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Grozny bombardata

Rassegna stampa Sulla Cecenia

Le Monde Diplomatique - Marzo 2000

PRIMA LA GUERRA, POI LE ELEZIONI

La Russia alla ricerca del suo "new deal"


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Se il 26 marzo Vladimir Putin sarà eletto presidente della Federazione russa, lo dovrà soprattutto alla guerra in Cecenia, con il suo terribile seguito di massacri, distruzioni, saccheggi e torture. Ma questo "Putin di ferro" vuole anche dimostrare di essere, per riprendere le parole del quotidiano Izvestia, un "Vladimir Vladimirovic Roosevelt". Il vero programma del successore di Boris Eltsin, suscita numerosi interrogativi. Comunque sia, dovrà tener conto delle condizioni del paese che, come presidente ad interim, ha ereditato.

di Jean Radvanyi*

Dopo nove anni di potere Boris Eltsin lascia un paese profondamente indebolito e ferito. Le statistiche sono impressionanti: un prodotto interno lordo ridotto del 40%, un'industria allo sfascio tranne alcuni settori primari che forniscono il 70% delle esportazioni del paese, un'economia squilibrata, minata dalla riduzione degli investimenti e dalla fuga di decine di miliardi di dollari, mentre quasi il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

Per i russi questa crisi è dolorosa anche e soprattutto perché si sentono feriti nel loro orgoglio nazionale. Il paese è isolato nell'arena internazionale, criticato e respinto dai suoi vicini persino gli automobilisti russi devono subire le angherie amministrative delle autorità ucraine! La Russia si sente minacciata dagli occidentali in quella che è la sua area di influenza naturale, il Caucaso e l'Asia centrale, per non parlare degli stati baltici che ben presto saranno integrati nell'Unione europea. L'opinione pubblica è rimasta profondamente scossa nel vedere l'ex grande potenza ignorata nella questione del Kosovo, anche se in Occidente si è esagerata l'importanza della "fraternità slava" (leggere, alle pagine 8 e 9 l'articolo di Paul-Marie de la Gorce). "Per la prima volta in trecento anni la Russia potrebbe diventare uno stato di seconda o di terza categoria" (1), non esitava a scrivere Vladimir Putin poco prima della nomina a presidente ad interim.

Al di là del caos, spesso descritto con compiacenza, la Russia presenta aspetti diversi. Nonostante le gravi disfunzioni e il degrado osservato negli ultimi dieci anni, l'insieme delle reti di trasporto e di comunicazione funzionano, come pure il sistema amministrativo educativo e culturale. Dopo la grave crisi finanziaria dell'estate 1998, tutti gli osservatori sono stati sorpresi dalla vitalità dell'economia del paese: il prodotto interno lordo (Pil) è cresciuto del 2% nel 1999 e la produzione industriale dell'8%, mentre l'attivo della bilancia commerciale è stimato in 32 miliardi di dollari anche se una parte di questo surplus è dovuto alla risalita dei prezzi degli idrocarburi, la cui precedente discesa aveva largamente contribuito alla crisi (leggere l'articolo di Nicolas Sarkis alle pagine 1 e 16).

Ma per apprezzare lo stato reale del paese bisogna prestare attenzione soprattutto ai profondi cambiamenti avviati durante la presidenza Eltsin. Tra i dodici stati della Comunità di stati indipendenti (Csi) la Russia è stato il paese che, nonostante gli eccessi e le contraddizioni, è più andato avanti sulla strada della riforma dei meccanismi economici, istituzionali e politici e tutto ciò in un intervallo di tempo molto ridotto. I costumi e la mentalità di gran parte della popolazione si sono modificati, come testimoniano i numerosi sondaggi che confermano quanto concetti come la libertà di investire, la libertà di circolazione e la libertà di espressione siano ormai profondamente radicati. Al di là delle manovre della stampa e delle strumentalizzazioni del conflitto ceceno, le ultime elezioni legislative (ma anche regionali) hanno fornito, ancora una volta, la prova del radicamento delle procedure elettorali.

Così il bilancio della presidenza di Eltsin appare sconcertante, paradossale. L'analisi negativa fatta da molti osservatori occidentali di questo paese il cattivo allievo della transizione indica in molti casi l'incapacità di uscire da schemi preconcetti, che, validi per i paesi dell'Europa orientale, non tengono conto delle specificità russe. Infatti si è sottovalutata la crisi dell'economia e della società prima del 1991 e l'inerzia delle strutture e dei modi di pensare sovietici: si doveva fare i conti con un sistema profondamente diverso da quello degli altri paesi socialisti, dove la memoria se non la pratica del mercato e della democrazia era rimasta viva. Uno degli aspetti di questa eredità è stata la congiuntura politica, che nel corso di questi nove anni ha visto un esecutivo riformatore alle prese con un parlamento conservatore dove il Partito comunista e i suoi alleati avevano la maggioranza effettiva in una "movimentata" coabitazione politica.

E' in queste condizioni che Eltsin e i suoi vari primi ministri hanno attuato una rottura netta con il vecchio sistema. Ma si può parlare di un sistema politico ben delineato? Quello che è successo potrebbe essere definito come un costante intreccio pragmatico fra volontarismo riformatore e difesa ostinata del potere acquisito nelle confuse circostanze del golpe fallito del 1991. Tutte le armi sono state utilizzate, dal paziente lavoro legislativo spesso esposto al blocco della maggioranza parlamentare fino alle manipolazioni politiche giocate sugli interessi divergenti dei partiti e degli schieramenti della Duma, passando per gli episodi più sanguinosi, come l'assalto alla "Casa bianca" nell'ottobre 1993 o la prima guerra cecena alla fine del 1994.

Questa instabilità politica congenita e l'assenza di un largo consenso sui tempi e la portata delle riforme hanno spinto il potere a moltiplicare, come nel periodo sovietico, le eccezioni e le deroghe alle nuove leggi appena entrate in vigore, per favorire settori, imprese e intere regioni da cui ci si aspettava un sostegno politico o finanziario. Tuttavia queste procedure, oltre a minare l'autorità delle nuove leggi attraverso la loro deregolamentazione dall'alto (si è parlato di federalismo su misura o di affitto dei settori più redditizi), non potevano non spingere alcuni dirigenti incaricati di metterle in pratica a comportamenti illegali, che univano gli interessi diretti del potere con quelli delle persone o delle lobby che rappresentavano.

Si è molto parlato del ruolo dei consiglieri stranieri e dei loro modelli. Putin ritiene che per avere successo "la modernizzazione della nostra patria non può essere solo il risultato di un semplice trasferimento sul suolo russo di modelli e schemi astratti, ripresi da manuali stranieri". Ma lo storico Roj Medvedev (2) sottolinea il ruolo dei consiglieri occidentali venuti a formare, dal novembre 1991, una sorta di "stato maggiore della terapia d'urto" presso il governo di Egor Gaidar, e appunta le sue critiche soprattutto sui primi riformatori liberali russi, che avevano verso la democrazia e il mercato un'ingenuità dogmatica paragonabile solo a quella dimostrata dagli ideologi sovietici nei confronti della pianificazione socialista.

Questi primi passi sulla strada della riforma erano un intreccio di illusione e di cinismo. Illusione quando si pretendeva di dare ai meccanismi di mercato il potere di modificare rapidamente l'economia e la società, sull'esempio di una nuova Nep (la Nuova politica economica lanciata da Lenin nel 1921), dimenticando che quel programma aveva avuto un relativo successo grazie alla presenza ancora forte del mercato nelle pratiche sociali. Questa illusione era del resto largamente condivisa dall'opinione pubblica, come testimonia la continua attrazione di molti russi per le piramidi finanziarie. Illusione che ha spinto a vedere nelle leggi di mercato lo strumento in grado di sostituire rapidamente il ruolo regolatore dello stato, anche nella fase più delicata, cioè quando le norme precedenti erano state abolite e le nuove legislazioni erano solo abbozzate. Così in tutti i campi si sono creati vuoti giuridici e zone d'ombra che hanno propiziato illeciti di ogni genere. Questa volontà di sbarazzarsi della struttura dello stato centralizzatore è stata ancora più forte in quanto si avvicinava idealmente alle campagne liberali radicali allora di moda in Occidente.

Il cinismo invece si riscontrava nell'idea che solo una rottura radicale indipendentemente dal suo costo sociale avrebbe potuto assicurare il successo delle riforme. Del resto nei grandi paesi industriali occidentali la prima fase di accumulazione capitalistica non era forse stata accompagnata da crisi sociali, scandali finanziari e sconvolgimenti di ogni genere?

Così il paesaggio economico e politico della Russia, profondamente trasformato dopo nove anni di riforme condotte in queste condizioni, è paradossale: un puzzle composito di elementi democratici e di economia di mercato in cui affiorano costumi e strutture tipicamente sovietiche. Da questo punto di vista il bilancio delle privatizzazioni è significativo e molto più complesso di quello che si potrebbe immaginare.

Il momento dei piccoli passi E' vero infatti che un pugno di oligarchi controlla i grandi poli della finanza, dell'industria e dei media grazie all'aiuto concesso dal Cremlino, che in questo modo ha cercato di dar vita a grandi gruppi monopolistici simili a quelli occidentali.

Concepite come strutture quasi esclusivamente russe, queste grandi imprese hanno paradossalmente partecipato all'indebolimento del paese, lanciandosi più nella speculazione internazionale che nell'allargamento della base produttiva fuori dai settori tradizionali di loro competenza (idrocarburi, complesso militare-industriale, metallurgia, ecc.). Ma si deve anche considerare la moltitudine di imprese più modeste, la cui privatizzazione è stata controllata dalle regioni. Non che questo livello sia stato esente da favoritismi o da rapporti ambigui fra politici locali e industriali alcuni governatori sono palesemente coinvolti in fatti criminali ma la logica di funzionamento di questo livello regionale è molto più sensibile ai problemi reali della popolazione.

L'elezione diretta dei dirigenti a partire dal 1996, è stato per questi un forte stimolo a preoccuparsi di più degli interessi economici locali. Inoltre in questi ultimi anni le regioni hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo di una politica russa coerente, a tal punto che all'inizio del 1999 governatori e presidenti delle repubbliche avevano creduto, sull'esempio del sindaco di Mosca Jurij Luzhkov, di poter svolgere un ruolo decisivo nella vita del paese. Essi puntavano il dito contro quello che è stato uno dei fallimenti più evidenti della politica di Eltsin: l'incapacità di preservare la fiducia dei russi nel loro futuro, conseguenza della perdita di autorità del paese nell'arena internazionale.

I commenti sulle possibilità di Putin, in caso di vittoria alle elezioni presidenziali, di dar vita a un cambiamento decisivo in Russia sono estremamente prudenti. La coincidenza della sua nomina come primo ministro e l'inizio del nuovo conflitto ceceno ha raffreddato gli entusiasmi occidentali. Tanto più che la strumentalizzazione elettorale di questa guerra almeno in un primo momento gli aveva portato grandi consensi. Le diverse fasi della sua carriera funzionario subalterno del Kgb nella Repubblica democratica tedesca, poi principale consigliere di uno dei riformatori più contestati, il sindaco di San Pietroburgo Anatolij Sobciak, scomparso di recente, e infine uomo fedele all'apparato del Cremlino gli hanno permesso di acquisire un'esperienza multiforme e numerosi appoggi, ma non fanno molta luce sulle sue reali convinzioni.

Molti in Russia ritengono che Putin abbia tutte le possibilità per lanciare quello che alcuni non esitano a definire il "new deal" di cui il paese avrebbe bisogno. Si tratterebbe in realtà di mobilitare l'opinione pubblica su un progetto di risanamento economico e nazionale fondato sulla ritrovata fiducia. L'alto prezzo del petrolio, la leggera ripresa della crescita nel 1999 e la sua innegabile popolarità (non solo frutto della guerra in Cecenia), lo liberano da una dipendenza eccessiva nei confronti degli oligarchi e dei loro media, mentre può approfittare della neutralità dei principali dirigenti occidentali. Non si tratta più, secondo le sue stesse dichiarazioni, di arrivare al capitalismo in vent'anni, come affermava ai suoi tempi Nikita Krusciov. Putin si considera realista: "Ci vorranno quindici anni, dice, per raggiungere la Spagna o il Portogallo con una crescita annua dell'8% [il tasso di crescita dell'industria nel 1999]". E' il momento della politica dei piccoli passi.

La maggior parte degli osservatori concorda sulle condizioni necessarie per vincere questa sfida: si deve rinunciare al ruolo regolatore dello stato affermazione che del resto trova concordi molti occidentali cercando al tempo stesso di dare coerenza ai grandi programmi di riforma economica e politica e agli obiettivi per uscire dalla crisi. A questo scopo è necessario attaccare frontalmente la criminalità e ancora di più le zone grigie che caratterizzano oggi i rapporti tra gli ambienti finanziari e politici. Ma più delle azioni giudiziarie (anche se alcune sono probabilmente necessarie) o delle rinazionalizzazioni proposte da alcuni, si deve soprattutto ridare fiducia agli investitori e in primo luogo creare un flusso di rientro dei capitali russi verso l'economia reale e "legalizzare" l'economia parallela.

Uno dei temi principali della campagna è la ridistribuzione delle ricchezze. Il divario tra i nuovi ricchi e i nuovi poveri è diventato enorme. Putin si è impegnato non solo a saldare gli arretrati degli stipendi e delle pensioni, ma ha annunciato una rivalutazione del 40% delle pensioni in marzo. Semplice manovra elettorale? Sì e no. E' soprattutto migliorando gli stipendi degli impiegati pubblici che Evgenij Primakov si assicurò a suo tempo un largo sostegno politico. E la stabilizzazione economica otterrà l'adesione della popolazione solo se queste categorie decisive dell'elettorato ne potranno beneficiare in qualche modo.

Putin potrà promuovere un tale cambiamento? Dal luglio 1999 il suo impegno negli affari regionali a parte il caso ceceno ha impressionato gli osservatori. Sempre presente, ha dimostrato una reale capacità di ascolto e di sostegno, criticando apertamente chi, come il generale Aleksandr Lebed, continuava a privilegiare i propri interessi particolari. Gran parte della popolazione e degli attori economici aspetta segnali altrettanto forti per quanto riguarda i grandi oligarchi o i settori monopolistici (energia e trasporti), la cui deregolamentazione da parte dell'amministrazione precedente ha fortemente accentuato eccessi finanziari e politici di ogni genere.

Un'alleanza sorprendente Putin non potrà disporre di una maggioranza riformatrice nella nuova Duma, dove né la destra liberale né la sinistra conservatrice hanno ottenuto la maggioranza. Ma potrà probabilmente fare affidamento su forze sociali esterne che potrebbero avere un'influenza decisiva. Ci riferiamo in particolare agli attori regionali politici ed economici che hanno continuato a chiedere una chiarificazione delle regole del gioco. Un movimento da non sottovalutare e che rappresenta un potenziale rischio di indebolimento per l'autorità federale.

Ma il successore di Eltsin ha un vantaggio non trascurabile per cercare di definire un nuovo equilibrio funzionale tra Mosca e il paese reale: lui stesso proviene dalla provincia e gode quindi delle simpatie di gran parte dei governatori e dei presidenti, sempre diffidenti verso l'élite moscovita. Potrà inoltre contare su quella classe media di cui troppo spesso è stata annunciata la scomparsa dopo la catastrofe dell'estate 1998. Questa parte molto eterogenea della popolazione è stata colpita ancora più duramente, in quanto si credeva finalmente al sicuro, dopo aver assaporato i primi effetti dinamici della riforme.

Ma queste classi, che condividono con la maggior parte dei russi una profonda avversione per gli oligarchi e per le loro pratiche, sono certamente pronte a sostenere il rilancio delle riforme, anche nell'idea di un ritorno all'ordine, purché non vengano cancellate le principali conquiste ottenute nel campo dei diritti della persona.

La scelta sorprendente di un'alleanza tattica tra l'Orso (il nuovo "partito del potere") e il Partito comunista alla Duma, mentre Anatolij Ciubais annunciava il ritorno trionfale di una destra liberal-radicale, dimostra la volontà di utilizzare tutte le possibilità offerte dalla complessa politica russa. Putin ha giustificato l'alleanza affermando il suo desiderio di ottenere un largo consenso all'adozione degli elementi mancanti della riforma istituzionale. A questo proposito ha incaricato un Centro di studi strategici di proporre un programma di azione che dovrebbe essere presentato a fine febbraio. Allora se ne saprà un po' di più sul programma di riforme di Putin.

Ma, per ora, l'attenzione degli osservatori, sia in Russia che all'estero, si concentrerà soprattutto sui due test chiave del nuovo corso: la soluzione della questione cecena e la capacità di rilanciare l'economia controllando al tempo stesso i circuiti paralleli e criminali.

note:

* Professore all'Inalco, autore insieme ad Alexis Berelowitch di 100 portes de la Russie, Editions de l'Atelier, Paris, 1999.

(1) Vladimir Putin, "La Russia al volgere del millennio", dicembre 1999, www.government. gov.ru

(2) "L'economia del buon senso, dieci consigli per il governo del 2000", Rossijskaya Gazeta, 21 luglio 1999.

(Traduzione di A.D.R.)