Torna alla homepage
    
Cerca nel sito con FreeFind
Clicca per mandare un email Scrivi a PeaceLink
Homepage  |  Chi siamo  |  Come contattarci  |  Mappa del sito  |  Come navigare nel sito  |  Aiuta PeaceLink
Editoriale

PeaceLink-News
L'agenzia stampa di PeaceLink

PeaceLink database
Una banca dati in cui sono state organizzate informazioni utili sulle associazioni e le riviste dell'area ecopacifista e del volontariato.

PeaceLink-Dossier

PeaceLink-Libri
Libri per imparare e aiutare

Appelli
Appelli medici e diritti umani violati

Appuntamenti
Calendario delle iniziative di Pace in Italia


Sostieni la telematica per la pace, versa un contributo sul c.c.p. 13403746 intestato ad Associazione PeaceLink, via Galuppi 15, 74010 Statte (TA) - PeaceLink 1995/2000

Grozny bombardata

Rassegna stampa Sulla Cecenia

Le Monde Diplomatique - Novembre 1999

Disgregazione nel Caucaso e in Asia centrale

Perché Mosca rilancia la guerra in Cecenia


Torna alla rassegna stampa
All'inizio di settembre, in violazione dell'accordo Cernomyrdin-Maskhadov del 23 novembre 1996, le forze russe sono entrate in territorio ceceno. Ufficialmente si tratta di dare la caccia ai "terroristi islamici" accusati di aver fomentato in agosto i disordini in Daghestan. Ma l'offensiva si è trasformata in guerra totale e la popolazione civile, in particolare a Grozny, ne è la prima vittima. Quali sono gli obiettivi del presidente Boris Eltsin e del suo attuale primo ministro? Salvare un potere che, scosso dalla tempesta dei recenti "scandali", non sembrava più in grado di vincere le prossime elezioni. Vladimir Putin ha saputo sfruttare il consenso nazionalista, favorito dai sanguinosi attentati terroristici, per conquistare una certa popolarità. Niente però sembra indicare che questa nuova popolarità gli permetterà di dare in dicembre al "partito eltsiniano" una maggioranza alla Duma e di sconfiggere Evgheny Primakov alle prossime elezioni presidenziali del giugno 2000. Di qui alla prossima primavera l'esercito russo ha tutto il tempo di rimanere impantanato nella palude cecena, l'Occidente di condannare sempre più nettamente l'avventura e l'opinione pubblica russa di cambiare idea. Ma se le mire del Cremlino, al di là dei secondi fini elettorali, sono quelle di difendere gli interessi russi nella regione, il piano rimane comunque molto rischioso. La guerra potrebbe rivoltarsi contro i suoi ispiratori e compromettere definitivamente qualunque rinnovamento della federazione, come il rilancio della Comunità degli stati indipendenti. A tutto vantaggio di chi, come gli Stati uniti, si adopera per ridurre in modo concreto l'influenza di Mosca sui suoi confini meridionali. D.V.

di Jean Radvanyi*

Niente potrà giustificare il modo in cui l'esercito russo ha distrutto Grozny durante l'inverno 1994-95 (1). Assistendo ai nuovi massicci bombardamenti dell'esercito russo in Cecenia che fanno molte vittime tra i civili distruggendone le case e costringendo migliaia di famiglie a un nuovo esodo come si può rimanere indifferenti? E come non irritarsi di fronte al linguaggio diplomatico così terribilmente neutrale dei comunicati occidentali? Tuttavia, al di là del raccapriccio, si deve cercare di capire come si è arrivati a questa situazione solo tre anni dopo gli accordi di pace di Khasaviurt. Si deve dar credito all'ex primo ministro Viktor Cernomyrdin (2), quando afferma che la Russia non ha più una politica nel Caucaso del nord, in un settore dove peraltro i suoi interessi strategici sono così evidenti?

Nella regione la produzione di petrolio non costituisce più un fattore fondamentale. Dopo aver rappresentato quasi il 45% della produzione della Russia sovietica prima del 1940, l'estrazione di petrolio in Cecenia negli ultimi anni è scesa a meno dell'1% con circa due milioni di tonnellate annue. Questa industria, insieme all'attività di raffinazione, rappresenta un'effettiva fonte di finanziamento per i clan che ne hanno il controllo sul piano locale, ma non un interesse su scala federale.

Il Caucaso rimane al centro di un importante scontro geopolitico soprattutto da un altro punto di vista: quello delle vie di transito per gli idrocarburi del Mar Caspio (3), anche se il volume reale delle riserve sembra essere stato sopravvalutato. A questo proposito la vera partita che si gioca tra i due schieramenti si è decisamente inasprita nell'ultimo anno (4). La Russia ha sempre sostenuto il principio che la maggior parte del petrolio dovesse passare sul suo territorio, come in epoca sovietica, utilizzando l'oleodotto Baku-Novorossijsk rimesso in funzione dal novembre 1997 dopo un compromesso con le autorità cecene. Ma il 17 aprile 1999 è stato ufficialmente aperto un altro oleodotto, che collega Baku a Supsa, porto georgiano sulle rive del Mar Nero, che di fatto si inserisce nel sistema di sicurezza della Nato. In questo modo gli stati associati del Guam (Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia) e i loro finanziatori occidentali hanno creato una prima breccia nel monopolio russo. A metà ottobre i presidenti azerbaigiano e turco hanno confermato la costruzione di un oleodotto che collega Baku con il porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo: in questo modo tutto il petrolio del Caspio meridionale eviterebbe di passare per la Russia.

Una delle ipotesi avanzate per spiegare la nuova esplosione di violenza nel Caucaso è il tentativo di bloccare definitivamente l' oleodotto strategico in territorio russo. Nelle sue recenti interviste il presidente ceceno Aslan Maskhadov ha parlato di "mandanti [degli attentati dinamitardi] molto lontani dalle frontiere" e di strani emissari che cercavano di persuadere i ceceni a forare questo oleodotto, che si è dovuto effettivamente chiudere in primavera (5). I russi sono stati quindi costretti a trasportare il greggio su vagoni cisterna lungo una linea ferroviaria che aggira a nord la Cecenia. A sua volta il capo dei ribelli Shamil Basaev, trasformando il Daghestan in stato islamico, ha reso questo transito impossibile e ha minacciato l'altro grande progetto russo: la costruzione, iniziata nel maggio 1999, dell'oleodotto Tengiz (in Kazakistan)-Novorossijsk che attraversa le steppe calmucche a nord del Daghestan.

Questo rappresenta uno dei drammi della regione, posta al centro delle pressioni contrastanti di potenze regionali e straniere.

Dal 1992 le autorità russe hanno continuato a strumentalizzare i conflitti caucasici (in Abkhazia come in Karabakh) allo scopo di fare pressione sui vicini. Ma in Russia qualcun altro sembra avere le stesse idee. Così, mentre le truppe di Mosca riprendevano il controllo del nord della Cecenia, il ministro russo dell'energia rinnovava le sue offerte alle autorità azere, impegnandosi a trasportare entro due anni dodici milioni di tonnellate di greggio annui attraverso un oleodotto che aggiri Grozny. Nel frattempo venivano esercitate pressioni sul governo georgiano: accusandolo di aprire troppo generosamente le frontiere alla Cecenia, Mosca a fine settembre toglieva il blocco sull'Abkhazia, rilanciando così il rischio di disordini sulla costa georgiana del Mar Nero. Si è instaurato così di nuovo quel gioco perverso nel quale l'uso dei conflitti e le mire geostrategiche prevalgono sui reali interessi economici e sociali della regione. E come sempre in questi casi, i popoli caucasici sono i primi a soffrirne.

Già dal giugno 1998, le Izvestia titolavano in prima pagina: "La politica impotente di Mosca provocherà una grande guerra nel Caucaso del nord" (6). Questo grido di allarme partiva dalla constatazione che la destabilizzazione regionale oltrepassava largamente i confini della sola Cecenia secessionista, sulla quale Mosca aveva perso ogni controllo dopo il ritiro delle truppe nell'autunno 1996 (7). Inizialmente si era trattato di un terrorismo che si sarebbe potuto definire locale: incursioni a scopo di rapina nella regione di Stavropol e in Daghestan (e talvolta in Georgia) che prendevano di mira greggi, strade e villaggi isolati (si rubavano elettrodomestici, materiale agricolo, automobili), ma anche sequestri di persona, un'attività diventata una vera "specialità economica" di cui si studiano i "redditi annuali" e le procedure. Ma queste attività criminali sarebbero state presto accompagnate da azioni a carattere più spiccatamente politico, come ad esempio la decisione di alcuni villaggi daghestani di applicare come legge solo la sharia, dando così l'avvio a un futuro stato islamico (8).

Le Izvestia rilevavano però un'altra serie di fattori di instabilità. Si potrebbe certo cercare di dimostrare, come stanno facendo alcune amministrazioni moscovite, che tutte le attività collegate al terrorismo, al contrabbando e ai sequestri conducono ai capi della rivolta cecena; i quali, sfuggendo del tutto al controllo delle autorità legali della piccola repubblica, se ne servono per finanziare le loro imprese militari e politiche. Ma non si può capire l'evoluzione della regione se non ci si rende conto che queste pratiche si basano su antiche complicità sia locali (in alcuni circoli politici e finanziari dell'Inguscezia, del Daghestan e dell'Ossezia) sia a Mosca. E in quest'ultimo caso non si tratta solo della diaspora caucasica: nella capitale russa il mondo degli affari, compreso quello ai massimi livelli della finanza, non ha mai interrotto i rapporti stabiliti dall'epoca dell'ex presidente ceceno, il generale Djokar Dudaev, come testimoniano le relazioni torbide e confessate di Boris Berezovski, finanziere vicino alla famiglia Eltsin, con Shamil Basaev e soci.

Lo stesso articolo constatava: "Il Daghestan è diventato un centro di contrabbando e di attività illegali, l'Inguscezia il centro regionale di traffico d'oro e di droga, l'Ossezia del nord il principale produttore di vodka illegale e punto di smistamento per i re dell'alcol". In altre parole in quel "buco nero", in quella zona di non controllo che è la Cecenia si sommano gli effetti di uno dei fondamenti del sistema eltsiniano, il modo di gestione delle regioni, particolarmente grottesco nel nord del Caucaso.

Infatti l'amministrazione moscovita, fedele alla sua strategia del "divide et impera" che traduceva nell'agosto 1990 con la celebre formula: "Prendetevi tutta l'autonomia che potete permettervi" , ha istituito uno strano sistema di federalismo su misura. Nel Caucaso, ad esempio, con la sua moltitudine di entità territoriali su base etnica, il Cremlino ha permesso che si instaurasse, in cambio di un reciproco sostegno politico (a eccezione dei ceceni), una sorta di appalto generalizzato: i settori più dinamici (banche, petrolio, alcol, tabacco, caviale, per non parlare della droga e delle armi) legati al commercio federale o internazionale sono stati "concessi" ad alcuni clan, gruppi di interesse locali legati il più delle volte a organizzazioni simili nella capitale o in altre grandi città della federazione. In Daghestan, straordinario mosaico di popoli, questa divisione ha permesso di consolidare un fragile equilibrio etnico distribuendo i vantaggi tra i principali capi delle varie comunità. In alcuni casi sono state "concesse" intere zone di frontiera (o quantomeno il controllo del transito di alcune merci) (9).

Intanto Mosca chiudeva un occhio sulle ripetute trasgressioni contro le istituzioni federali e locali. In molte repubbliche la maggior parte dei responsabili regionali delle amministrazioni centrali erano nominati dai presidenti locali (in alcuni casi anche quelli dell'Fsb, succeduto al Kgb), il che privava le autorità federali di ogni controllo sull'applicazione delle leggi o sull'utilizzo delle sovvenzioni centrali e così via.

Inoltre i ripetuti avvicendamenti del personale dirigente a Mosca hanno finito per aggravare la situazione, impedendo l'istituzione di una politica coerente in questa delicata regione.

Ma se la parte nord-ovest e centrale della regione, principale regione agricola del paese e famosa per le sue attrattive termali e turistiche, è sempre stata nota per la sua relativa ricchezza (almeno per gli standard sovietici), il discorso cambia per i settori di media o di alta montagna e per le steppe semiaride dei confini ceceno-daghestani. Qui la miseria e la disoccupazione sono sempre state endemiche, aggravate da un alto tasso demografico. Come molti osservatori hanno notato, per un lungo periodo il Daghestan è stato completamente abbandonato dalle amministrazioni federali, le quali del resto non rispettavano nessuno degli impegni presi per la ricostruzione della Cecenia. Nei due casi l'abbandono da parte di Mosca non ha fatto altro che peggiorare le relazioni in queste due repubbliche, già minate dalle contraddizioni interne.

Questo insieme di pratiche e di eccessi è all'origine dell'inasprirsi delle tensioni economiche e sociali. A tal punto che gli esclusi da questa strategia cioè, in molte repubbliche; gran parte della popolazione e soprattutto i giovani disoccupati e senza prospettive sono ormai pronti a farsi tentare dai discorsi nazionalisti (come nella repubblica circassa) o islamisti (come in Daghestan).

Contemporaneamente è aumentata l'esasperazione delle popolazioni, stanche di assistere a questa impotenza organizzata.

L'intervento, a partire dal 7 agosto 1999, dei gruppi armati islamici di Shamil Basaev in Daghestan, poi gli attentati di Bujnaksk e di Mosca hanno radicalmente cambiato lo stato d'animo dell'opinione pubblica. "Il Caucaso del nord è russo e se necessario lo difenderemo con le unghie e con i denti". Questa frase l'abbiamo sentita pronunciare diverse volte dai russi del Caucaso durante questa fine estate 1999. Un'affermazione che spinge parte degli abitanti di questo mosaico di repubbliche create sotto Stalin ad affermare: "Ci dite che facciamo parte della Russia e che dobbiamo difendere l'integrità territoriale, assicurateci almeno la nostra sicurezza allora!". E molti daghestani aggiungono: "Oppure dateci le armi per farlo".

E' comprensibile la preoccupazione di riportare l'ordine in una regione in rivolta da anni, ma questo non autorizza il governo russo a sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti della popolazione civile. Niente può giustificare i bombardamenti di civili inermi. Tuttavia i fattori locali non bastano a spiegare un tale cambiamento di strategia e il ricorso a operazioni militari di tale portata. Diversi protagonisti della crisi cecena, come il generale Aleksandr Lebed o Shamil Basaev, non hanno esitato a far rilevare la coincidenza tra questi avvenimenti e l'approssimarsi dei principali appuntamenti della politica russa, arrivando addirittura ad accusare il Cremlino di aver commissionato o manovrato gli attentatori di Mosca e di Volgodonsk. Purtroppo tali manovre, sulla base delle passate esperienze (anche solamente osservando la cronologia del precedente conflitto ceceno tra il 1994 e il 1996), non si possono completamente escludere. Senza spingersi in ipotesi troppo azzardate, molti osservatori russi vedono nella strumentalizzazione del nuovo conflitto ceceno la sola opportunità per il nuovo ministro Vladimir Putin in vista delle elezioni presidenziali del giugno 2000.

A quanto pare i politici in difficoltà del clan Eltsin, dando in pasto all'opinione pubblica un capro espiatorio e facendo di tutti i ceceni o addirittura di tutti i caucasici (compresi gli azeri e i georgiani di Mosca) un comodo nemico interno, utilizzano le armi della demagogia nella speranza di ottenere i consensi di un elettorato indebolito dagli effetti della crisi economica. Le ingiurie razziste sempre più numerose da parte dei media e riprese dal primo ministro Putin sono indegne di uno stato moderno (10). Questa deriva xenofoba è tanto più grave in quanto il paese conta circa il 20% di non russi, quasi tutti musulmani, per lo più caucasici e del bacino del Volga. Ma fatta salva qualche rara eccezione, come l'ex consigliere per i diritti dell'uomo Sergei Kovalev, il comitato delle madri dei soldati e l'associazione Memorial, pochi intellettuali hanno protestato contro questa campagna di disinformazione che rischia di provocare violente reazioni in tutta la Federazione.

Il presidente Boris Eltsin e i suoi collaboratori, sotto la copertura della transizione e non senza la compiacenza del Fondo monetario internazionale e di numerosi "consiglieri" occidentali, hanno istituito un sistema perverso che non risponde affatto agli interessi della Russia e dei suoi popoli. Nella vicenda caucasica si sommano due aspetti principali: innanzi tutto la scelta nei confronti degli stati confinanti con la Comunità di stati indipendenti (Csi) di una strategia che ha sempre privilegiato il ricorso alle minacce anziché la ricerca di nuove forme di cooperazione; in secondo luogo, una particolare forma di federalismo interno che, basandosi sulla concessione in appalto dei principali settori di influenza, moltiplica le disuguaglianze e i rischi di crisi violente. Al di là dello statuto della Cecenia, la cui negoziazione è particolarmente delicata, è un'intera politica che deve essere ridefinita, nel Caucaso come nel resto della Russia.

note:

* Professore dell'Istituto di lingue e civiltà orientali (Inalco), direttore dell'Osservatorio degli stati post-sovietici, coautore con Alexis Berelowitch di 100 portes de la Russie, Editions de l'Atelier, Parigi, 1999.

(1) Si legga in particolare Karel Bartak, "Cecenia, una guerra senza nome", Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1995, e Marie-Claude Slick, "Federata o indipendente? All ricerca della nuova Cecenia", Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1996.

(2) "Il Caucaso non deve diventare i Balcani russi", Izvestia, Mosca, 28 settembre 1999.

(3) Si legga Vicken Cheterian, "Il Grande gioco del petrolio in Transcaucasia", Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1997.

(4) Arnaud Dubien, "Pétrole e gaz du bassin caspien: de nombreuses incertitudes", Revue internationale et stratégique, Parigi, n. 34, 1999.

(5) Kommersant Vlast, Mosca, 21 settembre 1999, e Le Monde, 30 settembre.

(6) Izvestia, 26 giugno 1998.

(7) Si legga Vicken Cheterian, "Effetto domino nel Caucaso", Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1996.

(8) Si legga Aleksei Malashenko, "Dal Daghestan alla Cecenia, escalation militare e pericolo islamico", Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 1999.

(9) "Le trentasei frontiere della Russia", Rossiiskaia Gazeta, Mosca, 10 luglio 1999.

(10) Il 17 settembre, il quotidiano filogovernativo Rossiiskaia Gazeta titolava su due pagine: "Bisogna estirpare questa delinquenza alla radice", espressione ripresa dal primo ministro, che aggiungeva: "Li staneremo anche nei cessi!". A fine settembre in un sondaggio il 64% dei russi si dichiarava favorevole all'espulsione di tutti i ceceni di Russia (Izvestia, 28 settembre 1999).

(Traduzione di A.D.R.)