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Rassegna stampa Sulla CeceniaLe Monde Diplomatique - Febbraio 2000Ceceniadi Ignacio Ramonet
Torna alla rassegna stampa Disumana. La nuova guerra che i generali russi stanno conducendo dal settembre 1999 in Cecenia è in effetti particolarmente disumana. Oltre due terzi della popolazione locale circa 200.000 persone sono stati costretti a fuggire dagli scontri per cercare un precario rifugio in Inguscezia. E secondo alcune organizzazioni umanitarie internazionali (che le autorità tengono a distanza dal fronte) migliaia di civili sarebbero stati uccisi dai bombardamenti indiscriminati dell'esercito federale. Un esercito che in alcuni villaggi si sarebbe anche abbandonato a saccheggi, stupri e crimini di guerra. Largamente rovinata dal precedente conflitto del 1994-96, costato più di 80.000 morti, la Cecenia assiste nuovamente con orrore alla distruzione sistematica delle sue principali infrastrutture. Questa piccola repubblica del Caucaso rischia così di ricadere al livello di sviluppo di un secolo fa. Come è potuto avvenire un così spaventoso disastro umano, economico, ecologico? Perché la comunità internazionale, già così pronta, neppure un anno fa, a mobilitarsi in nome del diritto di ingerenza in favore del Kosovo, assiste oggi impassibile a questa tragedia? La principale responsabilità ricade certamente su Mosca, che al momento dello smantellamento dell'Unione sovietica (1991-92) fu incapace di proporre alle entità rimaste in seno alla Federazione Russa uno statuto di autonomia fondato su criteri autenticamente democratici. Con la complicità dell'Occidente, che spingeva il governo russo ad adottare al più presto un modello di economia liberista, il Cremlino improvvisò un federalismo à la carte, lasciando che in ogni regione si instaurasse, in cambio del sostegno politico, "una sorta di subappalto generalizzato (1)" dei settori più redditizi (petrolio, valuta, alcol, tabacco, caviale, droga, armi ecc.) a vantaggio delle varie mafie e clan locali. L'insieme di queste pratiche ha esacerbato le tensioni sociali, soprattutto in Cecenia. Questo paese, che fino al 1940 forniva il 45% del petrolio dell'Unione sovietica, vede dilagare sempre più la miseria e va incontro a un irresistibile declino, dato che i suoi idrocarburi rappresentano ormai appena l'1% della produzione russa. All'avanzata delle mafie si accompagna una ripresa del sentimento nazionalista e un risorgere dell'islam sunnita, tuttora vivaci in un paese che per più d'un secolo aveva resistito all'espansionismo coloniale moscovita, ed era stato l'ultimo bastione del Caucaso ad arrendersi ai russi nel 1859. I diseredati si sono mostrati particolarmente sensibili al discorso dei missionari wahabiti, venuti dall'Arabia saudita forniti tra l'altro di considerevoli mezzi finanziari per predicare un islam integralista, che aveva già sedotto una parte dei resistenti afgani vittoriosi contro i sovietici negli anni 80. A questa corrente islamista appartenevano i principali combattenti indipendentisti dei primi anni 90, e in particolare il celebre Shamil Basaiev. Dopo la vittoria militare su Mosca, nel 1996, la sacra unione dei ceceni si è disgregata. Il governo di Aslan Maskhadov, sottoposto dalle forze russe a un blocco territoriale, si è ritrovato senza mezzi per ricostruire il paese. Dal canto loro, i wahabiti hanno costituito feudi islamisti, nei quali hanno imposto la legge coranica (sharia) contro la volontà di numerose famiglie. Approfittando di questi disordini, le mafie e il banditismo hanno proliferato, e si è sviluppata una vera e propria economia di rapina e di brigantaggio: saccheggi di fattorie isolate, contrabbando di ogni genere, e soprattutto rapimenti a scopo di estorsione di centinaia di persone, tra cui numerosi stranieri. La Cecenia è diventata così a poco a poco, in parte suo malgrado, un'entità caotica e ingovernabile, temuta dai suoi vicini, dalla quale gli stessi abitanti incominciavano a fuggire. In questo contesto imputridito si sono verificati tre eventi che hanno portato all'attuale conflitto. Nel maggio 1999 la Russia si è sentita emarginata quando, con la benedizione occidentale, è stato ufficialmente riaperto l'oleodotto che collegava Baku (Azerbaigian) a Soupsa (Georgia), sulle rive del Mar Nero. Ancora più grave, nel novembre 1999, l'accordo firmato dalla Turchia, dall'Azerbaigian e dalla Georgia per la costruzione di un altro oleodotto che collegherà Baku al porto turco di Ceyhan, sul Mediterraneo, evitando così definitivamente il territorio russo. Per Mosca si è trattato di un affronto geopolitico, foriero di una grave perdita di influenza nel Caucaso tanto più che questi nuovi oleodotti si collocano automaticamente sotto la protezione del sistema di sicurezza della Nato Nell'agosto del 1999, il raid sul Daghestan, condotto dal capo ceceno islamista Basaiev, ha confermato agli occhi dei russi i rischi di contagio che l'esempio di un'eventuale indipendenza della Cecenia avrebbe comportato per l'insieme del Caucaso. Sebbene rapidamente circoscritto e neutralizzato, questo raid ha indiscutibilmente fatto paura a Mosca, che vede con preoccupazione il moltiplicarsi delle minacce contro il suo controllo su una regione strategica come il Caucaso del Nord. Infine, all'inizio dell'autunno 1999, le bombe che hanno distrutto vari edifici civili e ucciso circa 300 persone in varie città della Russia. La colpa di questi attentati è stata immediatamente attribuita ai "banditi ceceni" (senza prove decisive), surriscaldando un'opinione pubblica da oltre dieci anni inabissata in una catastrofe sociale. Evidentemente, Vladimir Putin ha sfruttato questa situazione per porsi come l'uomo forte atteso dai russi. Ma questa dimensione attinente agli equilibri politici interni è inseparabile dai giochi strategici della guerra. Per Mosca, si tratta intanto di riconquistare la Cecenia, e più in generale di restituire alla Russia il ruolo di potenza dominante in tutto il Caucaso. A costo, se necessario, di trucidare fino all'ultimo ceceno. note: (1) Leggere Jean Radvanyi, "Sale guerreen Tchétchénie, in L'Atlas 2000 des conflits, Manière de voir, n° 49, gennaio 2000."
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