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N.1 - Marzo 1998

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Rwanda

Riconciliazione lontana per il Rwanda?

di Babu Ayindo

Lo scrittore Babu Ayindo ha partecipato alle sessioni dell'International Criminal Tribunal for Rwanda (tribunale internazionale per i crimini in Rwanda) (ICTR) che si sono svolte ad Arusha, nella Tanzania settentrionale. In questo articolo sostiene che, in linea di principio, dato che l'ICTR si fonda su un "paradigma" giudiziario punitivo, non è in grado di promuovere una genuina riconciliazione nella nazione centroafricana.

Il Tribunale Internazionale per i Crimini in Rwanda (ICTR) tiene la sue sessioni ad Arusha, Tanzania. Per motivi di sicurezza, l'identità dei testimoni è segreta. Sebbene sia impossibile vederli dalla tribuna del pubblico, è facile immaginare la realtà sociale che circonda i testimoni: schiacciati tra uomini e donne di tutti i colori che indossano toghe all'occidentale; la scena è pacata e formale, e forse il testimone vede gli accusati, Clement Kayishema e Obed Ruzindana, per la prima volta dagli atti del 1994 loro imputati. Pochissime sono le cose con cui il testimone, forse anche vittima del genocidio, può identificarsi: è un processo in un mondo straniero. Questo non è un mondo dove possa lamentarsi, piangere e sperare di imbarcarsi per un viaggio che lo aiuti a ristabilirsi. Il testimone viene messo sotto processo più dell'accusato; la sua storia deve corrispondere a quanto ha detto agli investigatori, per non fornire agli avvocati della difesa le armi di cui hanno disperatamente bisogno; deve limitarsi a quanto ha visto e sentito, non quello che ha provato o subito, perché è così che la legge funziona. Quindi premetto che, secondo me, il tribunale di Arusha ha pochissimo potenziale per stimolare la riconciliazione in Rwanda.

Basti dire che il principio punitivo di crimine e giustizia su cui si basa l'ICTR, discorda dall'ottica di molte comunità africane. Enfatizzare la punizione è il modo più sicuro per avvelenare i germi della riconciliazione. La punizione serve solo a trasformare i colpevoli in eroi, significa punire nuovamente le vittime e incoraggiare la violenza.

Howard Zehr ha scritto un libro introspettivo, 'Changing Lenses', in cui identifica e valuta i nostri presupposti sul principio di crimine e giustizia nei sistemi giudiziari fortemente punitivi. In linea di massima, solleva diverse questioni sul modello giudiziario punitivo.

  • Il crimine è una mera violazione contro lo Stato e le sue leggi, o è essenzialmente violazione contro le persone e i rapporti sociali?
  • La giustizia dovrebbe concentrarsi sull'amministrazione della pena o sull'identificazione di esigenze e obblighi?
  • Dovremmo valutare le pene da infliggere al colpevole o cercare di fare in modo che tutto si svolga correttamente?
  • Dobbiamo cercare giustizia attraverso il conflitto tra avversari, in cui il colpevole si contrappone allo stato, o dovremmo invece incoraggiare il dialogo e la reciproca comprensione riconoscendo ai colpevoli e alle vittime un ruolo centrale? - e ancora,
  • le norme e le intenzioni dovrebbero avere più importanza dei risultati o dovremmo giudicare l'efficienza del nostro sistema giuridico dal grado in cui vengono assunte delle responsabilità, soddisfatti dei bisogni e incoraggiato il recupero delle persone e dei rapporti sociali?
Molti africani non troveranno nulla di particolarmente nuovo nell'ottica di Zehr, dato che nella maggior parte delle culture africane, i criminali sono tenuti a rimediare alla rottura dei rapporti con la vittima. Nel cuore della maggior parte dei sistemi giudiziari africani, è forte l'esigenza di reintegrare nella società sia il criminale che la sua vittima. Sfortunatamente oggi gli africani sono zelanti seguaci dei modelli giudiziari occidentali che alienano vittima e colpevole dalla società. In questo senso, l'intangibile comunità internazionale diventa improvvisamente la vittima, e le vere vittime del genocidio diventano meri spettatori.

Riuscirà il tribunale di Arusha ad aiutare coloro che giudicherà colpevoli a identificare esigenze ed obblighi? Incoraggerà il colpevole a cercare di riparare la situazione? Se i signori Kayishema e Ruzindana fossero giudicati colpevoli, al momento di ricevere la punizione, la loro reazione probabile sarebbe razionalizzare le loro azioni e riflettere su se stessi.

Attraverso il "debito processo", il testimone/vittima deve rivivere l'evento senza supporti. Immagino che i veri dettagli non vengano mai raccontati alla corte, perché la vittima può raccontare al tribunale solo quello per cui riesce a trovare le parole o che sia pertinente al caso. E naturalmente non sta a lui decidere quale parte della sua storia sia pertinente. Non sono neanche persone che conosce a deciderlo. Quello che è "ammissibile", è prerogativa degli amici istruiti.

Invece di salvaguardare i deboli legami relazionali per stimolare la riconciliazione, il tribunale alimenta l'antagonismo. La storia viene sottratta alla vittima, a volte viene mutilata. Credo che il testimone/vittima lasci il tribunale amareggiato, respinto, umiliato. Non gli viene dato spazio per permettergli di appropriarsi della storia, persino per capire se stesso e poter iniziare il cammino della ripresa. Gli psicologi ci dicono che, appropriarsi del proprio vissuto, è parte integrante del processo di guarigione.

Esistono altre questioni alle quali la vittima ha disperatamente bisogno di trovare risposta, altrimenti ne proporrà lui stesso. Ad esempio, il testimone/vittima ha assolutamente bisogno di sapere perché la propria moglie, padre, figlia, ad esempio, sono stati mutilati o uccisi. Ma la risposta a queste domande, vitali per il processo di recupero, non sono cose di cui si occupa il tribunale. Una volta imprigionati o prosciolti i colpevoli, le vittime dovranno vivere senza che queste domande vitali abbiano trovato risposta. Dovranno lenire le cicatrici nel modo che riterranno più opportuno. Solo Dio sa come.

Alla fine della giornata, il successo del tribunale verrà determinato non dal grado di risanamento del paese centroafricano, ma da quanto velocemente i casi siano passati attraverso la macina dell'ICTR. Dovrei aggiungere che anche i condannati hanno dei bisogni che dovrebbero essere soddisfatti, ma non a spese delle vittime.

Sebbene nutra grande rispetto per la storia, credo fissarsi sul passato non stimoli un futuro sano per il Rwanda. Il processo è ostinatamente concentrato sul passato. In questo senso, è potenzialmente incapace di sviluppare una causa suscettibile di realizzare la pace. La Commissione Sudafricana per la Pace e la Riconciliazione (TCR) sembra più concentrata sul futuro, in modo che la storia oscura illumini il presente e guidi il futuro. La mia impressione è che, nello spirito e nell'essenza, l'ICTR faccia bene a concentrarsi sul passato, ma che vi si smarrisca.

Sono portato a credere che il tribunale di Arusha sia un esercizio pretenzioso da parte della comunità internazionale, per purgarsi dalla vergogna di non essere intervenuta rapidamente nel conflitto in Rwanda, e per coltivare un senso di colpa metafisico, perché è rimasta a guardare mentre un popolo rischiava lo sterminio. Non sono rimasto sorpreso quando, durante l'interrogatorio, un testimone è sbottato: "Onorevole presidente... tutti voi... i Tutsi sono morti sotto gli occhi della comunità internazionale... nessuno è venuto ad aiutarci."

Si potrebbe anche mettere in questione il tempismo del tribunale. Mentre le cose solo ora sembrano assumere una parvenza di stabilità, forse le NU farebbero meglio ad aiutare la ricostruzione sociale e il processo di pace, invece di finanziare un tribunale a migliaia di chilometri dal territorio del Rwanda.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sud Africa, nonostante l'apparente mancanza di un programma di ripresa globale per le vittime dell'apartheid e occasionali scene melodrammatiche, indica una strada più sicura per recuperare i rapporti e la pace per le generazioni future.

Definendo il colpevole nel senso tecnico del termine e applicando la punizione ai soggetti individuati, l'ICTR rischia di inviare un messaggio contrario alle proprie intenzioni. Come Zahr sottolinea:
"Gli studi sulla pena capitale non sono riusciti a dimostrare che la pena di morte sia un deterrente. Le prove dimostrano che l'esempio della pena di morte in realtà inciti alcuni soggetti ad uccidere. Apparentemente il messaggio ricevuto dai potenziali criminali non è che uccidere è sbagliato, ma che chi ci fa torto merita la morte."

Allora, quando i riflettori su Arusha si spegneranno, quale sarà il messaggio inviato? O meglio ancora, quale messaggio verrà recepito?

Gli psicologi ci hanno già avvertito sulla facilità con cui le vittime si trasformano in criminali. Azzardo dire che in Rwanda oggi sono molti a rimproverarsi di essere sopravvissuti mentre i loro parenti, amici, persone care hanno perso la vita sotto i loro occhi. La possibilità che queste persone compiano un suicidio o un omicidio è reale. E la comunità internazionale aiuterebbe di più il Rwanda sostenendo il paese nel processo di creazione di uno spazio per risanare le ferite del genocidio sul territorio rwandese, che mettere in piedi un anonimo esperimento giudiziario in un paese straniero.

Credo che qualsiasi cosa sia avvenuta in Rwanda nel 1994, offra al popolo di questo paese la possibilità di dare un volto umano al mondo. Sebbene persista un profondo senso di diffidenza, che del resto fa parte del processo di recupero, il popolo rwandese è in grado di seguire il cammino della rinascita.

Non m'illudo sulla possibilità che la ricerca di giustizia ci possa portare a una vera riconciliazione. Mi contento che altri elementi di questo processo, come la verità, il pentimento, il perdono e la pietà vengano almeno presi in considerazione dall'ICTR. Avrei desiderato vedere un forum dove, come per il TRC in Sud Africa, agli indagati viene offerta la possibilità di confessare i loro crimini e chiedere perdono. Mi sarebbe piaciuto vedere che i responsabili degli atti criminali facessero un gesto di pentimento verso le vittime e poi lo stato. In altre parole, mi sarebbe piaciuto vedere un forum che potesse creare spazio per la reintegrazione dei criminali e delle vittime nella società rwandese.

L'ultimo test al processo di riconciliazione sarebbe poi valutare la qualità dei rapporti dei sopravvissuti tra loro, con gli antenati, con chi non è ancora nato e, soprattutto, con Dio.

E' tempo di liberarci dalla superstizione del castigo. Nel frattempo, diffido del forum ICTR per quanto riguarda la costruzione di una piattaforma a sostegno del processo di riconciliazione in Rwanda.

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