Bambini
per le strade del mondo


Ghetto Ngei

Tratto da "L'anima dei bulldozer - Viaggio nella nuova baraccopoli africana"
di Andrea Berrini - Baldini e Castoldi Ediz. 1996

«Non farti ingannare / Non farti ingannare dal viso che indosso, / Perché ciò che indosso è maschera, maschere a migliaia, / Maschere che ho paura di strapparmi di dosso / E nessuna di esse è me.»

Oggi, nel salone di fianco alla chiesa di Kariobangi, le maschere sono di cartapesta, scure, stilizzate, e non hanno niente di africano. La recitazione è enfatica, di forte drammaticità quando l'attore grida il suo dolore dal palco spoglio. Partecipazione attenta del pubblico sulle sedie di ferro colorate, sorpreso dall'intensità della pièce, così differente dalle altre messe in scena della giornata. Il testo riesce a trattenere verso il palco anche lo sguardo dei bambini per i suoi dieci minuti filati. Molti, qui, sanno chi sono gli attori di questa nuova compagnia: sono i ragazzi di Ghetto Ngei Group, ladri e sbandati di Huruma solo pochi mesi fa, ora riuniti da suor Speranza nella cooperativa che produce cestini, tessuti colorati e oggetti in cuoio. Gli attori hanno appena recitato la scena chiave, nella quale uno di loro viene catturato dalla folla, che dopo averlo legato mani e piedi, lo colpisce con le pietre. Poi qualcuno gli infila il copertone sul collo e gli dà fuoco. I ragazzi stanno mettendo in scena la propria esperienza reale. Il titolo del testo da cui sono tratti i versi di Whitfield è: Healing the Child Within You - Guarire il bambino che c'è in te. Speranza è spagnola - Espera'nza -, di quell'età indefinibile che mostrano certe suore non ancora anziane  avrà forse quarant'anni -, capelli neri, occhi verdi che mandano lampi di gioia - o è sensualità? - nel raccontarmi il suo lavoro a Ngei one. Il corpo snello sottolineato dagli abiti insolitamente attillati, il discreto italiano che parla con le «v» al posto delle «b», accavalla le gambe davanti a me sulla poltroncina e non posso fare a meno di pensarla una donna attraente. Ma i suoi occhi sono tutti per i ragazzi di Ghetto Ngei.

«Sei ragazzi di Ghetto, lo slum di lamiera nella valle di Mathare, dove ci sono molte bande. Gruppi organizzati, violentissimi, con legami di sottomissione gli uni agli altri, e gerarchie precise all'interno del gruppo. Sei ragazzi di Ghetto bruciati nel giro di un mese.» Altri due sono stati salvati all'ultimo momento per l'intervento della brava gente del posto, i cristiani del quartiere, che in seguito a questi episodi hanno deciso di chiedere aiuto a suor Speranza.

Ragazzi: uomini fatti, semmai, fra i 18 e i 30 anni. Dediti in modo assiduo al bangi (la marijuana locale) al pombe (il super alcolico distillato nello slum) e a certe droghe di sintesi, che Speranza ritiene vengano da fuori, forse da Tanzania e Uganda, forse dall'America Latina: «Gli effetti delle pasticche sono simili a quelli della marijuana, più lunghi e più forti, e costano meno», ma a me sembra che lei ne abbia un'idea abbastanza vaga, come se neanche volesse saperlo davvero.

«Molti di questi ragazzi, in passato, hanno ucciso. Altri hanno solo rubato, anche nelle case del centro città, protetti dai poliziotti che prendevano la tangente. »

Speranza mi accompagna al primo incontro con il gruppo una mattina. Il cielo si è appena pulito dopo venti ore di pioggia battente, la terra dello slum si è sciolta in una palta grigia alta fino alle caviglie, una sostanza uniforme nella quale non è più possibile distinguere il fango dal pattume in decomposizione. E' come un humus di origine sociale dal quale potrebbero germogliare i demoni dello slum. Ma a Speranza il fango non basta, è decisa a scioccarmi, mi sottopone a una specie di prova del fuoco. Come dicesse: intervisterai i ragazzi, ma non credere che basti. Devi capire fino in fondo l'ambiente in cui vivono.

E allora, facendo quello che riconosco essere un largo giro, sempre con gli occhi a terra passo dopo passo per non perdere l'equilibrio sul fango scivoloso, dopo una svolta mi accorgo che al grigio della palta sono mischiate altre sostanze variamente colorate: di rosso, oppure di un giallo verde acidulo. Alzo gli occhi e intomo a me vedo cento e cento uomini con grosse mannaie tra le mani, che fanno a pezzi le carcasse di mille capre, e vedo altre capre piangere in grandi gruppi spinte in mezzo alla via, e mucchi di stinchi - piccole ossa lunghe una spanna, che altro non possono essere se non stinchi - a terra già affondati nel fango, già pronti a far parte di quell'humus. Avanziamo a fatica tra la folla di persone e di animali, e questa è dawero la Los Angeles di Blade Runner, non quella elettronica, ma quella di carni e di ossa, simili le due città nella proliferazione degli stimoli visivi a corto raggio che impediscono allo sguardo di allargarsi, a comprendere l'interezza dell'orizzonte.

Sulla destra, dietro le baracche, scende il pendio di Ghetto, dove hanno bruciato sei ladri in un mese.

«I ragazzi sono stati aiutati soprattutto dalle comunità cristiane del quartiere. E' questo che ha permessso loro di tirarsi fuori: vedere che la gente li salutava, passando per la strada. Magari le stesse persone che in passato avevano subìto i loro furti. E tutto questo li ha letteralmente smontati. La fiducia della gente: loro raccontano sempre di un cattolico di Huruma, vicino a Ghetto, che li ha lasciati soli in casa sua per un'ora intera. Una casa ricca, con un televisore che loro avrebbero potuto portare via. E sono rimasti scioccati da questa fiducia. Non la fiducia della suora bianca, ma quella della gente del quartiere.« Perché», sottolinea Speranza, «non è dai bianchi che deve venire l'aiuto, ma dalla gente come loro.»

Azzardo un'ipotesi: si può dire che li avete guariti, insomma.
Speranza non si scompone: «Certo, è una forma di healing». Healing, guarigione, è il vocabolo inglese che viene utilizzato in ogni conversazione, anche in Swahili o in italiano.

«Healing inteso come un lento processo. Non basta certo una seduta per ottenere una guarigione duratura: io non accetto quei rituali di guarigione basati su un mix psicospirituale alla buona, per cui poi si dice al malato: "ecco, sei guarito". Il risultato è che il malato non potrà poi ammettere nessun tipo di ricaduta successiva, perché la vivrà come una colpa, un tradimento verso Dio che lo ha guarito.»

Speranza mi racconta l'analisi transazionale di gruppo fatta con i ragazzi di Ghetto Ngei, e di quante sedute di discussione collettiva lei ha avviato. «Il nostro healing è progressivo, per tappe. Devi sempre sapere che gli stop sono frequenti, o le regressioni. E' un healing psicologico, fisico e spirituale al tempo stesso.»

E poi, dice, è sbagliato l'approccio di quelle associazioni tipo «alcoolisti anonimi» che portano la persona a dire: sono un alcolizzato. Nel fare questo ci si identifica con la colpa, con il comportamento negativo: «La persona deve poter dire: io bevevo. La malattia non è mai statica, anche se lascia delle ferite. Devi spiegare alla persona che è buona, perché ha lo stampo di Dio dentro di sé».

Nel salone della scuola intitolata a San Martín - alla spagnola - incontro una ventina di ragazzi dei quartieri di Ghetto e Ngei one. In piedi attorno a un tavolo alto, appoggiati sui gomiti, ci stringiamo a chiacchierare. Loro sono abbastanza aperti, hanno voglia di parlare. Quando uno di loro comincia a raccontare non sembra voler mai smettere, sono io che lo interrompo rivolgendomi a qualcun altro, tanto per sentire campane diverse. Speranza si allontana di qualche metro, cammina su e giù per il salone tenendo le braccia incrociate, come per lasciarli liberi di esprimersi. Poi a tratti si avvicina quasi senza farsi vedere, preoccupata che le cose vadano bene. Sembra volerli proteggere da domande pericolose.

Quella domenica a Kariobangi, la breve pièce teatrale sul testo di Whitfield era stata recitata nel grande salone della missione, nel contesto di un festival giovanile che si tiene tutti gli anni a turno fra le parrocchie della cintura orientale di Nairobi.

Kariobangi è comunque un luogo particolare, situata com'è all'ingresso di Korogocho e a un tiro di schioppo da Huruma, Ghetto, Ngei one e two, avamposti della famosa Mathare Valley. Presso la missione di Kariobangi risiede Speranza, e qui è la base logistica dei missionari di Korogocho. So che molti tra coloro che assistono alle rappresentazioni teatrali sono colpiti e preoccupati di trovarsi così vicino allo slum profondo.

Peter Wachira, perito elettronico in cerca di lavoro, ma occupato in molte delle attività di Mji ya Furaha dove infatti risiede, è il segretario generale del comitato organizzatore del festival, oltre che regista e sceneggiatore della pièce di Ghetto Ngei. E' lui che mi ha presentato a Speranza, ed è lui che mi presenta molti dei suoi amici e conoscenti, convinto che ogni tipo di incontro possa essere utile al mio libro. E' sveglio, Peter - «I like being busy», ripete spesso, ed è una frase che mi resta impressa -. I suoi amici sono persone interessanti: un giovane produttore di Radio Kenya, un architetto impegnato in un certo progetto tedesco di riabilitazione di uno slum. Peter viene da Umoja three, uno dei quartieri intermedi, e la gente che frequenta è evidentemente di quel ceto intermedio. La sera del sabato, alla chiusura dell'ultimo spettacolo, accettiamo l'invito di una certa Mary Anne, sua ex compagna di scuola: fate un salto da me.

Percorriamo in macchina la Outer Ring Ro ad dopo il tramonto, è quasi buio completo. Peter ha abbassato con un gesto imperioso i pomelli di chiusura delle portiere e mi obbliga a tirare su anche il finestrino: «Non mi piacciono queste strade, di notte». Siamo a trecento metri dalla missione, alla rotonda tra Outer Ring e Juja Ro ad dove di giorno stazionano i trasportatori in cerca di un carico per i loro camioncini. Con il buio, questo posto diventa Raundàa (nello slang di Nairobi, lo Swahili sheng). Qui, dice Peter, operavano i ragazzi di Ghetto Ngei.

Anche Buru Buru, il quartiere dove abita Mary Anne, è completamente al buio quando arriviamo, a parte una zona centrale con un bar e una immensa stazione di benzina Esso che sembra un'astronave, e il lungo edificio di fronte dove molti negozi con le insegne al neon sono ancora illuminati. Ma le vie attorcigliate su se stesse a spirale, come certi sobborghi di Londra - Buru Buru crescent!  sono di nuovo un bagno nell'oscurità e in un silenzio celebrato dai riquadri delle finestre accese come tanti lumini. Si intuisce un'esistenza familiare, strutturata, ben vestita.

Ci fermiamo davanti a un cancello di metallo pieno, che viene spalancato per consentirci di parcheggiare all'interno di un alto muro perimetrale bianco, con i cossi di bottigia sul ciglio per difendersi, forse, da altri ragazzi di Getto Ngei.

All'interno, è evidente che la nostra visita viene accolta come un onore dal padre e dalla madre di Mary Anne. Ci invitano a sedere circondati dai fratelli e ci offrono fette di pane imburrato - ma deve essere margarina vegetale -, birra locale Tusker Premium e Sprite. Il salotto è piccolo ma denso di mobilio, di libri e oggetti affastellati gli uni sugli altri. C'è anche un televisore, acceso, che emana una luce verdognola. Le immagini sono disturbate dallo scorrimento orizzontale, e di questo la madre di Mary Anne si scusa con me.

Ceto medio davvero. Le figlie grandi ci salutano, escono con la macchina del padre, vanno a una festa di scuola. Il padre porta basette e folti baffi neri, ci parla del suo lavoro in un ufficio della Kenya Commercial Bank in centro. Spiega che la macchina costa, ma sorbirsi il viaggio in matatu ogni giorno non è cosa per lui. La madre parla di come siano violenti i matatu boys, e anche ladri, e poi si lancia in una lunga digressione sui bus di Londra che lei - c'è stata ben due volte, a trovare i parenti - conosce così bene. Si fa presto inarrestabile, questa grossa madre con il vestito a grossi fiori colorati, e dice che le piacerebbe tanto viaggiare, che ama tanto l'Europa, e comincia a declamare i nomi dei negozi di Londra, e Harrod's, e Bloomingdale, e Oxford street: oh, come li si conosce bene!

E Mary Anne resta in silenzio, così come il padre. E dice, questa innarrestabile madre, che anche Nairobi potrebbe essere così, se non fosse per tutta questa gente degli slum che, si direbbe, la infesta, la rende pericolosa, e pesa, dice lei, sul City Council che non ha i soldi per tenere pulita tutta la città, per riparare le strade, le scuole. Sì, lo ha letto anche lei il «Nation», l'articolo sulla morte di Simon Kananpiu Kamande, e dice: ma la madre di quel ragazzo, perché non l'ha tenuto a casa? Perché ha permesso che andasse in giro a rubare? Dice: vedi questi cocci di vetro sul muro, qui intorno, è perché la polizia non ci protegge. E quindi: ma questa gente, degli slum, perché vengono tutti a Nairobi, che poi non trovano lavoro? Perché non se ne tornano nei loro villaggi, cosa vengono a fare, qui?

Ceto medio. Li incontro più volte, i ragazzi di Ghetto Ngei. Raccolgo le loro storie, i loro commenti. Non tutto ciò che mi dicono è completamente vero e Speranza, poi, integra i loro racconti.

A Kariobangi mi trovo con Martin e Alphonse in un locale della missione. Martin - Martin Luther è il suo fantasmagorico nome completo - mi è stato descritto da Speranza come il più intelligente di tutti. Capace a scuola, sta per diplomarsi perito elettronico. Gli piace leggere, sa interpretare la personalità dei suoi compagni e spesso Speranza gli chiede consiglio. Martin è alto, ha un bel viso, e il taglio degli occhi sottolinea uno sguardo dolce ma consapevole. Alphonse è basso, la faccia ingrugnata, il naso un po' storto. E' molto più cool, quasi intimidito e sopraffatto dalla personalità del compagno. Anche Alphonse, quindi, è molto interessante, e cerco di dargli la parola più spesso possibile. E poi Alphonse, un giorno, mi porterà giù a Huruma, Ghetto, Ngei. A vedere le bases, parola inglese trasferita pari pari nello Swahili sheng.

Martin: «Ogni gruppo ha la sua base, dove ci si trova per fumare bangi. E' per questo che ci si trova. In qualche posto lontano dalle case, dalle vie principali. Poi c'è invece la job base: è dove ci si apposta per scippare i passanti». Raundàa, certo. Lì c'è traffico, le auto rallentano, e basta infilare una mano dentro al finestrino per farsi la giornata. In città c'è Mawindoni, che in sheng vuol dire «cacciare».

«Brokers Massive (si potrebbe tradurre con "ricettatori alla grande") era il nome della nostra banda, che si ritrova alla Jobless Corner Base, JCB. Un buon posto tranquillo, davanti a un negozio di musica, e senza poliziotti in giro. Ma non è una job base, è una relax base. Ci viene anche gente da altri quartieri perché l'atmosfera è buona, c'è la musica a tutto volume.» (Diceva Speranza: vedrai, non ti racconteranno niente delle loro imprese in comune, è un patto di omertà. Sarà più facile invece che qualcuno ti racconti una sua storia personale, da solo.)

Alphonse: «Fumavo bangi, come tutti, e sono entrato nel gruppo. Vivo solo da quando ho vent'anni, prima ero stato con mio padre e i miei fratelli». (Speranza: Alphonse è solo da quando è ragazzino. La mamma non c'era, il papà è morto. I fratelli maggiori lo sfruttavano e lo picchiavano.)

Sempre Alphonse: «JCB è relax: la musica, il fumo, raccontarsi delle storie ».
Questo fatto delle storie mi verrà ripetuto più volte quando scenderemo nello slum. Alphonse mi accompagnerà a visitare le diverse bases, una giornata asciutta ma ventosa, la polvere e il pattume negli occhi a ogni svolta. Gestapo base, al primo piano di una abitazione crollata: qui si gioca d'azzardo, ma Alphonse non ci ha mai provato, lì si perde perché tutti barano: «Giocano a carte e a dadi, e poi hanno altri sistemi». Poi Kingstone Hots, dentro a una casa non ancora terminata, ci sono i muri ma non il tetto: «Il proprietario è stato costretto a lasciare così la costruzione, lo hanno minacciato. Qui ci sono tutte le droghe chimiche, ti danno forza».

Ma cosa fa la gente, tutto il giorno nella base? «Niente, non c è niente da fare tutto il giorno, e allora fumi eracconti storie.» Storie, storie, ma quali storie hanno da raccontarsi?

Diceva Martin: «A me piace leggere, mi tiene occupato - I like being busy, anche lui -. Il pericolo più grande per la young generation è questa inattività, tutto il giorno. Ti porta a cercare compagnia, a sederti lì e non fare più nulla per mesi, magari per anni». (Speranza: Martin ha un sogno, quello di scrivere un libro sulla sua vita.)

Martin: «A JCB ci va gente che ama la musica e le ragazze. Quelli di Raundàa chiamano lovers quelli di JCB. A Raundàa ci va altra gente, per JCB la job base era Mawindoni. Io ero diverso, andavo sia a JCB che altrove. Mi piaceva un gruppo di Ghetto, i Public Enemies, perché facevano tae-kwo-ndo, arte marziale giapponese».

Poi: «In città? No, non eravamo un grosso gruppo, da qui andavamo in tre o quattro». (Speranza: tutta la banda partiva da Ngei, andavano in venti su a Mawindoni, pericolosissimi.)

Alphonse: «Ho imparato tutto in un gruppo che si chiama Peer (dal dizionario: "uguale, di pari condizione sociale"). Ci conoscevamo fin da bambini. Quando poi diventi grande, a diciott'anni, e devi cavartela da solo, allora cominci a rubare». (Speranza: diciott'anni? A dieci, undici al massimo, i fratelli lo picchiavano se non portava soldi a casa.)

«Vai in giro con un amico, hai una paura enorme ma non devi farla vedere. Il lavoro è questo: tu blocchi uno per il collo, il tuo amico prende i soldi e corre via, poi scappi anche tu.» In Swahili sheng si dice ngeta, prendere per il collo la vittima, da dietro, immobilizzarla con l'avambraccio in modo che si senta soffocare; (ngeta: dal to get inglese, prendere, ottenere); Charles, il pastore della God's Last Appeal Church di Maurice, mi aveva raccontato il sogno di sentirsi stringere il collo e soffocare, come incubo ricorrente nello slum. «Lo fai di notte, quando è buio e c'è meno gente in giro. Di giorno no, devi essere velocissimo, strappare orologi, afferrare cappelli al volo e correre a perdifiato.»

Martin: «Ho imparato da mio fratello maggiore. Andavamo a Majengo, non lontano dal centro. Io avevo solo dodici anni, ma i grandi mi portavano con loro perché ero già molto furbo. Sai», dice Martin, «io ho sempre avuto una grande capacità di farmi obbedire, di dare ordini anche a quelli più grandi di me. Non so dire esattamente che capacità sia, guardo gli altri negli occhi e la mia volontà è più forte della loro. Quando io dicevo no era no, e nessuno aveva il coraggio di insistere».

Ancora Martin: «Andavamo nelle estates (le zone residenziali della middle class) a rubare nelle case anche di giorno». Perché lì le case sono più ricche, c'è più bottino? « Sì, e poi lì quando ti prendono ti consegnano alla polizia, non ti bruciano mai. »

Chicago, detto anche Kagoo, stava a Menda base (Menda viene da fundamentalists, detto in senso rasta). Si sapeva che, spesso da solo, rubava nelle baracche della zona. Un giorno, dopo un furto a Ngei, una folla di un centinaio di persone scende al fiume a cercare quelli di Menda. Non trovano più nessuno, naturalmente, ma tornando su a Ngei incappano in Chicago, che non sapeva nulla e non c'entrava niente con il furto. Chicago era il più rasta di tutti, con le Treccine e la fascia colorata. E rasta, per gli abitanti dello slum, equivale a ladro. Lo prendono, lo picchiano con i sassi, lo portano sanguinante davanti alla baracca di suo padre. L'uomo è disperato, cerca di strappare il figlio dalle mani della gente, ma viene picchiato anche lui, colpevole di aver dato la vita a un ladro.Viene trascinato a terra, lo tengono fermo per le braccia e le gambe. Gli dicono, guarda di tuo figlio cosa ne facciamo. Bagnano il corpo di benzina - ma probabilmente era già morto - e gli danno fuoco.

Martin: «Menda base erano tanti, ma non rubavano quasi mai. Avevano inventato un buon sistema per guadagnare: costruire un ponticello sul fiume, giù nella valle, e far pagare il pedaggio. E la gente del quartiere usava il ponte, ma covava la rabbia contro di loro. Per entrare nella Menda base dovevi essere forte, un combattente, anche perché era necessario far rispettare l'obbligo del pedaggio illegale. Tutti i Menda facevano boxe o arti marziali. E così erano spesso in mezzo a qualche rissa nei bar. Si erano fatti un sacco di nemici, e molti fra quelli che hanno bruciato Chicago erano persone che avevano già fatto a botte con lui».

Huruma Valley, la sezione orientale di Mathare: una larga strada attraversa la zona, a destra è Ghetto, a sinistra è Ngei. La strada scende diritta fino al fiume, e risale sull'altro versante. Lungo la strada sono edifici alti, tre o quattro piani, tutti uguali nella loro struttura a pilastri di cemento armato tra i quali vengono innalzati muri di grossi blocchi di pietra. Le finestre hanno le inferriate. Qui è passata la speculazione: sono passati i bulldozer a buttar giù baracche per costruire in muratura. Adesso in questo quartiere convivono le costruzioni più diverse e i materiali più vari: la terra impastata, la lamiera, e il cemento. Le vie sono un po' più larghe eppure ci si lamenta lo stesso per la mancanza di spazio.

«Non abbiamo più nemmeno un posto per giocare a pallone», mi dice Alex, compagno di stanza di Alphonse.
Abitano insieme in un palazzotto nuovo, hanno un cubo di cemento di tre metri per tre con due brande e un paio di libri sullo sgabello che fa da comodino. Il bagno in comune, fuori, è pulito, e c'è anche una doccia. Il lavoro nella cooperativa di Ghetto Ngei Group consente loro un tenore di vita decisamente superiore alla media. (Speranza: non sapevo nemmeno che abitassero insieme. Settecento scellini di affitto al mese? Con i nostri lavori artigianali raccolgono a malapena cinquecento scellini a testa.)

Siamo arrivati che Alex era disteso sul letto a leggere l'autobiografia di Nelson Mandela: un posto pulito, sicuro e tranquillo permette anche di leggere. Alex è disoccupato e ha solo i lavori in cuoio da Speranza, tre volte la settimana, quando è libera la hall di San Martín. E' alto, magro, ha un tic nervoso che lo porta a contrarre una narice di continuo. Si mette subito a parlare di buona voglia - da gran raccontatore di storie, direi - intercalando di continuo un ninì. Nìni, con l'accento piano, vuol dire «cosa» in Swahili. Il risultato dello spostamento di accento è straordinariamente simile al «così» italiano.

Ci sono quelle - Nino`- pasticche, droghe chimiche che vengono dagli ospedali per le malattie mentali. Mandrax, è un nome. Oppure Teva (sarà il nostro Tavor?, ma è un tranquillante), o D5, o - ninì - Villiam. Costano pochissimo, come il bangi, uno scellino tre pasticche. Danno forza, energia, vinci la paura. Quelli - Nino`- che vanno a rubare (detto come se fossero altri), ne prendono quindici, e poi spaccano tutto. Diventano talmente- ninì violenti che quando la gente se li vede entrare in casa rimane paralizzata dal terrore, nemmeno grida o chiede aiuto. Ninì.

Certo, mi è difficile immaginare Alphonse in una situazione del genere: lui, intimidito, gli occhi spalancati, lo sguardo quasi sereno. Forse Martin, il cui sguardo dolcissimo è uno sguardo di sottomissione che potrebbe spezzarsi da un momento all'altro. O Alex accigliato, disturbato di continuo da qualcosa che gli accade dentro. (Speranza: Alex me lo ha detto sinceramente: non riesco ad andare avanti a studiare, non ce la faccio, non so concentrarmi.
Sua madre è alcolizzata cronica, gestisce la distilleria illegale del quartiere, e il padre non lo ha mai conosciuto.

Per lui è veramente dura, io gli ho detto di fare quello che si sente.) « Non abbiamo neanche lo spazio per giocare a pallone», ripete Alex mostrandomi le fotografie di un gruppo di bambini: sono loro da piccoli, ecco Alphonse, ecco Juma, ecco Alex in mezzo a una vasta boscaglia aperta, dove andavano tutti insieme a caccia di manguste quindici anni fa. Ora su quel terreno ci sono solo baracche fitte fitte.

C'è anche una foto più recente, Alphonse con la sua squadra di calcio, terza divisione a livello nazionale, la maglia rossa. Giocava terzino sinistro. «Come me! » esclamo all'improvviso. Quasi lo grido. Alex e Alphonse sono sconcertati, ma io di colpo mi alzo i pantaloni fino alla coscia, mostro il ginocchio ferito, l'incisione lunga una spanna, e spiego come si ricostruisce chirurgicamente un legamento crociato con una fetta sottile di tessuto sottratto al tendine rotuleo. Il legamento me lo sono rotto giocando da terzino sinistro! Un anno fa! «Però», comunico loro con aria mesta, «il ginocchio non e ancora a posto. »

« Guarirai », dice Alex.

C'nD è il nuovo nome della vecchia JCB: C'nD, cioè Cool and Deadly, a sottolineare la scelta di non violenza da parte di chi, se provocato, PUò ancora essere pericoloso.

Il nome originario del gruppo: Ghosts, tanti anni fa.
Altri nomi di bases: Kentucky, e Montego Bay. Katanga, naturalmente, base dei Bad Brothers. Ma anche le persone hanno soprannomi: Martin è Mbiosh dal suo nome luo Mbiokia, che gli piaceva molto, e Alphonse è Sijo, dal secondo nome Joseph. E poi ci sono Bangla - dal bungler inglese (pasticcione), o da Bangladesh? - e Barra, da barrack, caserma, della polizia o dell'esercito. Poi Olulu, che è un loro amico - cosa significa Olulu? «Oh, è solo un nome.»

Martin, che adesso è Mbiosh, continua il suo racconto: «Con mio fratello ho imparato il mestiere, poi con gli amici mi sono spostato in città. Scippavamo borse, collane. Non eravamo violenti, i coltelli servivano solo per spaventare chi cercava di inseguirci dopo il furto». (Speranza mi diceva: molti di loro hanno ucciso. Ma a te non lo diranno mai.)

Mtupensanye è la parola sheng che definisce le bande non violente: «A me piace far funzionare il cervello», dice Mbiosh. «Uno parla con i turisti e l'altro gli sfila i soldi dalla tasca. Io ero quello che parlava. Una volta l'ho fatto anche con un africano ricco. L'autista si era allontanato, io ho distratto il passeggero, mi sono messo a parlare con lui dal finestrino. Intanto i miei amici hanno forzato il portabagagli e hanno portato via una bombola di gas. Quando l'autista è tornato non sapeva capacitarsi per il furto subito. Noi invece eravamo lì e ci divertivamo un mondo a guardarli. Anche nelle case, entri con le chiavi false. Sei costretto a combattere solo quando sei colto sul fatto. E più facile essere feriti neile risse in discoteca. »

Alphonse, che adesso è Sijo, cambia discorso all'improvviso: «La Chiesa per molti è come un altro gruppo, un appoggio. Anche le Chiese indipendenti». (Speranza: io non ho voluto interferire, non ho mai chiesto loro di pregare, lo consideravo facoltativo. Quello che è importante è il processo di riabilitazione. Sono stati alcuni di loro che a un certo punto mi hanno chiesto una Bibbia. Se la sono letta insieme, erano affascinati dalle storie, come fosse un libro di avventure.)

Sempre Sijo: «Sì, la paura di Dio ce l'abbiamo tutti, ma poi ci si dimentica. Non ne parliamo. Però a volte capita che qualcuno dica: Dio mi salverà». Ancora Sijo: «Le Chiese sono interessanti perché i ragazzi», e dice così, i ragazzi, terza persona plurale, come fossero altri, «i ragazzi sono attratti dai gruppi».

Chiedo: e gli antenati? Non avete paura dell'influsso che può avere su di voi qualche buono o cattivo spirito?

No, dice Mbiosh, degli antenati non abbiamo paura: «I genitori non proteggono i loro figli. Quando rubano sono i genitori stessi che li portano alla polizia», e io inizialmente penso che abbia cambiato discorso. Poi capisco cosa vuole dirmi: che antenati vuoi che abbiamo noi, che nemmeno conosciamo i nostri genitori? Stregoneria? Sijo: «Non ci credo». Healing? «C'era un certo Mattoo, dei Bad Brothers, che a un certo punto è diventato pazzo, forse per il troppo bangi. Era uno spacciatore e un ladro. » (Mbiosh: «Makausi. Noi diciamo makausi in sheng, non ci piace la parola ladro, in inglese o in swahili». E cosa significa makausi? Mbiosh sorride: «Puoi tradurlo solo con "ladro"».)

Sijo su Mattoo: «I genitori lo hanno portato alla Legio Maria (una delle Chiese Indipendenti più importanti) perché pensavano che fosse opera di stregoneria. E Legio Maria lo ha guarito».

Dice Sijo: «Loro fanno quello che fanno, non so che cosa sia. Adesso Mattoo non beve più alcol e non fuma bangi. E non ruba più».

Compio un lungo percorso orizzontale, quel giorno, con Sijo e Alex a piedi nella valle seguendo il corso dcl fiume, verso Mathare ovest, lontano dalla zona dei cubi e delle strade ampie di Ngei uno e due, in mezzo alle baracche. Dopo un po' chiedo loro di risalire, voglio uno sguardo d'insieme della valle e dello slum. Ci arrampichiamo allora su per la scarpata e non so se è un sentiero o solo il pendio di una discarica, data la quantità di rifiuti che ci ostacola il cammino. Riemergiamo finalmente su, di fianco a un alto edificio in muratura. Sopra a una porta c'è una grossa croce rossa, è un ambulatorio privato. Mathare Clinic, recita la scritta: God heal, we care - Dio guarisce, noi ci prendiamo cura -.

Una lunga panoramica su Mathare, giù, la valle scavata entro due falesie verticali. Come se un Dio cattivo avesse tolto la terra sotto ai piedi alla gente della baraccopoli, o fosse passato con una enorme mano, una divina ruspa, a scavare il vallone entro il quale ordinatamente si possono posare le rassegnate abitazioni di questi Nairobiti del livello meno uno. Ma è puntata verso il centro, la valle: e infatti là, sopra i tetti in lamiera, si staglia come un faro la sagoma cilindrica del solito Kenyatta Conference Centre.

Ordinatamente si posano le rassegnate abitazioni: perché c'è più uniformità giù in basso che non lungo la Juja Road delle tante insegne, la Juja Road dei grandi parallelepipedi grigi e dei chioschi in legno, delle villette a schiera, degli edifici commerciali interamente dipinti bianco-arancio Sportsman (sigarette), giallo-nero Tusker (birra), rosso Coca-Cola (Coca-Cola) e azzurro Honda (auto, moto, fuoristrada, e perfino i Mata tu). Juja Road con la gente che passa, le facce stravolte di chi arriva la sera a piedi dalla lontana zona industriale, e il rumore dei Matatu in coda insieme ad auto, e bus municipali, i Matatu con le urla dei Matatu boys, i colori sgargianti e i nomi, da chissà dove: Mickey Mouse, The Ranger, Ghatanga Success, Street Fighter, Videolised, Sinbird, Hawk, Rasta - e perfino: A Luta Continua.

Ha più uniformità lo slum, di Juja Road. Luoghi riconoscibili, abitati. Luoghi, appunto.

Al ex e Sijo mi guardano come se fossi una bestia strana, un turista che scatta fotografie con una macchina nascosta chissà dove. Ma non mi chiedono cosa ci veda io, da quassù.

Ci tuffiamo di nuovo nello slum, andiamo giù a vedere JCB - ma ora è Cool 'n Deadly -. Ci tengono, a mostrarmela.

JCB che adesso è C'nD, è uno spiazzo fangoso all'incrocio di due strade, la colonna sonora è Jimmy Cliff. Sijo mi indica due grossi amplificatori fuori dal negozio di musica in muratura: ma sono spenti. Noi invece ci fermiamo sull'altro lato, accanto a un baracchino, di legno e lamiera inchiodati fra loro, ben dipinto in azzurro. Recita la scritta: Brokers Massive - Music Sto re. C'è Juma, qui, detto Olulu. Credo di capire che stia facendo il suo turno, il negozio è gestito da uno del loro gruppo. Lo hanno aperto utilizzando parte dei fondi accantonati dalla cooperativa di produzione artigianale. La scritta Brokers Massive è attraversata dalla striscia gialla e rossa e verde e nera rasta, la musica non è a tutto volume ma discreta, locale. Le cassette in esposizione sono varie: reggae, Calipso est africano, zairoise tipo Franco o Zaiko Langa Langa, e musica pop occidentale: Madonna e Whitney Houston.

C'è molta amicizia, fra di loro. Sono fieri di mostrarmi i loro posti, le loro cose, e forse sono fieri anche della vita che conducono ora, dopo la creazione di Ghetto Ngei Group. E poi arriva il loro campione: Ally Walla, un ragazzo all'apparenza come gli altri, forse solo un po' piùalto e grosso. Ma Ally Walla ce l'ha fatta per davvero, suona tutte le sere all'Hollywood, una balera dalle parti di Ngara Ro ad. Che musica suoni, Ally? Reggae, e solo reggae.

Non c'è dubbio, la loro musica è quella. Mbiosh: «Il rap dice cose violente, parla di rivolta. Ma noi non crediamo a quella musica. E' roba per mollaccioni, per ragazzi delle classi alte». (Cosa intendi per classi alte? Sijo: le classi alte sono quelle dove i genitori si occupano dei figli.)

Mbiosh: «Fanno i cattivi, e ascoltano il rap, ma è per finta. Noi preferiamo il reggae, che è cultura, radici africane. Bob Marley ci ha insegnato che il bangi è buono, ma che bisogna stare attenti alle altre droghe, cattive. Le prendi solo se ne hai bisogno, per darti forza prima di entrare in azione. Ma nessuno di noi si è mai abbandonato alle droghe più pesanti».

Di nuovo su a Kariobangi cerco Speranza, voglio salutarla e ringraziarla. Ecco la, sta venendo verso di me insieme a un ragazzo che non conosco. Il ragazzo cammina veloce con gli occhi a terra, lei lo guarda preoccupata, gli sta addosso come una madre in pena per il figlio che forse sta andando a bucarsi in Piazzetta. Lo marca stretto, mi viene da pensare, e quasi faccio il tifo per quel ragazzo che vuole solo fumarsi in pace il suo bangi, sentirsi Bob Marley, e chissà cosa gli sta dicendo addosso la suora, i lineamenti tesi, aggressivi.

Poi il ragazzo alza la testa, mi vede, spalanca gli occhi e accelera il passo verso di me. Arriva quasi di corsa, ora capisco che il suo sguardo è alterato. Mi stringe la mano con vigore, è terrorizzato: «Buon giorno. Buon giorno padre, buon giorno». E si allontana voltandomi la schiena: sulla maglietta nera ha una larga striscia rossa tra le scapole. E sangue.

«Lo hanno accoltellato. Per fortuna è superficiale, ma ci sono voluti dodici punti», spiega Speranza.

Che dire? Non avevo capito nulla. Provo a biascicare: «Come è successo?» Speranza: «Non lo so, è inutile chiederglielo adesso. Ora deve solo andare a casa e farsi una bella dormita. Poi ci sarà tutto il tempo per parlarne, pensarci su».

Lo sguardo terrorizzato del ragazzo mentre correva verso di me con gli occhi sbarrati, era lo sguardo di chi doveva farsi perdonare. Per la sua ferita. Per la sua colpa.










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