AfricaI senza terra: mendicanti a casa propriaDi Cathy Majtenyi
Tutto ciò che il povero Griffiths Aaron Molefe è in grado di mostrare dopo quarant’anni di lavoro per un agricoltore bianco vicino a Waalkraal in Sud Africa è una piccola tenda e una baracca lungo la strada dove l’ultimo datore di lavoro l’ha sbattuto dopo avergli dato lo sfratto quattro anni fa. Questo è stato il riconoscimento riservato ad un uomo di 84 anni che ha lavorato sodo per quattro soldi nelle aziende dei bianchi da quando aveva 14 anni. Durante l’apartheid questo pover’uomo con moglie e 10 figli, si è spostato da un azienda all’altra, prima di fermarsi in una di queste per la bellezza di 40 anni! Molefe ha raccontato la sua storia ai partecipanti della Conferenza Mondiale contro il Razzismo, la Discriminazione Razziale, la Xenofobia, e l’Intolleranza (WCAR) che si è tenuta a Durban in Sud Africa. Infatti, prima della Conferenza vera e propria a livello governativo, si è tenuto un Forum non governativo di una settimana nel corso del quale la gente comune ha portato le proprie testimonianze e presentato la propria analisi del razzismo, della discriminazione razziale, della xenofobia e di altre gravi forme d’intolleranza che si verificano un po’ da tutte le parti del mondo. La storia di Molefe riflette molto bene uno degli argomenti principali del Forum delle ONG e riguarda un problema che affligge troppa gente in questo mondo tribolato. La proprietà e l’accesso alla terra dipendono quasi sempre dal colore della pelle e dalle dimensioni del borsellino personale. Secondo il Comitato Nazionale della Terra, un consorzio di organizzazioni non governative che in Sud Africa si batte per un’equa distribuzione terriera, durante l’apartheid, per esempio, il 13% della terra apparteneva alla maggioranza nera, mentre la minoranza bianca disponeva del rimanente 87%. Si noti che gli abitanti del paese sono una quarantina di milioni e la comunità bianca raggiunge a malapena il 15% della popolazione complessiva. Il Comitato ha organizzato con altri gruppi una serie di eventi durante il Forum delle ONG per facilitare una presa di coscienza sul nesso che esiste fra razzismo e problema dei senza terra specialmente in Africa australe. Secondo il Comitato, non è cambiato granché da quando l’apartheid è stato abolito ed è nato, nel 1994, il nuovo Sud Africa, soprattutto perché il governo sudafricano nell’approccio alla riforma agraria ha seguito una filosofia “di mercato” ispirata dalla Banca Mondiale che mira a garantire la terra solo a coloro che sono in grado di comprarla. Il rapporto del Comitato informa che dopo sette anni di riforma agraria, seguendo questa impostazione, neanche il 2% della terra è passata di mano dai bianchi ai neri e di fatto la maggior parte del paese (più dell’85%) rimane di proprietà dei bianchi. Aggiungendo che 19 milioni di poveri contadini neri sudafricani sbarcano a malapena il lunario nel rimanente 15% della terra, mentre milioni di disgraziati neri urbanizzati rischiano ogni giorno di esser cacciati dagli insediamenti spontanei ed “ illegali ” che circondano le città. Ma, non basta. C’è anche una marcata disparità nel modo in cui la terra viene sfruttata. Il Comitato informa che mentre le aziende di proprietà dei bianchi svolgono un’attività produttiva di carattere commerciale, le terre possedute dai neri garantiscono a malapena una produzione agricola di sussistenza. Il Comitato Nazionale della Terra stima che in Sud Africa ci siano ben 7 milioni di braccianti che lavorano e risiedono nelle aziende e che si trovano nelle condizioni di Molefe. In costante pericolo e timore di abuso fisico e sfratto. I lavoratori delle 60.000 grandi aziende agricole bianche che tuttora controllano la ricchezza della terra del Paese vivono e lavorano in condizioni molto simili alla schiavitù, lavorando da 6 a 12 ore tutti i giorni della settimana, ma guadagnando mediamente meno di cinquanta dollari al mese, una cifra con cui non si paga neanche una notte all’hotel a quattro stelle di Durban durante la Conferenza Mondiale. Il vicino Zimbabwe se la vede con la sua parte di ingiustizia. In quel paese 4000 proprietari terrieri, ovverosia lo 0.04% della popolazione, possiedono il 70% della terra, secondo un rapporto presentato in luglio dal Comitato degli Legali per i Diritti Civili che ha sede a New York. Nonostante questo e sebbene il governo dello Zimbabwe sia sempre stato al corrente che perfino negli atti delle Nazioni Unite si afferma che la questione della distribuzione della terra è stata uno dei problemi politici più critici che il governo si è trovato ad affrontare dopo l’indipendenza, è stato fatto ben poco finora per avviare adeguate riforme agrarie. In mancanza di un serio indirizzo politico, negli ultimi due anni il paese è caduto preda di una forma di anarchia che ha visto i veterani della guerra di indipendenza invadere violentemente ed occupare le aziende di proprietà dei bianchi. Una decina di latifondisti sono stati uccisi nel corso di queste occupazioni. Secondo un comunicato d’agenzia Reuters, il 7 settembre di quest’anno i rappresentanti dei vari governi del Commonwealth che partecipavano ad un incontro ad Abuja in Nigeria hanno patrocinato un possibile accordo di riforma agraria che dovrebbe garantire ai proprietari bianchi una compensazione “ completa ed adeguata”. Intanto il governo dello Zimbabwe, dal canto suo, ha già riservato al re-insediamento dei senza terra il 95% delle aziende dei bianchi per un’area arabile complessiva di 9,5 milioni di ettari. Una situazione del genere, in larga misura, si riscontra anche in Kenya, un’altra ex colonia con tanti latifondisti bianchi. In questo paese i kenyoti bianchi e le società multinazionali straniere possiedono la terra migliore e le più grandi aziende agricole. Questa dolente situazione trae origine dalle leggi coloniali, come l’ East African Acquisition of Lands Order del 1897, il Crown Lands Ordinance Act del 1902 e 1915 e il Native Land Trust Ordinance del 1930, che hanno posto le condizioni perché gli africani venissero spinti e segregati sulle terre meno produttive. Tutto questo si evince da un rapporto pubblicato l’anno scorso dalla Kenya Human Rights Commission (KHRC), un gruppo che si occupa dei diritti umani e ha sede a Nairobi. Nel rapporto si spiega che, di fatto, la rivolta dei Mau Mau degli anni ’50 si scatenò perché un numero relativamente piccolo di coloni bianchi aveva ricevuto le terre migliori del Kenya, addirittura il 20% della terra arabile del Paese. I governi del dopo indipendenza avevano sostanzialmente continuato la stessa politica coloniale, mantenendo gran parte della stessa legislazione e struttura organizzativa ed, avvalendosene, facendo man bassa, con la corruttela, delle terre migliori. Secondo il documento della KHRC, la mancata revisione di queste leggi ingiuste, dopo l’indipendenza, ha fatto sì che i nuovi governi continuassero a trattare i poveri kenyoti come cittadini di seconda categoria, lasciando raccogliere i frutti dell’indipendenza alla classe dominante e agli stranieri. Va tenuto a questo proposito presente che l’80% dei kenyoti dipende, per la sua sopravvivenza, dall’economia delle aree rurali. Questa iniquità di classe è sotto gli occhi di tutti ed in modo quanto mai vivido a Nairobi, la capitale del paese. Secondo le statistiche di Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite per la popolazione, il 60% dei due milioni di abitanti della città vive concentrata in un 5% dell’area residenziale. La questione della distribuzione diseguale della popolazione sulle aree urbane è stato uno degli argomenti discussi durante la riunione plenaria della Conferenza di Durban, tenutasi il giorno dopo che Israele e Stati Uniti avevano annunciato il loro ritiro. Il rappresentante di Habitat alla Conferenza, Joseph Igbinedion, ha argomentato il fatto che le popolazioni urbane hanno la tendenza a raggrupparsi secondo criteri culturali, razziali, sociali e di classe. Spiegando che la segregazione può costituire un importante fattore negativo di rafforzamento di svantaggi ed esclusioni e può condurre alla formazione di ghetti di paria o comunità di baraccopoli che godono di mobilità geografica e sociale assai limitata. Per questi motivi è estremamente importante che l’abitazione e la discriminazione vengano collocati nel contesto dell’indivisibilità e universalità dei diritti umani. Nel corso della riunione plenaria delle ONG della Conferenza è stata aperta una discussione anche sul concetto di “razzismo ambientale”, nell’ambito del quale il cattivo uso della terra e dell’ambiente circostante lede in maniera di gran lunga più forte i gruppi marginalizzati e vulnerabili. In Nigeria, per esempio, il territorio e l’ambiente in cui vivono gli Ogoni ed altre popolazioni marginali del delta del Niger sono stati devastati dalle operazioni di estrazione petrolifera condotte dalla Shell. Sia nell’ambito del Forum delle ONG che in quello della componente governativa della Conferenza, le questioni relative alla compensazione del razzismo ambientale, ai sistemi coloniali di esproprio della terra, alle attuali ingiustizie relative alla distribuzione della terra e ad altri aspetti sempre legati ai temi fondiari, avrebbero potuto essere ufficialmente incluse nelle discussioni che avrebbero dovuto portare al raggiungimento di accordi di riparazione dei danni. Ciò è avvenuto solo parzialmente e comunque con risultati deludenti. Il Comitato di Coordinamento delle Organizzazioni Non Governative Americane ha sostenuto che alle popolazioni indigene continua ad essere negato il diritto di ritornare alle terre che sono state loro sottratte e all’autodeterminazione. La mancanza di una base territoriale interagisce negativamente con altre forme di razzismo che colpiscono questa gente, dando effetto a significative violazioni dei loro diritti umani. Il Comitato ha sottolineato che la terra, meglio, la sua restituzione, costituisce la forma vera e corretta con cui ricompensare la violazione subita. Il Comitato Legale per i Diritti Civili nel suo intervento alla Conferenza ha fatto notare il fatto che diversi ministri africani che avevano partecipato a un incontro preparatorio alla Conferenza avevano pubblicato una dichiarazione congiunta riguardante le modalità con cui la comunità internazionale avrebbe dovuto compensare gli africani e i loro discendenti per i tragici effetti del commercio trans-atlantico di schiavi e, più generalmente per i danni inferti dalla dominazione coloniale europea. Da parte sua, Human Rights Watch, quando si è trattato di determinare i contenuti e le forme delle riparazioni ha richiamato l’attenzione sulle attuali disuguaglianze economiche e sociali piuttosto che sul semplice riconoscimento degli errori del passato. Sostenendo che fosse preferibile pensare ad una compensazione sotto forma di interventi a favore dell’istruzione, dell’edilizia popolare, della sanità di base e di altri aspetti sociali del genere, piuttosto che ricorrendo alla fornitura di beni di consumo. Mettendo in atto interventi progressivi e modulati nel tempo in grado di permettere alle diverse popolazioni di ricevere le riparazioni a misura dei bisogni e delle circostanze specifiche. I rappresentanti delle Organizzazioni Non Governative hanno sottolineato che, a giudicare dall’esperienza sudafricana, dello Zimbabwe e del Kenya, la questione della distribuzione delle terre, discriminata su base razziale e di classe, dovrebbe sicuramente ricadere nell’ambito delle diseguaglianze economico sociali causate dalla dominazione coloniale europea e quindi rientrare fra i fattori che esigono riparazione. In conclusione, comunque, le nazioni europee si sono “scusate” sul piano morale per il commercio degli schiavi, mantenendosi, però, ben lontane dall’affrontare concretamente la spinosissima questione della terra ed evitando accuratamente di parlare di qualsivoglia compensazione.
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