Torna alla homepage
    
Cerca nel sito con FreeFind
Clicca per mandare un email Scrivi a PeaceLink
Homepage  |  Chi siamo  |  Come contattarci  |  Mappa del sito  |  Come navigare nel sito  |  Aiuta PeaceLink
Editoriale

PeaceLink-News
L'agenzia stampa di PeaceLink

PeaceLink database
Una banca dati in cui sono state organizzate informazioni utili sulle associazioni e le riviste dell'area ecopacifista e del volontariato.

PeaceLink-Dossier

PeaceLink-Libri
Libri per imparare e aiutare

Appelli
Appelli medici e diritti umani violati

Appuntamenti
Calendario delle iniziative di Pace in Italia


Sostieni la telematica per la pace, versa un contributo sul c.c.p. 13403746 intestato ad Associazione PeaceLink, via Galuppi 15, 74010 Statte (TA) - PeaceLink 1995/2000

Grozny bombardata

Rassegna stampa Sulla Cecenia

Internazionale N. 81 - 2 GIUGNO 1995

CECENIA - Ribelli per necessità

JENNIFER GOULD, THE VILLAGE VOICE, STATI UNITI


Torna alla rassegna stampa
Jennifer Gould, inviata del Village Voice, è andata a vedere chi sono e come vivono i combattenti assediati sulle colline nel sudovest della Cecenia. Ha ascoltato le loro storie e le loro ragioni. Ora li chiamano banditi, un tempo erano semplicemente contadini, avvocati o medici

L'esercito russo continua a guadagnare posizioni nel sud e nel sudovest della Cecenia. Negli ultimi giorni ci sono stati pesanti scontri intorno a Orekhevo e a Bulmut. Intanto il Consiglio della federazione del Parlamento russo ha chiesto alla Corte costituzionale di verificare la legalità della campagna cecena. Prima di dare l'ordine di attaccare, Eltsin avrebbe dovuto proclamare lo stato d'emergenza nella provincia.

BAMUT, 2 MAGGIO 1995

Il rumore degli elicotteri è una presenza costante, li senti ronzare in lontananza, sorvolare la zona in perlustrazione o bombardare un villaggio vicino. È una sensazione surreale, come trovarsi sul set di Mash o magari Apocalypse Now, una buona atmosfera per una storia troppo lontana per essere vera. Qui, in un villaggio al sicuro sulle colline, sorseggio al buio il mio tè in compagnia di alcuni combattenti ribelli. Improvvisamente, a intervalli di pochi secondi, il cielo si illumina. Poi cominciano a piovere le bombe.

A differenza che nella capitale cecena, Grozny, non ci sono bunker sulle colline. Ci spostiamo rapidamente in una stanzetta sul retro, il posto più sicuro durante un bombardamento. Le pareti vibrano per le esplosioni. È un attacco a sorpresa: dev’essere un cattivo segno se persino i ribelli sembrano preoccupati. Ascolto gli elicotteri che volano proprio sopra di me, sapendo che non c’è nulla che io o qualcun altro possa fare per fermarli. Le bombe si allontanano. Poi tornano. I combattenti, nonostante il loro coraggio, non hanno stinger o altri missili per abbattere i velivoli militari. So che se riusciremo a resistere fino all’alba i russi probabilmente interromperanno il bombardamento per qualche ora, e così potremo superare i posti di blocco per raggiungere una zona più sicura prima che l’attacco riprenda. Oppure continueranno, lasciandoci intrappolati e isolati per parecchi giorni. Per il momento non possiamo fare altro che attendere al buio. È una notte senza sonno.

Anche prima della strage di Samashki, in cui centinaia di persone - secondo alcune stime addirittura più di 700 - sono state brutalmente massacrate dai soldati russi e dagli Omon [le truppe speciali del ministero degli Interni] mentre altre sono state torturate e deportate nei campi di prigionia, la Russia aveva cominciato quello che sembra un tentativo sistematico di sterminare la minuscola popolazione della Cecenia, un milione di abitanti.

Nel febbraio scorso l’Occidente fu sconvolto dalle immagini dei combattimenti strada per strada e dei bombardamenti che decimavano Grozny. Allora si pensava che l’assedio della capitale cecena fosse l’apice della guerra. Ma poi i russi hanno continuato a bombardare un villaggio dopo l’altro, sconfinando persino nelle vicine repubbliche autonome del Daghestan e dell’Inguscezia, anch’esse nel Caucaso.

I russi sostengono di attaccare i capisaldi dei ribelli, ma in realtà la maggior parte dei villaggi sono pieni di agricoltori e di gente fuggita da Grozny e da altri posti. Gli abitanti di questi villaggi a volte hanno dei fucili per proteggere le loro case - i ceceni sono notoriamente un rude popolo di montagna che impara a sparare e andare a cavallo in tenera età - ma la maggior parte delle armi sono state cedute ai ribelli, che si sono rifugiati sulle montagne del Caucaso per motivi di sicurezza, ma che si precipitano a difendere i loro villaggi quando i russi cominciano a bombardare.

Un viaggio folle

Mentre sfrecciamo sui campi accidentati con un camion nuovo di zecca, mi sento impacciata col giubbotto antiproiettile che ho sotto la giacca. Rimbomba una musica ballabile, la stessa dei club frequentati dai nuovi ricchi di Mosca, e intanto sorpassiamo uomini, bambini e pecore per dirigerci sulle montagne, la roccaforte dei ribelli. È un viaggio folle. Il nostro autista è un giovanotto atletico e benvestito con alcune cicatrici, denti d’oro, zuccotto musulmano e la mania di arrotolarsi le sigarette. "Prima era un uomo d’affari. Ora è un soldato", dice uno dei suoi compagni. Oltre i campi verdeggianti si trovano le colline e gli uomini armati. Abbandoniamo il camion e cominciamo la salita. In cima a un’alta collina restiamo senza fiato, sentiamo altre esplosioni e vediamo carri armati e dense nubi di fumo nero che si levano dal luogo del bombardamento.

Solo qualche giorno fa, l’esercito russo si è ritirato dal vicino villaggio di Bamut dopo due settimane di continui bombardamenti. Ufficialmente i russi hanno dichiarato di voler "risparmiare" il maggior numero possibile di vite umane, ma i combattenti ceceni e gli abitanti che sono riusciti a fuggire dal villaggio sostengono che i russi se ne sono andati per via delle perdite subite.

Alcuni uomini che sembrano spuntare dal nulla ci raggiungono sulla cima della collina. I primi indossano tute mimetiche, hanno dei mitra appesi alle spalle e legati alla vita, pugnali infilati nei pantaloni. Presto ne appaiono altri lungo il versante della collina, uno in jeans, maglietta rossa e scarpe da tennis e un altro con un paio di pantaloncini sportivi e in mano l’uniforme per cambiarsi. Il gruppo recupera dei mitra in un nascondiglio poco lontano e si arrampica sulla collina per salutarci. Il loro comandante, noto con il nome di battaglia di Nonno, è un contadino allampanato di mezza età con la faccia da attore, un paio di baffoni sale e pepe e un alto cappello di astrakan come quello dei montanari. "Se non ci fosse la guerra, ti porteremmo a pescare in montagna e metteremmo sul fuoco un montone", dice, e le profonde rughe del sorriso vengono accentuate dal sole del tardo pomeriggio. "È così che ci piace trattare i nostri ospiti. Ci chiamano banditi, ma io sono solo un contadino con sei figli che per tutta la vita ha lavorato la terra". Il comandante dichiara di aver preso le armi il primo giorno di guerra. "Io non sono per Dudaev [il presidente ceceno] o per qualsiasi altro uomo politico. Io sono per la libertà del mio paese. La Russia è ancora un impero del male, come diceva il vostro presidente, che ha provocato molti danni in tutto il mondo". Secondo il Nonno, "noi siamo un popolo piccolo, però siamo molto ricchi, abbiamo il petrolio e le montagne. I russi vogliono passarci sopra per spingersi avanti, fino alla Turchia".

Chi sono

I combattenti sono un campionario del tessuto sociale della Cecenia. Quando è scoppiata la guerra, i combattenti ceceni erano perlopiù esperti soldati delle speznaz (forze speciali) e fieri veterani che un tempo avevano combattuto con i russi in Afghanistan. Lo stesso Dzhokar Dudaev era un generale dell’aeronautica sovietica, decorato al valore durante la campagna afgana. Nei battaglioni di Grozny si arruolarono medici e avvocati, ragazzini quattordicenni e persino alcune donne. Ma molti del primo gruppo di combattenti sono morti. Fra i nuovi ribelli ci sono uomini di quasi tutti i villaggi della Cecenia, coinvolti nei combattimenti per difendere le loro case - contadini, agricoltori e anziani.

La tradizione cecena della faida di sangue - cento anni o sette generazioni, a seconda di cosa viene prima, per vendicare l’assassinio di un familiare - è più viva che mai. La faida di sangue, dicono i combattenti, non si estende a tutti i russi, solo a quelli direttamente responsabili dei massacri. "Voglio che la gente capisca perché combatto, cosa significa la libertà", dichiara un combattente. È colto, ha la tuta kaki e la barba ben curata. È soprannominato Lupo solitario, il simbolo della repubblica cecena separatista, e il profilo di un lupo solitario seduto sotto la luna è elegantemente riprodotto sul suo berretto verde militare.

"Prima della guerra lavoravo sodo. Avevo tre macchine, due appartamenti e una dacia", dichiara con orgoglio, accovacciandosi alla cecena mentre sgranocchia una manciata di semi di girasole, il popolare spuntino locale. "Ho deciso di combattere perché è una battaglia per la mia gente. I russi non hanno lo stesso spirito e non hanno alcun rispetto per le vite russe o cecene. Li ho visti fucilare donne e persino bambini. Se non avessero gli aeroplani sarebbe una guerra ad armi pari, ma anche così Allah vede tutto. Ti do la mia parola. Arriveremo fino a Mosca e vinceremo".

Un altro combattente, con la barba lunga, i denti macchiati di nicotina, il volto avvizzito e profondi occhi azzurri, annuisce in segno di approvazione. "Non avevamo mai combattuto così. Non abbiamo nessun altro posto dove andare", dice, scavando la terra con il pugnale. "È la vittoria o la morte. Combatterò contro di loro per tutto il resto della mia vita. Se non riusciremo a porre subito fine a questo conflitto scateneremo una guerra partigiana dalle montagne".

Mentre parla, un altro combattente a cavallo galoppa così rapidamente sotto di noi che fatico a vederlo.

I russi hanno nel sangue la paura dei ceceni. La Russia è sempre stata in guerra con il Caucaso del Nord negli ultimi due secoli, da quando lo sceicco Mansur guidò la prima ghazawat, la versione locale della jihad, nel 1783. Per la sua importanza geopolitica il Caucaso, che confina con la Russia, la Turchia e l’Iran, è stato vittima degli intrighi di tre imperi, quello britannico, turco e russo. Per la Russia, la regione garantiva quell’accesso ai mari caldi dell’Occidente cui Mosca ha sempre aspirato.

Da quando nel 1991 Dudaev ha proclamato l’indipendenza, non riconosciuta dall’Occidente, e ha umiliato le truppe russe accerchiandole nell’aeroporto di Grozny e non lasciandole uscire, gli uomini politici, dal presidente Eltsin all’ultranazionalista Zhirinovskij, hanno diffamato gli scuri ceceni dipingendoli come criminali ossessionati dalle armi. I politici russi, con l’aiuto di alcuni giornalisti, hanno strumentalizzato il fatto che gli uomini ceceni girano spesso armati anche in tempo di pace, e che alcuni di essi, per il gusto dell’eccentricità, amano vestirsi come i gangster americani, con tanto di completi vistosi, cravatte e cappelli di feltro.

L’immagine della Cecenia come terra di gangster si è diffusa anche in Occidente, soprattutto dopo l’assassinio, commesso a Londra nel 1993, di due ricchi fratelli ceceni che secondo Scotland Yard stavano cercando di vendere missili all’Azerbaigian, e dopo una truffa miliardaria architettata da alcuni ceceni ai danni della banca centrale della Russia. Ma contrariamente all’immagine che è stata loro imposta, i ceceni sembrano un popolo cordiale e ospitale, con un rigoroso codice d’onore. Assolutamente tutti, dagli autisti alle donne del mercato, insistono per offrirti da mangiare, anche se nelle loro case ci sono già decine di parenti e di rifugiati che hanno un gran bisogno della loro ospitalità. Le tazze del tè vengono costantemente riempite fino all’orlo. Un rifiuto viene interpretato come il segnale che volete andarvene.

I ceceni non attribuiscono la responsabilità della guerra ai soldati dell’esercito russo, giovanissimi coscritti che vengono dal Lontano Oriente o dalla Russia Centrale. Durante le prime fasi del conflitto alcune donne cecene, sebbene i loro stessi figli fossero coinvolti nei combattimenti, accoglievano i soldati russi nelle loro case, li sfamavano, com’è tradizione con tutti gli stranieri, e offrivano loro persino un bagno caldo. Molti soldati russi non avevano potuto lavarsi per settimane ed erano coperti di pidocchi.

I combattenti ceceni sostengono di aver trattato bene i prigionieri russi, anche se ora sembra che la situazione stia cambiando. "Quando sono arrivate le madri dei soldati russi, le abbiamo aiutate organizzando uno scambio di prigionieri", spiega un ribelle. "Ma i russi uccidono la nostra gente e torturano i prigionieri a Mozdok", la cittadina dove si trovano il quartier generale dell’esercito russo e un campo di prigionia tristemente famoso. Secondo un altro combattente "non possiamo dar loro troppo da mangiare quando i nostri stessi soldati non hanno di che sfamarsi".

Molti soldati sono prigionieri di uomini che erano stati loro commilitoni nell’esercito sovietico. "Ogni giorno mi chiedo perché li combattiamo", dichiara uno dei ribelli sulla collina. "Ci capita spesso di riconoscere gli uomini che stiamo combattendo e che facciamo prigionieri". I ribelli sono coordinati da due comandanti, Shamil Basajev, che controlla il fronte orientale, e un altro comandante sul fronte occidentale. "Il miglior modo di combattere è a piccoli gruppi", spiega un soldato. "Quanto più grande è il gruppo, tanto più alto è il numero delle perdite. Ma noi non abbiamo paura della morte. Quando combatti per la libertà, la morte significa il paradiso". Stando alle sue affermazioni, i ceceni conservano sempre l’ultima pallottola per se stessi. "Preferirei morire e veder morire i miei figli piuttosto che farli diventare schiavi".

Un comandante di campo ceceno sostiene che i ribelli hanno trovato sul cadavere di un graduato russo un documento ufficiale secondo cui il 70 per cento degli uomini ceceni fra i 15 e i 40 anni devono essere uccisi. "Vogliono una Cecenia senza i ceceni", commenta il comandante ripetendo uno dei ritornelli più popolari del Caucaso.

Guerra santa

Anche se alcuni combattono al loro fianco, gli stranieri non sono affluiti in massa come si aspettavano i ceceni, nonostante l’appello alla guerra santa. Ai combattimenti partecipano alcuni espatriati ceceni in Giordania e anche alcuni abcasi, sebbene essi stessi siano in guerra con l’ex repubblica sovietica della Georgia. Ma i principali paesi musulmani come la Turchia, l’Afghanistan (che è impegnato ad aiutare i combattenti del vicino Tagikistan) e l’Iran (che attualmente sta negoziando con la Russia un contratto nucleare), si sono tenuti in disparte. La mancanza di aiuti stranieri non sembra demoralizzare le forze cecene, anche se hanno un disperato bisogno di potenza aerea. In realtà, la lotta dei ceceni non è una guerra religiosa in senso stretto. I ceceni praticano una versione più blanda della religione islamica; prima che cominciasse la conversione, alcuni secoli fa, erano prevalentemente pagani.

In Cecenia la religione non si è radicata fino alla metà dell’Ottocento. Come spiega Lupo Solitario dalla sua posizione dominante sulle montagne, mentre più a valle il canto degli uccelli si fonde con il boato delle esplosioni: "La religione è senz’altro un fattore di questa guerra, ma si tratta anche di un conflitto politico. Allah ci aiuta con i mitra russi".

Uno dei ribelli delle colline si chiama Rosa, ha 29 anni, è minuta con occhi azzurri e risoluti e lunghi capelli scuri che le danno un’aria tipicamente cecena. In una terra dove le donne musulmane indossano fazzoletti multicolori, non osano farsi vedere in pantaloni e devono rimanere in casa a crescere i figli, mentre i loro mariti possono sposare altre donne quando diventano più vecchi, un combattente donna è un caso raro. Rosa è una componente essenziale del battaglione. Combatte con gli uomini, cura i feriti e ha saputo conquistarsi il rispetto di un mondo maschile.

Subito dopo il matrimonio è stata abbandonata dal marito, proprio allo scoppio della guerra, nel dicembre scorso. Quando i russi cominciarono a bombardare Grozny, Rosa lasciò il suo villaggio per trasferirsi nella capitale. "La prima persona che ho incontrato è stata una donna che aveva vissuto in Afghanistan con suo marito, un ufficiale sovietico, durante la guerra", racconta Rosa, che indossa una vivace gonna rossa e un fazzoletto di lana stampata. "Stava organizzando alcuni gruppi di donne per curare i feriti. Diceva che i combattenti hanno veramente bisogno dell’aiuto delle donne. Mi unii a lei quel giorno stesso".

Più tardi, mentre attraversiamo in macchina Grozny, Rosa mi indica i luoghi delle sue battaglie. Mentre la maggior parte dei residenti si nascondevano nei bunker, Rosa girava la città schivando pallottole, carri armati, missili, schegge e bombe incendiarie per trasportare i feriti e assicurare i rifornimenti a un bunker nel palazzo presidenziale, ormai carbonizzato. Buona parte delle donne cecene imparano sin dall’infanzia a sparare e usare il pugnale.

"Quando ho avuto il mio primo mitra non è stato affatto un problema", sostiene. "In alcune occasioni gli uomini dichiaravano di non volere donne tra i piedi, ma io andavo ugualmente. Ben presto i combattenti mi chiedevano di andare in perlustrazione con loro, anche se c’erano altre donne che si offrivano volontarie. Mi hanno sempre trattato con rispetto".

Oggi Grozny è una città incenerita, un simbolo di morte e sconfitta. Gli edifici bruciati sono così crivellati dai colpi dell’artiglieria pesante che ricordano gli elaborati merletti di una babushka russa. Tetti semidistrutti pencolano sui palazzi bombardati, che spesso sono ridotti a cumuli di macerie e vetri rotti, bossoli di proiettili e schegge di bombe da cui spuntano strani oggetti personali, come una teiera o un vecchio elmetto.

Sulle strade giacciono ancora dei cadaveri; la gente ha paura di rimuoverli per via delle bombe e delle mine inesplose. Mentre mi indica il luogo dove per un soffio non è stata uccisa, Rosa mi racconta di un suo compagno che, dice, le ha salvato tre volte la vita. "È un uomo forte, un combattente pronto a tutto", dichiara con orgoglio. Sebbene suo marito sia scomparso senza lasciare traccia di sé, Rosa è ancora considerata una donna sposata. In Cecenia, gli uomini possono divorziare dalle donne con una dichiarazione verbale in presenza di testimoni, ma le donne non possono fare altrettanto. Anche se le storie d’amore fra soldati uomini e donne sono, a suo dire, severamente proibite, sembra che abbia un rapporto speciale con l’uomo che le ha salvato la vita.

Quando combatte, Rosa indossa una tuta mimetica maschile e scomodi stivali militari come tutti gli altri soldati. "La prima volta che mi dettero una divisa ero così imbarazzata e avevo una tale vergogna che mi infilai una gonna sopra i pantaloni", racconta. "Ma il comandante disse che ero ridicola. ‘Questa è una guerra’ disse. ‘Tu combatti con noi come un uomo. Adesso per noi non sei una sorella ma un fratello’".

Eppure, secondo Rosa, esiste sempre una differenza. "Le donne hanno una resistenza molto maggiore degli uomini", dice come se fosse ovvio. "Passo giornate intere senza dormire. Quando gli uomini tornano dalla battaglia, sporchi e feriti, con i vestiti tutti strappati, mi prendo cura dei malati e lavo e rammendo le loro uniformi".

Oggi Rosa porta ancora la sua gonna rossa e le scarpe nere di pelle lucida che il suo soldato le ha procurato quando una bomba ha colpito un negozio di calzature. La sua giacca mimetica è piegata con cura accanto a lei. Ce ne stiamo seduti in cima alla collina ascoltando le bombe che cadono. Con l’avvicinarsi del tramonto l’aria diventa più fredda, e mi accorgo che Rosa si è allontanata. In disparte dal resto del gruppo, siede accanto al suo compagno tenendolo per mano. Parlano con dei bisbigli che a tratti si trasformano in risate. Gli altri soldati rispettano il loro isolamento.

La compravendita delle armi

È una strana guerra davvero: sulle strade cecene vedo avanzare i carri armati e i convogli dell’esercito russo con la bandiera rossa dell’Urss che sventola provocatoriamente nell’aria e anche Rosa indossa un berretto sovietico nero con la falce e il martello. Ma è ancora più strano vedere i ceceni che comprano le armi direttamente dai soldati russi. La compravendita di armi è un fenomeno di tali proporzioni che la corruzione deve necessariamente raggiungere i massimi vertici dell’esercito russo. "Se paghiamo in contanti, possiamo concludere tutti gli affari che vogliamo con l’esercito russo e con gli uomini dell’Omon", dice Rosa. "Qualche volta sono addirittura loro che vengono a cercarci".

Il battaglione di Rosa ha appena acquistato dai russi 36 mitragliatrici - pagandole circa un milione e ottocentomila rubli l’una - e duemila granate. "Il comandante ci prepara un elenco delle cose da comprare e noi trattiamo l’affare. "Sono i russi che stabiliscono i contatti. Non si tirano mai indietro. Ci sono dei russi che venderebbero persino la madre".

I ribelli corrompono i soldati russi anche per superare senza problemi i continui posti di blocco dislocati in tutto il paese. Rosa racconta che i civili contribuiscono allo sforzo bellico vendendo i loro oggetti personali e persino alcuni animali delle fattorie, in modo che i ribelli possano comprarsi i fucili. Alcune armi vengono acquistate all’estero, mentre il resto, compresi i veicoli corazzati, viene tolto ai russi morti in battaglia.

Quando scende la notte, i combattenti si dirigono verso il loro villaggio al sicuro sul pendio della collina. Rosa cucina un po’ di zuppa e di carne per gli altri soldati e spiega perché non può aspettare che la vita torni a essere com’era prima della guerra. "Non vedo l’ora di poter tornare nei campi, ma credo che la guerra continuerà per un bel pezzo".

Il bombardamento comincia dopo cena, è un attacco a sorpresa. Ma quello che succede subito dopo è, per me, uno dei ricordi più tristi della guerra. I ribelli in precedenza avevano negoziato un accordo con i russi perché non bombardassero la zona dove ci trovavamo, e in cambio si erano impegnati a non introdurre armi nella zona. "Questo non può succedere. L’avevano promesso", dice un ex architetto alto e barbuto mentre le bombe piovono sul villaggio. Scioccato per il mancato rispetto di questa promessa, afferra il mitra e annuncia che intende fare due chiacchiere con il comandante russo. Come potesse immaginare che i russi onorassero un patto fra gentiluomini nel bel mezzo della guerra e potesse poi rischiare la propria vita per andare a trattare con loro imbracciando un’arma che si era impegnato a non avere, mi sembra assurdo e sconcertante, come del resto tutto quello che ho visto qui.

Nella stanzetta sul retro, il nostro ospite spinge una sedia accanto alla mia e cerca di chiarire brevemente la situazione. Si è assunto il compito di farmi da guardaspalle, ma non c’è proprio nulla che possa fare, gli assicuro, se ci cade in testa un bomba. Rosa è così stanca che dorme per tutto il tempo dell’attacco. All’alba torna il silenzio. Rosa vuole andare immediatamente sul luogo della battaglia per offrire il suo aiuto. Io, al contrario, ho una gran fretta di andarmene prima che ricominci il bombardamento. Il nostro autista, come gran parte dei ceceni, è così poco turbato dagli attacchi che insiste per avere la sua tazza di tè prima che venga presa una qualsiasi decisione. (G. C.)