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Grozny bombardata

Rassegna stampa Sulla Cecenia

Le Monde Diplomatique - Ottobre 1999

ALLARME NEL CAUCASO

Dal Daghestan alla Cecenia, escalation militare e "pericolo islamico"


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Quando l'aviazione russa ha cominciato a bombardare Grozny, in Cecenia, facendo vittime soprattutto tra la popolazione civile, il quotidiano moscovita Izvestia rilevava le similitudini tra questa azione e la guerra condotta dalla Nato in Serbia, guerra che il Cremlino aveva duramente condanato. Adesso, in piena escalation militare russa, decine di migliaia di ceceni scappano dalla loro repubblica, diventando talvolta bersagli inermi delle truppe di Mosca. Il ricordo degli insuccessi del 1994-96 non ha fermato Boris Eltsin, e l'1 ottobre l'esercito russo ha varcato la frontiera cecena, per attestarsi lungo il fiume Terek, a 25 chilometri da Grozny, dopo un'avanzata sanguinosa che gli ha consentito di prendere in parte il controllo di un terzo della repubblica ribelle. L'opinione pubblica russa, traumatizzata dagli attentati terroristici che hanno fatto centinaia di morti, reclamava provvedimenti energici. E numerose sono le ragioni che hanno spinto il presidente ad agire. Eltsin può servirsi di questo conflitto contro i suoi avversari politici, alla vigilia delle elezioni legislative di dicembre e delle presidenziali dell'estate del 2000. D'altra parte il Cremlino vuole evitare la "perdita" del Daghestan, repubblica chiave del Caucaso del nord - e forse domani punto di passaggio obbligato verso il cuore della Russia petrolifera del mar Caspio. Infine Mosca vuole bloccare la disgregazione della regione, combattere l'anarchia che vi regna e assestare un duro colpo al fondamentalismo islamico armato, che ormai estende la sua influenza dal Tagikistan al Kirgizistan. Ma questi obiettivi sono alla portata di un potere sempre più in difficoltà?

di Alexei Malashenko*

In Russia l'estate 1999 si è conclusa sotto le bombe. Ancora una volta l'epicentro della violenze è stato il Caucaso del nord.

Gruppi armati ceceni, capitanati da Shamil Basaev e dal suo alleato, il giordano di tendenza wahhabita Khabib Abd Ar-Rahman Khattab, hanno invaso la repubblica del Daghestan, parte integrante della Russia, per "liberare" i loro correligionari dall'influenza di Mosca e per aiutarli a creare uno "stato islamico". Costretti in un primo tempo a ritirarsi non avevano ricevuto alcun sostegno dalla popolazione locale sono ripartiti all'assalto all'inizio di settembre. Questi attacchi e un'ondata di sanguinosi attentati terroristici a Mosca e in altre città hanno spinto il potere russo a organizzare una violenta controffensiva. Grozny e "le basi dei terroristi" in Cecenia sono state bombardate, mentre la repubblica è stata sottoposta a un blocco totale. Il 26 settembre 1999 il ministro della Difesa russo, Igor Sergeiev, parlava di "differenti versioni di un piano di operazioni terrestri", facendo temere una nuova guerra dopo quella che aveva devastato la regione nel 1994-96 (1).

In questo grave conflitto, scoppiato improvvisamente, è la stabilità dell'intero Caucaso del nord a essere messa in discussione. In un tale contesto il Daghestan rappresenta una repubblica chiave, sia perché serve come retroguardia all'esercito sia perché l'estensione dei disordini a questo piccolo paese significherebbe l'accelerazione della disgregazione della regione.

Il Daghestan il nome significa "il paese delle montagne" è la più estesa e la più popolata delle repubbliche del Caucaso del nord. Cinto di montagne a ovest e dal Mar Caspio a est, si estende per 50.000 chilometri quadrati e conta 2,1 milioni di abitanti divisi in più di quaranta gruppi etnici di cui i cinque più importanti gli avari, i darghini, i kumyk, i lezghini e i lakh occupano le posizioni politiche ed economiche dominanti.

Quanto ai russi, rappresentano meno del 10% della popolazione e il loro ruolo si va sempre più riducendo.

Il Daghestan dipende dal governo centrale più di qualunque altra repubblica della Federazione russa: il suo bilancio è finanziato al 90% da Mosca. Le grandi imprese sono sottoutilizzate e l'agricoltura è in uno stato pietoso. Gli stipendi sono da tre a quattro volte inferiori a quelli del resto della Russia. Secondo Magomedsalikh Gusayev, il ministro delle Nazionalità e degli Esteri, il 30% degli abitanti sono disoccupati una percentuale che, secondo altre fonti, sarebbe invece dell'80%. La disoccupazione ha considerevolmente aggravato una situazione sociale già degradata: gli scontri fra clan criminali, trafficanti di droga e responsabili di sequestri sono all'ordine del giorno.

La rinascita islamica L'aspirazione della popolazione a migliori condizioni di vita, all'ordine pubblico e a un lavoro ha alimentato due fenomeni contraddittori: la popolarità dei comunisti e la crescente influenza del radicalismo islamico. Durante le elezioni parlamentari del 1993 in Daghestan i comunisti hanno ottenuto il 50,8% dei suffragi e in occasione del primo turno delle elezioni presidenziali del 1999 il 63,3% dei voti sono andati a Gennady Zyuganov. Ci sono volute forti pressioni del Cremlino e alcune manipolazioni "tecnologiche" per rovesciare il risultato al secondo turno.

Nessuno sa come voteranno gli abitanti del Daghestan alle elezioni di dicembre per la Duma, ma è certo che i voti in favore dei gruppi che fanno riferimento all'islam politico aumenteranno. Alcuni li chiamano fondamentalisti o islamisti, ma la maggior parte li definisce "wahhabiti", in riferimento a una setta puritana fondata nella penisola arabica nel Diciottesimo secolo dal predicatore Mohamad Ibn Abdelwahhab. A essa si richiama la dinastia al potere in Arabia Saudita. Di fatto nel Daghestan si possono distinguere da un lato i fondamentalisti che fanno appello a "un islam puro", ma che non sono politicamente attivi , dall'altro i combattenti attivi, che si possono definire "islamisti".

Come sia, la maggior parte della popolazione, delusa dall'era postsovietica, scettica sulle possibilità di un ritorno a un regime comunista crudele ma rassicurante, poco fiduciosa nei propri dirigenti, è favorevole a uno stato islamico retto dalla sharia, la legge islamica. Tutti sono convinti che in un tale stato la giustizia sociale finirà per trionfare e che la sovranità di Allah darà quella stabilità tanto agognata.

Sebbene utopico, questo "progetto islamico" nato e cresciuto nel quadro di un vigoroso risveglio religioso riunisce le aspirazioni di molte persone disposte a combattere in suo favore.

Nel 1999 nel Daghestan si contavano ufficialmente 650 scuole religiose (madrasa) e 1.670 moschee in realtà sarebbero 5.000 rispetto alle quaranta di dieci anni prima. La più grande moschea della Russia è stata costruita a Makhachkala, capitale del Daghestan. Nella repubblica si contano anche 3.500 esponenti del clero, ma anche in questo caso il numero effettivo sarebbe molto più alto.

Queste statistiche rispecchiano solo parzialmente la rinascita islamica. Ormai la popolazione ha preso coscienza della sua natura "musulmana", dell'appartenenza a una umma (comunità) di 1, 2 miliardi di esseri umani. Minoranza in Russia, i musulmani del Daghestan capiscono che la loro influenza è molto maggiore sul piano mondiale.

Alleanze improbabili Accanto ad alcune forze che agiscono su base nazionale in particolare il Partito della rinascita islamica, Nakhdat, il Jamaat-ul-Muslim e l'Unione dei musulmani di Russia sono presenti a livello locale, in uno o più villaggi, centinaia di gruppi filoislamici costituiti su base etnica. Solo due importanti località di montagna nel sud-est, Shabanmakhi e Karamkhi, hanno apertamente annunciato la loro adesione al wahhabismo e instaurato la sharia.

Si sta formando una nuova élite fondamentalista che, pur non mancando di coesione e di esperienza politica, ha grandi ambizioni e aspira a esercitare un'influenza decisiva sul futuro del Daghestan. Gli islamisti si oppongono sia alle autorità locali, accusate di essere corrotte e sottomesse a Mosca, sia al clero conformista che appoggia le autorità e teme un radicalismo pericoloso per il suo prestigio e per la stabilità del paese.

All'inizio dell'anno le contraddizioni sono culminate nell'assassinio di Said-Mohammad Abubakarov, il muftì del Daghestan, che godeva di grande popolarità presso le autorità locali e a Mosca. Si era opposto alla radicalizzazione e al wahhabismo, ma allo stesso tempo era favorevole all'introduzione della sharia, a condizione che fosse armonizzata con le leggi della Federazione russa.

Nell'irrigidimento dei musulmani del Daghestan non sono da sottovalutare i fattori esterni. Secondo le cifre ufficiali 1.500 giovani di questa repubblica studiano in istituzioni e università islamiche del Medioriente e spesso ritornano influenzati da ideologie radicali, come il wahhabismo dell'Arabia saudita. D'altra parte sono presenti in Daghestan centinaia se non migliaia di predicatori stranieri (provenienti dal Pakistan, dall'Egitto o dalla Giordania) così come numerose organizzazioni spesso vicine all'Arabia Saudita, come l'Organizzazione internazionale islamica Taiba fondata da Ibraim Al Ibraim. Secondo alcune fonti sarebbe presente nella regione anche il gruppo di Osama bin Laden, l'oppositore saudita e "nemico numero uno degli Stati uniti".

In tre anni il ministro degli interni ha fatto arrestare più di quaranta stranieri impegnati in attività illegali, tra i quali arabi, afghani e tagiki. Si assiste anche allo sviluppo di forme di cooperazione regionali. Così nel 1997 un cittadino cinese è stato arrestato e riconsegnato a Pechino che, preoccupata per le attività islamiche nello Xinjiang, ha calorosamente ringraziato le autorità russe.

La crescente influenza dell'islam e la sua politicizzazione avrebbero dovuto spingere il Daghestan ad allearsi con la Cecenia, le cui autorità hanno ufficialmente proclamato uno stato islamico e introdotto la sharia. Del resto molti politici della repubblica ribelle sostengono l'idea di una struttura comune con il Daghestan, che prenderebbe il nome di imamato.

Alcuni radicali come Shamil Basaev e Movladi Udugov, ex ministro degli esteri, hanno spesso invocato la jihad, la guerra santa, per liberare i musulmani dalla tutela degli "infedeli", cioè della Russia. Hanno addirittura creato in Daghestan un consiglio islamico, la shura, i cui membri peraltro non sono molto influenti.

Tutti questi sforzi però non hanno dato i risultati sperati. Gli abitanti del Daghestan sanno che l'unificazione potrebbe significare tutt'al più una semplice ridistribuzione dei benefici e dei poteri di due istituzioni già povere, se non la presa di controllo del loro paese da parte dei ceceni. Le "piccole" nazioni rappresentate dagli avari, dai darghini o dai lakh non possono accettare questa situazione e non vogliono dividere con altri le ricchezze del Daghestan, si tratti della terra, del petrolio o del caviale. La maggioranza non desidera neanche la secessione dalla Russia, che potrebbe sfociare in una guerra civile e in conflitti interetnici più sanguinosi del conflitto in Cecenia, tenuto conto dell'estrema diversità del paese.

Questa guerra ha mostrato ai popoli del Caucaso quanto fosse alto il prezzo da pagare per un'ipotetica sovranità e soprattutto per uno stato-nazione indipendente ma non riconosciuto all'estero a eccezione della Bosnia e della "Repubblica turca di Cipro del nord" e di cui nessuno ha bisogno. Anche il mondo musulmano rimane freddo nei confronti della Cecenia, il cui presidente Aslan Mashkhadov viaggia all'estero con passaporto russo. E le relazioni fra Cecenia e Daghestan sono improntate alla diffidenza, poiché la prima rivendica sei regioni della seconda.

Tuttavia nessuno è in grado di prevedere gli sviluppi della situazione. La "campagna di Daghestan" di Shamil Basaev sarà, come è stato detto dalla stampa russa, una nuova tappa nella disintegrazione della federazione? L'estensione del conflitto alla Cecenia e i bombardamenti dell'aviazione russa favoriranno una resistenza comune contro quella che molti considerano un'ingerenza nei loro affari interni? In ogni modo il Cremlino dovrà fare sforzi considerevoli e dimostrare grande abilità per uscire da questo ginepraio, tanto più che la crisi economica limita i mezzi di intervento.

Si dovrebbe comunque approfittare della crisi per chiarire gli interessi nazionali della Russia nella regione. I responsabili rimangono divisi sulla necessità di mantenere con la forza il Caucaso del nord nel quadro della federazione qualora le tendenze separatiste si rafforzassero. Non dimentichiamo che, nel 1991, alla scomparsa dell'Unione sovietica, molti di questi dirigenti furono ben felici di "sbarazzarsi" dell'Asia centrale musulmana.

Tuttavia oggi la tendenza dominante della politica moscovita è favorevole a conservare il Caucaso, a denunciare il separatismo e a restaurare l'autorità di Mosca. Alla fine di agosto, durante una riunione tra Eltsin e Magomedali Magomedov, presidente del Consiglio di stato del Daghestan, il presidente russo ha riconosciuto "la lealtà" della popolazione del Daghestan alla costituzione russa e ha promesso un aiuto di 300 milioni di rubli oltre 12 milioni di dollari per la ricostruzione della zona di frontiera. Ma l'estensione dei combattimenti e lo sfruttamento tendenzioso delle relazioni interetniche potrebbero portare al caos e alla perdita del controllo di Mosca sul Daghestan.

note:

(1) Si legga Marie-Claude Slick, "Federata o indipendente? Alla ricerca della nuova Cecenia", Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1996, Karel Bartak, "Cecenia, una guerra senza nome", Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1995 e Nina Bachkatov, "A Grozny, la tomba della Federazione russa", Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 1995.