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Rassegna stampa Sulla CeceniaLe Monde Diplomatique - Marzo 2000Il Sud-Est europeo sotto il segno della Natodi Paul-Marie de La Gorce *
Torna alla rassegna stampa Nessuno si sogna più di contestarlo. La guerra in Kosovo è figlia del disfacimento della Jugoslavia. Ma il seguito ha mostrato che la guerra mirava anche a istituire un nuovo ordine strategico in tutto il Sud-Est europeo. E' difficile stabilire quali fossero in origine gli obiettivi strategici degli Stati uniti. All'inizio dominava il desiderio di mantenere l'unità della Jugoslavia, espresso fra l'altro in una lettera del presidente George Bush al primo ministro jugoslavo, Ante Markovic, nel marzo 1991; un desiderio condiviso dagli altri vincitori della seconda guerra mondiale (Russia, Gran Bretagna e Francia). In un secondo tempo è entrata in gioco la politica tedesca, che ha esercitato una influenza preponderante: Bonn si è schierata immediatamente a favore dello smantellamento della vecchia Federazione jugoslava e del riconoscimento degli stati che ne facevano secessione, secondo i loro confini interni. Là risiede la fonte di tutte le tragedie successive, tanto era evidente che una grande parte della popolazione serbi in Croazia, croati e serbi in Bosnia non avrebbero accettato tale evoluzione. Si è aggiunta poi l'influenza del Vaticano, il quale auspicava l'emergere di due nuovi stati cattolici, la Croazia e la Slovenia. Infine, nel mondo politico americano, si è mobilitata una lobby croata molto attiva. Ma, più d'ogni altra cosa, Washington ha voluto ostensibilmente difendere la causa della comunità musulmana di Bosnia e, poco dopo, l'esistenza di uno stato musulmano bosniaco. Il punto era dimostrare che gli Stati uniti potevano accettare paesi a predominanza islamica, mentre al tempo stesso si opponevano ad alcuni stati musulmani come la Libia, il Sudan, l'Iraq o l'Iran. Ma nel corso della crisi cresceva una preoccupazione di prim'ordine: impedire alla Russia di esercitare la sua influenza in questa parte d'Europa, la quale poteva conferirle un nuovo protagonismo nel continente. La logica del braccio di ferro aveva infatti portato la Jugoslavia, o quel che ne restava, in pratica la dirigenza serba, a ricercare il sostegno di Mosca. Non è vero che questa fosse la scelta iniziale del Cremlino. Contrariamente a ciò che spesso si dice, tale sostegno non aveva alla spalle una consolidata tradizione storica: per quanto la Russia abbia sempre guardato con interesse ai Balcani, essa ha sempre privilegiato i rapporti con la Bulgaria rispetto a ogni altra nazione balcanica. D'altra parte questa non era neppure la scelta di Belgrado. Per un certo periodo, quando l'economia jugoslava era impegnata nella "transizione", il presidente Slobodan Milosevic fu uno degli interlocutori più cooperativi del Fondo monetario internazionale e, indirettamente, dei governi occidentali (1). Più tardi, la dirigenza serba, per ottenere l'indulgenza se non l'appoggio dei paesi occidentali, ha fatto appello come presidente della Federazione jugoslava allo scrittore Dobrica Cosic, figura emblematica della resistenza al totalitarismo. Poi, come primo ministro, a Milan Panic, il quale altri non era che un uomo d'affari americano tornato per l'occasione a Belgrado. Tutto inutile: non appena gli stati europei, istigati dalla Germania, e gli Stati uniti si impegnarono al fianco delle repubbliche separatiste, il governo di Belgrado si convinse che poteva contare soltanto sul sostegno della Russia. E per tenere quest'ultima lontana dalla regione e impedire che vi ricostruisse una zona d'influenza, gli Stati uniti sono diventati nemici dei serbi. La dialettica dei conflitti, qui come altrove, ha prevalso sulle intenzioni iniziali dei protagonisti e su tutti i calcoli. Gli obiettivi reali della politica americana e la volontà di Washington di creare nei Balcani un nuovo ordine strategico sono apparsi evidenti fin dopo la conclusione degli accordi di Dayton del novembre 1995. Stando alla lettera di questi ultimi, era esplicitamente prevista la creazione di legami particolari tra la Repubblica serba di Bosnia e ciò che rimaneva della Jugoslavia, così come tra la parte croata e la Croazia stessa, al fine di instaurare rapporti flessibili tra tutti i territori coinvolti nel conflitto bosniaco. Ebbene, in nessun momento ci si è impegnati in questa direzione. E le sanzioni contro la Jugoslavia, di cui era prevista la revoca, furono in buona parte mantenute. Gli obiettivi strategici degli Stati uniti e la volontà di emarginare la Russia hanno trovato conferma nella guerra in Kosovo, scatenata dalla Nato, senza l'avallo delle Nazioni unite e della Russia (2). Ma fin dal suo esordio la guerra, che gli esperti occidentali pensavano si sarebbe conclusa immediatamente con la capitolazione jugoslava, ha provocato nel campo atlantico, in particolare tra i responsabili americani, una crisi di fiducia. Basti pensare al clima di tetraggine che si respirava alla cerimonia per il cinquantenario della Nato. La dichiarazione finale ha riconosciuto persino il ruolo che il Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto svolgere nella crisi e includeva questa affermazione assai significativa: "La Russia ha una responsabilità assimilabile a quella delle Nazioni unite e un ruolo importante da svolgere nella ricerca di una soluzione per il conflitto in Kosovo". In pratica si è fatto di tutto per impedire alla Russia di intervenire sul posto e dare il suo importante contributo per sciogliere la crisi. Quando, a sorpresa, un battaglione di fanteria russa, proveniente dalla Bosnia, è arrivato all'aeroporto di Pristina il 12 giugno 1999, si è fatto in modo che non ricevesse rinforzi. Senza indugio, la diplomazia americana si è mobilitata presso i governi rumeno e bulgaro affinché vietassero alla Russia il sorvolo del loro spazio aereo e il transito dal loro territorio. Questa mossa è stata decisiva e al tempo stesso assai sintomatica. Ha bloccato la presenza militare russa in Kosovo al suo livello più basso e ha mostrato che la Romania e, in una certa misura, la Bulgaria si comportavano già come se fossero membri dell'Alleanza atlantica. Le risposte dei loro governi sono state molto significative, tanto più che nei rispettivi paesi l'opinione pubblica, secondo i sondaggi, parteggiava decisamente per la Jugoslavia ed era contro i bombardamenti della Nato. La durata della guerra in Kosovo, inaspettatamente lunga, ha permesso alla diplomazia russa di compiere comunque una mediazione, sfociata nell'accordo di Kumanovo, alla frontiera macedone, il 9 giugno 1999. Contrariamente alle proposte di Rambouillet, questo prevedeva l'occupazione del Kosovo da parte di forze poste sotto l'egida dell'Onu, in cui la Nato avrebbe avuto una parte "sostanziale" il che apriva la strada a una partecipazione russa. La reazione americana all'accordo, sottoscritto dai governi occidentali, illustra bene il disegno strategico di Washington. Lo stato maggiore atlantico a Bruxelles annunciò la nomina del generale Michael Jackson alla testa delle forze d'occupazione e la ripartizione del Kosovo in cinque zone sotto la responsabilità di cinque paesi membri della Nato: Stati uniti, Gran Bretagna, Germania, Italia e Stati uniti. A quel punto la Russia reagì con vigore; il proprio attaché militare a Belgrado avvertì che tali disposizioni non erano affatto conformi alla lettera e allo spirito degli accordi del 2 giugno 1999. Si avviò allora un negoziato supplementare a Mosca e a Colonia, che si concluse con l'inserimento del contingente russo in una zona sotto controllo occidentale. Eppure, da quel momento i dirigenti occidentali, soprattutto gli americani, avrebbero interpretato molto liberamente la lettera e lo spirito degli accordi. Questi ultimi parlavano dei "principi di sovranità e d'integrità territoriale della Repubblica federale di Jugoslavia": ma di essi non c'è più traccia, dato che le autorità create in seguito a tali accordi, con il sostegno sul terreno della Nato, hanno promulgato, senza alcun contatto con Belgrado, nuove leggi che separano radicalmente il Kosovo dal resto della Jugoslavia; tra queste leggi, un nuovo codice di procedura penale e l'adozione del marco tedesco quale unica moneta in circolazione nel territorio. D'altra parte, mentre gli accordi prevedevano che la Nato avrebbe fornito "una partecipazione sostanziale" alla "presenza internazionale di sicurezza" in Kosovo, l'organizzazione è di fatto diventata la sola autorità militare e la partecipazione di ogni altro contingente dipende dal suo volere. Così si è disegnato, attraverso le varie crisi jugoslave, un nuovo statuto strategico dei Balcani. Col favore della guerra in Bosnia, la presenza militare della Nato in questo paese, garantita dalle Nazioni unite e posta sotto un comando dell'Alleanza, è ormai permanente. Allo scopo di vigilare sul rispetto dell'embargo contro la Jugoslavia, gli Stati uniti avevano ottenuto dal governo ungherese il permesso di installare un'antenna militare e di gestirla in piena autonomia. Attualmente l'integrazione dell'Ungheria nel sistema atlantico va ben oltre, poiché il paese ha aderito all'Alleanza e quindi alla sua organizzazione politica e militare. Nella stessa occasione, un' antenna militare americana era stata installata in Albania e un'altra in Macedonia. Albania e Macedonia hanno servito da retrovia per le forze della Nato dispiegate di fronte alla Jugoslavia e sarebbero state impiegate, se ce ne fosse stato bisogno, per scatenare una invasione da terra di grande portata, anche se nessuno dei due paesi fa ancora parte dell'alleanza atlantica. Il territorio dell'Albania ha dato spessore strategico alle azioni dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) durante il conflitto. Quanto alla Macedonia, dove si trovavano alcuni dei più importanti dispositivi di comando della Nato, l'accesso al paese era garantito, per ogni evenienza, dall'appartenenza della Grecia e, più indietro, della Turchia, all'organizzazione atlantica e dalle posizioni e dotazioni militari di cui gli Stati uniti dispongono nel territorio. La guerra in Kosovo ha quindi perfezionato l'influenza militare della Nato nel Sud-Est dell'Europa. L'occupazione della provincia è ora un dato acquisito e duraturo. E, fatto senza precedenti, l'organizzazione militare dell'Alleanza atlantica esercita apertamente una sorta di protettorato sul territorio con l'avallo del resto delle Nazioni unite. Se i russi sono presenti in Kosovo è perché hanno condotto un'azione a sorpresa, subito ostacolata e circoscritta per la pressione dei governi dei paesi dell'Alleanza. Tutto lascia supporre che questi ultimi manterranno a lungo le loro truppe sul terreno, sia invocando la necessità di separare il Kosovo dal resto della Jugoslavia, sia per non lasciare se ci tengono al rispetto formale delle frontiere internazionali il controllo del territorio a una autorità esclusivamente albanese che potrebbe bruciare le tappe della riunificazione con l'Albania. Un quadro chiaro della situazione emerge dai propositi espressi dall'ex ambasciatore degli Stati uniti presso la Nato, Robert E. Hunter, oggi consulente della Rand Corporation: il Kosovo "costituisce la porta d'ingresso in regioni d'interesse vitale per gli occidentali il conflitto arabo-israeliano, l'Iraq e l'Iran, l'Afghanistan, il Mar Caspio e la Transcaucasia. La stabilità dell'Europa del Sud-Est è essenziale per proteggere gli interessi occidentali e ridurre i pericoli provenienti da territori ancora più a est (3)". Dalla guerra fredda al dopo-guerra fredda, dallo sfaldamento del blocco orientale al nuovo status politico e strategico dei Balcani, la logica degli eventi è chiara. L'allargamento della Nato ai paesi dell'Est europeo ne costituisce il proseguimento. La strategia americana è dominata da una preoccupazione: impedire l'emergere di una potenza mondiale in grado di contestare la supremazia assoluta degli Stati uniti, come fu l'Unione sovietica. Questa ossessione ha avuto come bersaglio la Russia. "Un'alleanza allargata, ha scritto Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, offre una copertura contro il rischio improbabile, ma reale, che la Russia torni ai comportamenti del passato. Essa deve anche contribuire all'obiettivo che questo rischio non si traduca in realtà (4)". La stessa logica può ispirare, del resto, medesime reazioni in altri teatri d'operazione. Si guardi all'Asia centrale e alla regione del Caucaso, che una mozione del Congresso nel 1997 ha qualificato "zone d'interesse nazionale degli Stati uniti". Lo testimonia il conflitto divampato in Daghestan e in Cecenia, una regione che Zbigniew Brzezinski chiama "i Balcani dell'Eurasia", e dove è cominciata forse una prova di forza di lunga durata. Dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino, la guerra in Kosovo annuncia la fine del dopo-guerra fredda e l'inizio di una nuova fase di scontri. note: * Giornalista, autore, fra l'altro, di De Gaulle, Perrin, 2000. (1) Susan Woodward, Balkan Tragedy, Chaos and Dissolution after the Cold War, Brookings Institution, 1995. François Chesnais, Tania Noctiummes, Jean Pierre Page, Réflexions sur la guerre en Yougoslavie, l'Esprit frappeur, Parigi, 1999. (2) Paul-Marie de La Gorce, "Storia segreta dei negoziati di Rambouillet", Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1999; Eric Rouleau, "Errements de la diplomatie française", Le Monde diplomatique, dicembre 1999. (3) Washington Post, 21 aprile 1999. (4) Citato da Gilbert Achcar, La nouvelle guerre froide, PUF, Parigi, 1999, p.40. (Traduzione di R.L.)
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