Africa?

Secondo Alex de Waal e Johannes Ajawin, autori di "Facing Genocide: the Nuba of Sudan", la denuncia più documentata e precisa su quello che oggi sta succedendo sulle Montagne Nuba, pubblicata in luglio dello scorso anno a Londra da African Rights, ciò che ha provocato il deterioramento dei rapporti tra Khartoum e i Nuba sono state delle cause concomitanti, il cui sottofondo e di natura economica.

Le terre dei Nuba sono le più fertili del Nord Sudan. E alcuni dei gruppi etnici Nuba sono tra i migliori agricoltori dell'Africa. Basta vedere le falde delle montagne Lomon accuratamente terrazzate, dove in piena stagione secca, crescono rigogliosi pomodori, cipolle e tabacco, irrigati a mano dai contadini che pazientemente attingono acqua a due/tre metri di profondità usando gusci di zucche essiccati, per rendersi conto di questa verità.

Sono pero le vaste terre ondulate alle base delle montagne che hanno attirato l'attenzione degli uomini politici e dei ricchi commercianti di Khartoum. Cosi negli anni settanta, con grandi prestiti delle banche islamiche, inaccessibili ai contadini Nuba, la borghesia di Khartoum comincio a spartirsi le terre Nuba e ad introdurre l'agricoltura meccanizzata per la coltivazione del cotone, sorgo, tabacco, arachidi, sesamo. La presenza di questi vasti progetti, di migliaia di ettari, inasprì le relazioni della borghesia araba sia con in Nuba che con i Baggara (nomadi arabizzati e musulmani). Questi ultimi, che da secoli vivono in simbiosi con i Nuba, videro le terre tradizionalmente riservate ai loro pascoli stagionali, e al transito delle loro numerose mandrie, trasformasi in fattorie. I casi di sconfinamento del bestiame e dispute sulla proprietà terriera aumentarono .I tribunali diedero sempre ragione agli arabi immigrati contro i Baggara e i Nuba, e ai Baggara contro i Nuba. I Nuba non solo perdevano metodicamente tutti i casi in tribunale, ma vedevano la polizia e l'esercito mettersi al servizio dei mercanti arabi e diventare i principali attori dei suprusi contro di loro. Questo fu probabilmente il fattore più importante che fece crescere il malcontento dei Nuba e li preparo ad accettare lo SPLA come una risposta alla prepotenza di chi voleva impossessarsi delle loro terre.

A queste dimensione di natura prettamente economica il governo ha dato una copertura religiosa, culminata nel 1992 con la proclamazione della Jihad, guerra santa, contro i "ribelli infedeli, nemici della religione e della nazione". Nel frattempo lo SPLA, consolidatosi nelle grandi paludi del sud, soprattutto fra i Dinka e i Nuer, tento di penetrale nelle Montagne Nuba. All'inizio i soldati dello SPLA, privi di ogni formazione politica, tutti non-Nuba e comandati da non-Nuba, si resero colpevoli di atrocità non minori di quelle del governo. Chi conosce la storia dello SPLA di quel tempo e la mentalità militaresca e dittatoriale di John Garang, il leader dello SPLA, sa che il "movimento di liberazione" agiva spesso nelle zone "liberate" come un'armata di occupazione, con i civili alla totale merce dei guerriglieri. Cos i Nuba si trovarono fra due fuochi: da una parte sporadici e feroci attacchi dello SPLA, dall'altra lo scatenarsi di una metodica e brutale repressione governativa.

Solo nel 1989 lo SPLA riuscì a stabilirsi definitivamente sulle montagne. Sotto la guida del comandante Yusuf Kuwa, Nuba egli stesso, riuscì a controllare i suoi uomini, tra i quali la percentuale di Nuba e continuamente crescita fino a raggiungere oggi il 100%, e contenere progressivamente i casi di abusi. Il carisma di Kuwa ha trasformato lo SPLA da esercito di occupazione a movimento indigeno.

Kuwa rimpiange che i quaderni in cui annotava i suoi versi in arabo siano andati perduti. Li aveva affidati ad amici che stavano nel quatier generale dello SPLA a Addis Abeba, e sono andati perso quando il regime di Menghistu, amico e sostenitore di Garang, venne rovesciato.

Ma oggi Kuwa non ha più tempo per scrivere poesie. Il 14 aprile 1996, a Tendri, indicando le capanne e i campi bruciati, i grandi granai di creta sventrati, Kuwa diceva: "Un convoglio governativo con 8 veicoli e 700 soldati e venuto qui il 24 marzo. Ha razziato il bestiame, saccheggiato le case, bruciato i raccolti. Noi siamo riusciti a fermarli e a respingerli fino a Kadugli, la capitale regionale, solo il giorno dopo, quando abbiamo potuto raggruppare le nostre forze. Non ci sono state vittime fra i civili, perché erano stati tutti evacuati. Ma questa azione dipinge bene qual genere di guerra i fanatici musulmani di Khartoum stanno conducendo: e una guerra contro la popolazione civile, per ridurla alla fame, costringerla a rifugiarsi nei "campi della pace", assoggettarla, distruggere la loro identità Nuba e trasformarli in rassegnata mano d'opera a buon prezzo per le grandi fattorie che sono previste in questa zona".

De Waal e Ajawin parlano di genocidio. Un genocidio consumato non necessariamente con l'eliminazione fisica della gente, ma con l'annientamento della loro identità culturale e con la trasformazione genetica. Nei "campi della pace" i bambini Nuba vengono separati dalla famiglia e istruiti nel musulmanesimo più fondamentalista per fare le guerra santa contro i loro connazionali, e le donne vengono sistematicamente violentate, cos che la prossima generazione Nuba sia anche geneticamente più araba che Nuba.

Jacob Hassan ha poco più di quarant'anni. Assistito da un vicino che e anche un famoso lottatore, Noah Musa, dal figlio diciassettenne Yunan e dall'ultima figlia, Teresa, sta ricostruendo la casa. Il tetto e stato bruciato, le pesanti travi della palma di "deleb" che vengono usate per l'armatura, cadendo hanno fatto crollare parte del muro. Yunan ripulisce le pietre annerite, il padre le prende, le studia, le posiziona attentamente. Il muro sale con lentezza, il sole si fa forte. Jacob beve un sorso di merissa e dice. "Io da qui non mi muovo. Che vengano cento volte a distruggermi la casa e il raccolto, io ricostruirò la casa cento volte, e riseminerò cento volte. Questa e terra Nuba e noi siamo Nuba".

A una ventina di chilometri c'e un villaggio, Karkarai, che venne distrutto nel febbraio dello scorso anno come lo scorso mese e stato distrutto Tendri. Il villaggio e stato ricostruito a cinquecento metri di distanza dal precedente. La vita ha ripreso normalmente. Marko, il diacono della chiesa anglicana, dice: "Abbiamo avuto un anno difficile, abbiamo sofferto la fame. I nostri bambini erano indeboliti e quando lo scorso ottobre e arrivata l'epidemia di morbillo quasi tutti quelli fra i due e i sei anni di età sono morti. Ma noi vogliamo essere padroni della nostra terra e scegliere la nostra fede. Siamo Nuba, e nessuno può parlare per noi o scegliere per noi".

Joseph Aloga e un catechista cattolico che fa il radio-operatore per la locale postazione dello SPLA. Quando Tendri e stata attaccata la moglie col l'ultimo nato di pochi mesi era in cammino verso il villaggio della suocera, un viaggio di cinque giorni, per farle conoscere il nipotino. Joseph era andato a riparare la radio di un'altra postazione e il figlio di 5 anni era affidato ai vicini. Joseph ha perso tutto, anche le sue più grandi ricchezze, una Bibbia in inglese e un orologio. E' calmo. "La prima volta che l'esercito di Khartoum mi distrusse la casa fu a Um Derdu, nel 1985. Allora uccisero anche il mio migliore amico, Jimmu, e altri tre cristiani. Adesso hanno fatto solo danni alle cose. La mia casa, insieme ad un migliaio di altre, e stata completamente saccheggiata e i miei raccolti bruciati. Mi hanno portato via anche la zappa, che ero riuscito a modellare da una scheggia di bomba. Ma si sbagliano se credono di vincerci. Saranno loro i primi a toccare la terra con la schiena" dice, riferendosi alla regola che determina che vince nella lotta.

In questo i Nuba sono fedeli al mito. La loro lotta, la loro voglia di dignità e di indipendenza non appartengono solo al passato. Se George Rodgers e Leni Riefenstahl potessero tornare non riuscirebbero più a fare le immagini di riti che la guerra impedisce di celebrare e magari fa dimenticare. Ma sarebbero sempre immagini che da un lato esprimerebbero la forza, con i volti nobili, le rocce, la lotta, i soldati armati, dall'altro la dolcezza, il canto, la danza, la poesia, il senso artistico di questa gente che si rifiuta di morire.

Renato Kizito Sesana






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