Bambini
per le strade del mondo


Notte a São Paulo

Tratto da "Il profeta della strada" libro dedicato a padre Julio Lancellotti, che svolge la sua attività a Belem, quartiere di São Paulo del Brasile, e ha dedicato gli ultimi 25 anni della sua vita alla difesa dei bambini di strada, dei senzacasa, delle prostitute-bambine, dei minori rinchiusi in riformatorio...
Scritto da Cristina Giudici e pubblicato da Sensibili alle foglie - 1996


Notte a São Paulo. Sopra ponti infiniti che si ripetono ossessivamente, sotto corridoi senza luce e cave senza fondo. I cavalcavia si alzano e si abbassano, si inarcano in un giro di tortuosi sotterranei ed escono alla luce correndo e mangiando asfalto, polvere, velocità.

Mi infilo nelle cave dove vivono i cittadini dell’oblio, scendo sotto il primo ponte, seguendo scalinate che si intersecano ad altre scalinate; torno un po’ su e poi scendo di nuovo, sotto un altro ponte, ma non risalgo mai. Scalo pareti lisce, cammino senza arrivare, mi aggrappo per non ricadere indietro, scivolando sui tetti di questo cielo nero dove sfrecciano aggressive le automobili e si accendono milioni di luci.

Sotto l’ultimo ponte si è riunito il popolo della strada, chiuso fra le grate che trattengono il fetore di un’umanità rovesciata.
Immagini surreali e deformi si sovrappongono senza fare distinzione fra il sogno e l’incubo. Sulle cassette della frutta siedono donne grasse e uomini dal torso nudo, sbucciando patate. Alcuni portano una fascia che soffoca le tempie; mentre maschere di rughe coprono i loro visi e li rendono insopportabilmente intensi. Gli occhi sono orecchie per tutti e i dialoghi accompagnano sguardi che parlano. Il rumore è assordante.

Il tempo scorre al contrario, non si va da nessuna parte. Cerco di trattenere questo momento di inaspettata intimità. Le parole si accavallano ed è difficile comprendere il linguaggio intessuto su una quotidianità vissuta nelle ombre di questi sotterranei dove suoni gutturali e cenni di intesa si incrociano per tenersi stretti alla propria sopravvivenza. Le parole vengono gettate alla rinfusa, come non ci fosse più tempo per parlare.

Rivedo Cristo, faccia da irlandese, che parla chiedendomi scusa con gli occhi, ringraziandomi prima di parlare a bassa voce. Mi spiega che la sua foto è arrivata in Germania, ha sei nomi e mi chiede di ricordarli tutti. Cristo ha costruito una croce che fa male agli occhi e ai fianchi per ricordare tutti i martiri della strada. Ha un volto bellissimo e imbronciato, sarebbe da scolpire per la luce degli occhi che bruciano e la barba che brilla. Mi tiene la mano e infonde calore; sembra pensare a qualcosa d’altro che non dice mai. Gli chiedo scusa perché non lo posso capire.

Mi lascio trasportare dal ritmo del tempo della città rovesciata che rimanda le propria immagine deforme. Vorrei toccare le loro rughe per sentire i racconti dei loro anni e strappare la pelle di volti che paiono maschere. La zuppa del mercoledì cucinata, con gli avanzi dei mercati della città e che la comunità Glisserio raccoglie per i sofridores da rua, cuoce lenta.

Cerco posto su una cassetta, cercando l’ombra di Júlio che ha costruito momento dopo momento la loro resistenza e l’ha riassunta in una provocazione semantica: sofridores de rua, i sofferenti della strada. I loro corpi parlano della strada, il riflesso istantaneo del loro presente immediato, vissuto senza ansia né fretta. A differenza dei bambini di strada, i sofridores da rua vivono senza fuggire e passano la vita a pensare solo al momento che toccano e vedono passare davanti a loro. Cercano di proteggersi acquattandosi negli angoli bui e trovando coperte per la notte, cibo quando hanno fame, alcool quando hanno freddo. Vivono con la lentezza di chi non spera nel cambiamento né cerca la morte, ma la aspetta in ogni momento.

Si trovano qui a causa di un istante oltre il quale non è più stato possibile tornare indietro perché la strada ha le sue leggi immutabili ed è la somma degli istanti di troppo in cui hanno esitato. Dopo di essi hanno perso ogni contatto con la realtà e hanno perso la via del ritorno, le loro case miserabili sono state distrutte dalle fiamme o rase al suolo da un colpo di vento, i volti conosciuti sono emigrati verso luoghi identici, seguendo i destini della precarietà.

Si muovono goffamente mentre si lanciano sulla zuppa e la notte avanza. I loro corpi narrano la storia di cui hanno avuto bisogno per entrare nella strada. E dicono di aver bisogno di un pretesto, forse un’altra storia, per uscirne. Notte a São Paulo intorno al banchetto del mercoledì. I sofridores da rua si stringono sulle cassette ridendo, guardandosi, imparando a non disprezzarsi, a resistere all’oblio del tempo che li divora; a non vomitare sugli altri la propria impotenza, a non aver paura della propria e dell’altrui follia. Ecco un’altra vittoria di Júlio che non potrà mai essere vantata né elencata. Dopo un po’ si fa l’abitudine al fetore, al buio, alle facce così diverse, alle espressioni così remote.

La zuppa viene mangiata con avidità. Intorno al fuoco tanti occhi e mani che si incontrano. Fa freddo.

Fuori dalle grate, a pochi passi dal fuoco rassicurante, Xiomara muove il suo corpo stanco per imballare le ultime cose nelle scatole di cartone. Si prepara a lasciare la sua baracca di legno incastrata sotto il ponte. Qualcuno le ha venduto un pezzo di cielo di nero per costruire la sua baracca sotto l’ultimo ponte del quartiere orientale, Liberdade. La pattuglia della polizia passa ogni notte per intimidirla perché ha denunciato le percosse subite dal figlio. Lui ha costruito una baracca un po’ più là, per poter rubare e rivendere gli oggetti del quartiere sorto sotto il cielo nero. Su una sedia rimediata, siede la nuora, 15 anni e una gravidanza evidente. Un’amichetta le pettina i capelli appena lavati, sui polsi le cicatrici di una tentata ribellione al giovane compagno che non rinuncia alla vita da guerriero, continua a rubare, ad essere torturato e ricattato dalla polizia. I suoi occhi hanno lo stesso umore del cielo che sovrasta le nostre teste.

Al di là delle grate un sofridor da rua prende una scopa per farle emettere un suono di chitarra; tutti siedono intorno al proprio banchetto del mercoledì. Sono circa 500 i barboni che, nonostante si siano abituati ad essere generati e inghiottiti dall’istante, ogni settimana si attaccano a un filo della propria memoria per risalire il sentiero e arrivare qui, per rivedere volti diventati quasi familiari, scandire il tempo che non li ha mai riconosciuti, imbandire una tavola accogliente sulle cassette della frutta rovesciata e consumare lentamente la propria partecipazione all’esistenza. Facendo del loro disordine un atto sacro.

Calpesto i tetti che pochi istanti prima erano il mio cielo e che ora sono di nuovo il suolo su cui cammino. Sbatto forte i piedi per rendermi conto che sotto c’è davvero un mondo nel mondo, una città nella città, un popolo nel popolo. Sopra il quartiere orientale, con un milione di giapponesi emigrati in Brasile agli inizi del secolo: lanterne cinesi, sguardi gentili, sagome sottili che ondeggiano con eleganza, vicoli allegri e accoglienti. Vorrei lasciare un traccia, un segno che ricordi cosa c’è laggiù, oltre quei ponti, incastrati e sovrapposti.

Notte a São Paulo, megalopoli megalomane che fiuta la grandezza anche nella disperazione. Città che non dorme mai a costo di passare e ripassare sopra i propri cadaveri, rigirare il dito nelle piaghe e urlare per il dolore. Partono gli ultimi treni per la periferia. Aggrappati sui tetti, si nascondono i ragazzini che aspettano la partenza dei treni. È l’ora del coprifuoco.

La morte dentro la città

L’autobus procede lentamente fra i fumi della combustione abusiva e le file di veicoli di ogni dimensione, età ed epoca. Assuefatto all’infernale rumore del motore ed indifferente alla bruttezza del proprio corpo sgangherato, avanza nella pianura sterminata del traffico paulista. Ogni tanto si apre un varco e, singhiozzando, si getta in avanti per prendere posto.

Sto per raggiungere Vila Formosa, uno dei più grandi cimiteri di São Paulo, dove verrà sepolta la madre di padre Tarcisio, ma la grande strada su cui si impantana il tempo non porta da nessuna parte. I minuti si bloccano sempre da qualche parte. Il tempo della città mi è ancora una volta contro.

Corro verso questo ultimo commiato per unire le mie mani a quelle che raggiungeranno le forti spalle di Tarcisio, prete di strada e collaboratore di padre Júlio, nella speranza di aiutarlo a trattenersi davanti alla fossa scavata in poche ore e a sollevarsi dal buco nero che si sta formando dentro di lui. Vado incontro a quell’attimo in cui le parole perdono il senso abituale e i gesti si fissano per sempre, in una città in cui il numero delle nascite e quello delle morti quotidiane è un fenomeno insondabile, dentro un cimitero che raccoglie già tre milioni di anime.

Attraverso una città abitata dai cadaveri. Non ci sono tombe né cappelle, loculi né urne ad ospitare i corpi, ma solo tanti, interminabili cumuli di terra rossa. La stessa terra che disegna le strade e gli incroci di questa città spettrale e riempie i cunicoli da cui provengono i corpi. La stessa polvere che avvolge migliaia di cadaveri gettati alla rinfusa. Alcuni di essi hanno una croce azzurra, di legno; altri sono già stati appianati e privati di ogni ricordo che faccia bene ai vivi. Cammino veloce, attenta a non calpestare qualche bara non riconoscibile.

Mi chiedo quale di queste fosse che si ripetono all’infinito ospiti il corpo di Daniel, centrato da una pallottola e poi circondato dai suoi carnefici. Mentre le spesse divise militari si stringevano intorno alla fossa, Júlio si faceva varco per spezzare il circolo; stivali pesanti pestavano la terra rossa e Júlio scavava per cercare profondità e silenzio da regalare al piccolo Daniel, tentando di dargli un funerale dignitoso.

Dopo una lunga manciata di minuti silenziosi passati su queste strade cresciute intorno al numero dei corpi che giorno dopo giorno aumenta, avvisto il gruppo. Una fossa aperta sta aspettando di inghiottire il corpo della mamma di Tarcisio. Le sue mani si intrecciano a quelle degli amici, dei parenti e dei compagni che non lo perdono di vista. Mi lancia uno sguardo di ringraziamento per aver recato in dono il mio commiato. I presenti si spostano per lasciare spazio al suo dolore e all’odio contro questa terra nemica che, contro le ore consumate per attraversare una città che non vuole mai concludersi, ci metterà solo un attimo ad ingoiare, senza pietà o clemenza, il corpo amato.

Per Tarcisio c’è ancora solo un attimo per pensare al corpo intirizzito e sperare in un movimento che possa interrompere quell’istante capace di portarsi via gli anni, insieme al peso del ricordo e alla colpa di non esserci stato. Un attimo ed è già tutto finito: Tarcisio inizia ad ascoltare il buco nero che inizia ad allargarsi dentro di lui. La polvere è diventata terra, la terra è diventata polvere e non c’è più niente da fare. Il gruppo s’incammina, cercando di aggirare la violenza di quell’attimo. I corpi degli amici cercano di offrire conforto a quello, dolorante, che cerca la via del ritorno.

Il vento inizia a sollevare la polvere dal cumulo di terra rosso all’incrocio di una strada uguale a centinaia di altre che formano il grande paese di uomini e donne, morti miseramente a Vila Formosa.

Viaggio nella favela

Canali stretti e tortuosi riempiti dalla spazzatura. Fango che accerchia misere costruzioni di pietra. Cani randagi che ladrano odio. Pezzi di travi traballanti sul vuoto. Dune di terra su cui si avvinghiano, in un abbraccio soffocante, catapecchie di legno arrampicate sulle cime per sfuggire all’ultimo giorno che sta per arrivare. Sentieri che si stagliano dalle dune e si infilano a strapiombo in avvallamenti riempiti da cose, uomini e animali. Polvere rossa di un deserto che non riesce a narrarsi.
Con Júlio calpesto la terra che lo ha visto diventare padre.

Le sorelle che oggi ci accolgono nella comunità della Esperança hanno continuato il lavoro inaugurato da Júlio dieci anni fa. Una signora grassa e sdentata lo riconosce. Si odono risa squillanti. Le sue braccia si allargano e si richiudono per lo stupore e per lo spavento. Su di lei cascano i ricordi più belli. Padre Lancellotti sembra essere il pezzo migliore dei suoi giorni vissuti.

Júlio elenca tutti i nomi dei suoi figli. Molti mancano all’appello, alcuni sono già morti, altri sono stati ammazzati, pochi quelli che sono andati via. Appare uno di loro, sopravvissuto ai lunghi giorni dell’agonia. Ha il corpo giovane, il volto affranto e un neonato in braccio. Sul viso le ombre del mal di vivere, la pelle sfregata dalla polvere, la gola secca per la mancanza d’aria.

Nella favela Jardim Siñha, Júlio ha studiato da prete, aiutato dalla comunità, che per il giorno della sua ordinazione si mise a vendere ferri vecchi per comprargli le vesti. Qui, sulla terra calpestata dal narcotraffico, ha conosciuto i primi corpi che avrebbe annunciato e denunciato per tutta la vita, e ha celebrato le prime messe.

Una vecchietta si materializza su un mucchio di ossa sottili; la pelle tirata e grinzosa. Si avvicina lentamente e si allontana rapidamente. Se avessi mai potuto immaginare la morte che giunge, l’avrei vista come lei: il ritratto della disperazione assoluta, della tragedia che non finisce mai di consumarsi. Dietro le braccia trascina una borsa lacera appoggiata su due rotelle che si incastrano nelle crepe del suolo. Sul fondo ci sono diversi tipi di verdure dall’aspetto rancido. Sono gli avanzi dei mercati che è riuscita ad elemosinare.

Quando Júlio venne qui la popolazione non capì le sue ragioni, non intese perché doveva addentrarsi in questa terra bruciata dove nessuno accettava di entrare, la polizia arrivava solo per colpire e non c’erano ospedali né scuole. Diffidava della sua attenzione verso quei corpi che, quando cadevano al suolo, venivano lasciati marcire sul selciato aspettando che la polizia tornasse a recuperare il bottino. Schivava il suo sguardo e continuava a vivere nascondendosi, aspettando e sparando su falsi nemici.

Gli abitanti si erano abituati a trattenere il respiro nella speranza che più fossero a cadere più presto sarebbero stati recisi i ceppi della violenza, anche se fra quei corpi c’erano i loro figli. Non volevano seguire gli strani passi di un giovane prete che si faceva guidare dai bambini incontrati nella strada e che si mise a costruire una comunità seguendo le loro indicazioni.

Le sorelle sono rimaste qui e, nel serbatoio di voti per politici eletti in nome della persecuzione, hanno costruito un laboratorio pedagogico, lasciando che i piccoli costruissero una comunità a loro misura e scoprendo che così facendo agivano anche agli adulti. Oggi sono i piccoli che aprono le porte per dare respiro ai grandi. Dentro la freschezza delle mura della chiesa Júlio soffia sui ricordi: Oswaldo, di cui cercò invano di proteggere la vita; le messe celebrate per bambini chiassosi e scalzi; il rifugio offerto a chi scappava alla morte. Percorriamo le scorciatoie usate per scappare dalla polizia: cancelli di legno che danno su baracche che si incastrano dentro altre catapecchie; staccionate che diventano porte; spazi che sembrano costruiti più per nascondersi e perdersi che per viverci.

La polvere rossa si incolla ovunque. Le parole di Júlio rinfrescano l’aria mentre ricorda la visita del Cardinale Carlo Maria Martini, confuso da frotte di bambini scalzi che lo insidiavano e lo corteggiavano, e che si portava via un ricordo che forse il tempo non avrebbe scalfito.

Un’altra famiglia si ricorda di Júlio. Esce lentamente dalla luce che ha coperto tutti i suoi giorni uguali. Le parole fanno fatica a svincolarsi dall’attesa, ma poi, grazie alla forza del ricordo, giungono a ricongiungersi con esclamazioni di gioia.

Le sorelle ci hanno impiegato anni per riuscire a spezzare il silenzio e a intrufolarsi nei corridoi mezzo chiusi e mezzo aperti della paura e dell’omertà. Un lavoro di cui forse non vedono i risultati se non negli istanti di sollievo che si intercalano alle notti di terrore. Ormai hanno imparato a riconoscere lo scalpiccio delle notti che preannunciano gli scontri a fuoco per il controllo del traffico e del territorio.

Dall’ultimo piano della comunità si respira bene, decine di bambini si stringono in un’unica fila unendo al caos la curiosità e l’impertinenza. Dall’alto si intravede il campo spoglio su quale sono stati tracciati dei deboli segni per inventare il gioco. Immagino le parole di Júlio che descrive gli elicotteri della polizia sorvolare la favela quasi ad altezza d’uomo, con i fucili puntati sulla popolazione e pronta a sparare. Dentro la comunità il vento soffia forte; fuori, il silenzio della disperazione non emette un suono.

Torniamo indietro, i sentieri formano crocicchi che hanno nomi pesanti: via Genova, via Parigi, via Londra. Le sorelle aggirano i ricordi che fanno più male e si limitano a ricordare le feste vegliate dai trafficanti e Júlio ricorda che qui, dove ha imparato a decifrare la teologia del corpo, anche alle ultime elezioni ha vinto il Partito dei Lavoratori.

Padre Lancellotti ricorda la sua prima messa, un funerale di cinque piccoli corpi ricoperti da giornali a cui nessuno osava avvicinarsi. Mi bruciano gli occhi, forse è per la terra rossa che sfrega la pelle e si appiccica ai pensieri.

La danza di Praça da Sé

Forti correnti sbattono in tutte le direzioni. Alcune serrande si rompono contro l’asfalto. La musica che viene dall’est si scontra con quella che soffia dall’ovest, mentre predicatori annunciano l’apocalisse a ritmo di samba e venditori ambulanti alzano il volume delle loro ultime note. L’aria è densa. I fili sfuggiti al vortice del giorno si ricompattano ai piedi della scalinata della cattedrale: è l’ora del crepuscolo e il sipario si apre su Praça da Sé, nel cuore della città infinita. “Io sto nella strada, non nella casa. Nella casa c’è Aladino, nella strada ci sono solo io. Io sto a Praça da Sé, davanti alla cattedrale, nella strada. Firmato Alex”.

Codici della strada, segnali della sua magia che aspira il vuoto della disperazione. Strada dalla quale si può solo uscire; mondo che nessuno può vedere né conoscere se non quando c’è già dentro, fino al collo. Casa di specchi in cui si riflettono centinaia di corpi agili e ribelli e di occhi che non sanno piangere.

La strada è il crepuscolo che muove le tenebre. È il ragazzo cieco, il più grande del gruppo che si fa guidare dai rumori che filtrano fra la sua panchina dove vende crack e la fontana dove si lava, orina e sente arrivare i passi della polizia. È la piazza che si riempie di scosse elettriche, si narra nella confusione di milioni di corpi che si attraversano senza lasciare traccia. È il branco che fiuta la sopravvivenza, si difende come può e si distingue per il braccio piegato dentro le maglie stracciate per sniffare smalto, colla che indurisce, toglie la fame e il freddo, la necessità di pensare, l’esigenza dei ricordi.

Parole incomprensibili si accavallano per conoscermi e invitarmi alla danza della strada. Un piccolo fagottino che appartiene alla seconda generazione della strada dorme su un materasso. Wellington, piccolissimo, si aggrappa alle ginocchia di cui sa di potersi fidare. Rafael salta a torso a nudo, accoccolando le narici sul suo sacchetto di aria che lo stordisce; gli occhi sono più grandi del corpo, trafitto dalle cicatrici.

I corpi sporchi dei meninos da rua si abbracciano per stringere insieme il crepuscolo. Si tuffano nelle confessioni e nelle piccole novità: i poliziotti che cambiano, i bambini che spariscono, i furti di cui non si parla, gli inseguimenti di cui non si dice, le famiglie di cui si nega l’esistenza. Mani mi toccano per conoscermi e sapere se possono parlare. Io che vorrei subito stare dalla loro parte, faccio foto, cercando di controllare l’attimo. Ringrazio la macchina che si blocca e viene incontro al mio desiderio di squarciare la linea che ci divide, e di strappare l’immagine che risulterà sempre mossa.

Appostati ai piedi del crepuscolo, gli educatori di strada, volontari sospesi nel limbo di una vita a cui non appartengono, aspettano che il giorno vada via per mescolarsi alle correnti che preannunciano la notte.

Jonathan si muove delicatamente per non spaventare nessuno con la propria presenza. Gli occhi sempre vigili. Annota ogni dettaglio, intuisce ogni incrinatura e decifra ogni segnale. Si muove sapendo di essere un attore, ma svolge il suo ruolo con passione e convinzione. Scende ogni giorno con uno zaino pieno di medicine e si avvicina con cautela alla linea finale per rimarginare ferite, osservare i sintomi, curare le infezioni e spalmare sollievo.

Sul suo quaderno si snodano fitti gli appunti della sua memoria, e fra le righe scritte rapidamente appaiono tutte le informazioni. Giorno per giorno vengono segnati i nomi dei bambini di strada, indicati i volti nuovi, elencate tutte le ferite che ha cercato di curare e i sintomi che segnano la sua preoccupazione. Il suo amore verso questi bambini che non sanno piangere è celato in queste pazienti cronache: vi appaiono le targhe delle macchine dei giustizieri dei ragazzi di strada, i bar dove si cambiano i vestiti dopo aver fiutato il branco, il bar dove i bambini si cambiano le magliette dopo aver chiuso in un cerchio un turista, una donna o un pensionato; il gabbiotto della polizia dove i ragazzini vengono storpiati e dissolti nel nulla. Il tutto annotato con la dedizione di un agente segreto che sente di essere un prezioso testimone di una guerra difficile da riconoscere e da spiegare.

Convivere è il motto sotto cui è nata la pedagogia degli educatori di strada inaugurata da Júlio e che oggi, nei loro gesti, si traduce nelle parole scambiate ogni sera.

Jonathan appunta: “Oggi ho visto Tatiana, è tornata sulla strada; abbiamo conversato molto, dice di essere stanca e di voler una stanza tutta per sé. Qualcuno mi ha detto che Jefferson ha pugnalato degli uomini che lo picchiano, ma nessuno mi ha detto dove si è cacciato”.

Parole della strada, misteri incastrati fra corpi che compaiono e scompaiono, segreti raccontati a chi riesce ad oltrepassare la cortina e a conoscere un mondo che non c’è. Le parole dei meninos contengono i segreti che rappresentano l’arma della propria sopravvivenza, fino al momento in cui si gonfiano di troppe informazioni e devono essere spezzate. Sono le parole di cui i meninos hanno intuito l’importanza e il significato e che per gli educatori sono la chiave per continuare ad entrare ed uscire dalla cortina invisibile che separa il mondo dalla strada.

Quando gli educatori di strada si lasciano alle spalle il mondo, si spogliano di tutti i diritti e i privilegi di normali cittadini, diventano foglie sbattute dalle correnti e condividono il destino dei meninos. Subiscono le perquisizioni da parte della polizia e le accuse di spaccio di stupefacenti; vengono pedinati, perseguitati e denunciati. Si abituano ad essere sotto i riflettori del controllo e imparano a guardarsi alle spalle per non perdere di vista la notte che può sopraggiungere in ogni momento. E le parole che raccolgono grazie all’amore scambiato nella piazza li trasformano ogni sera in vittime privilegiate di una guerra invisibile.

Dietro la cortina di un giorno qualsiasi in cui, dopo un reportage televisivo sulla connivenza della polizia con il traffico di droga, è tornata la repressione, Jonathan appunta:
Uno dei ragazzini è stato portato al gabbiotto della polizia; un aspirante poliziotto ha ricavato un bastone da una cassetta della frutta e ha iniziato a picchiarglielo sulla testa. Ci siamo avvicinati, ma non è servito a niente, il ragazzino è stato portato via e le nostre ricerche sono state vane; nessun commissariato sa dove sia finito. È stato tirato per i capelli giù dal palco di Praça da Sé”.

Fuori dalla cortina la guerra non si vede, ma si respira aria che corre veloce. Bambini si aggirano per la piazza, soli o in gruppi, scalzi e con le magliette stracciate. Chiedono soldi e accerchiano i turisti per riempirli dei loro occhi grandi e scuri. Ragazzini sniffano dal proprio sacchetto, appaiono e poi scompaiono, vanno in cerca del giorno che li difende per trovare un luogo su cui riposare. Si buttano sui cigli dei marciapiedi, avvolti nelle loro magliette e trasformati in fagotti, mentre aspettano il crepuscolo.

Jonas è l’educatore più anziano del gruppo. Stasera mi racconta la storia di questa guerra mentre essa si svolge sotto i nostri occhi. I poliziotti si avvicinano e i loro sguardi scorrono su di noi, il tempo rallenta e la tensione cresce: è il segnale abituale per annunciare la notte che sta per arrivare. Jonas ricorda quando venne qui a Praça da Sé come educatore di strada, era il 1992 e il Quadrilatero era appena stato consumato dalle fiamme, 40 meninos erano sfuggiti allo stato di assedio e la polizia aveva aperto la caccia all’uomo mentre la stampa allertava la popolazione contro il pericolo seminato nella città. Un contingente della polizia militare venne direttamente a Praça da Sé e la circondò. Sul palco della società paulista doveva andare in scena l’atto della punizione, a qualsiasi costo. Gli educatori decisero di lasciare il crepuscolo ed addentrarsi nella notte; dormirono sugli scalini della cattedrale, avvolti nella loro paura, per difendere la vita dei fuggiaschi che si erano mescolati agli altri.

I poliziotti continuano a tenere il tempo di stasera nelle loro mani. Dei ragazzi e dei bambini sanno tutto, i molti nomi, le molte magliette, i processi pendenti, gli anni nella Febem, le impronte digitali; degli educatori sanno solo che sono la causa della finta tregua nella piazza e che sono colpevoli di aver dato dignità alla storia dei meninos senza volto che la miseria ha condotto fino a qui.

Jonas ricorda i giorni terribili che segnarono la sua impotenza; quando la polizia militare decise di soddisfare gli appetiti di chi era rimasto a stomaco vuoto durante nella repressione della rivolta della Febem e venne la guerra. Gli educatori persero il controllo, furono obbligati a diventare dei guerrieri e ad abbandonare il lavoro di reinserimento per difendere ogni passo dei meninos, assicurare la loro integrità, verificare la legalità di ogni arresto e il rispetto da parte delle forze dell’ordine dello Statuto degli adolescenti.

Montarono la guardia davanti ad ogni ricovero della Pastorale dei minori e sotto ogni viadotto per impedire i sequestri. In quell’occasione Jonathan appuntava: “Quando un evento esterno si inserisce nella dinamica della Praça da Sé, l’equilibrio si rompe e il palco cede”.

Durante quei mesi di persecuzione, i cittadini del crepuscolo si affannarono ad inseguire le tracce di tutti i bambini e ragazzi di strada che venivano tirati giù dal palco, cercarono le tracce dei volti di cui avevano appuntato le esclamazioni e i soprusi ; ma fuori dalla cortina che avvolge il mondo della strada, la guerra non esisteva ed era impossibile ritrovarli. Si mescolavano ad altri meninos reclusi negli istituti della Febem e sparivano nel nulla.

I poliziotti fanno scorrere i minuti sui nostri vestiti e Jonas ha un fremito: ricorda quando ha conosciuto la paura. Una mattina del Natale del 1993, la rappresaglia tornò in scena. Dal calcio di un revolver sbattuto contro la testa di una menina partì un colpo e la guerra venne dichiarata. Gli abitanti di Praça da Sé riassunsero in un attimo l’ira dei giorni pari, passati ad essere picchiati, e dei giorni dispari, passati a temere quelli pari. Raccolsero il terrore, le pietre, i pezzi di vetro e le lanciarono contro i poliziotti.

Jonas e Jonathan cercarono di ritirare i ragazzini e chiesero al tenente di fare altrettanto, ma nel giro di pochi minuti la piazza venne circondata e i protagonisti di quell’insolita ribellione furono portati via. Jonas riuscì solo a sentire tre uomini che li insultavano e a percepire che le urla venivano dalla parte della polizia. Poi un dolore improvviso e la testa iniziò a bruciare.

Perse di vista Jonathan, mentre i colpi diventavano più insistenti e schegge di dolore si impossessavano di tutto il corpo. Tentò di fare qualche passo per sottrarsi ai colpi che non riusciva a parare e cadde al suolo. Si risvegliò in ospedale con il 40% dell’udito perso irreparabilmente e con accanto Jonathan, che aveva subito un trauma cranico.

I movimenti della polizia si sono appena compiuti. Su Jonas stasera cade tutto il loro astio nei confronti della legalità. Gli ricordano che ogni giorno può essere quello buono. Il loro rito di entrata nella piazza si è concluso. È arrivata la notte.

Wellington mi ha scelto. Stasera vuole giocare con le illusioni e mi chiede di portarlo via; è piccolissimo, ma è un attore consapevole. Giochiamo, giriamo e danziamo con la libertà della strada. La strada ora è diventata notte e ha scelto il silenzio. Gli ultimi venditori di note scordate hanno richiuso la musica in un fagotto e se la sono portata via, inghiottiti dai treni sotterranei. Rumore di cartone che viene trascinato, carretti che avanzano per raccogliere la carta straccia; facciamo capannello intorno a Veronica sdraiata su un pezzo di cartone davanti a una serranda chiusa di Rua São Bento. Le trecce lunghe raccolgono i capelli grigi, il viso sereno e la pelle non toccata dagli anni. È paraplegica e ha passato la sua vita su un pezzo di cartone mentre due figli le fanno la guardia. Al nostro arrivo il più grande corre e salta come un puledro, sa che è giunta l’ora della zuppa.

Gilma ha lo sguardo di un topino curioso e non si stanca mai di guardare il mondo. Fra lei, educatrice volontaria, e i bambini di strada non sembra esserci molta differenza: stessi occhi, stessi segni sulla pelle, stesso ardore, stessa magia, stesso gergo. Non sembra guardare al futuro, affronta la disperazione a braccia aperte come se fosse sempre l’ultima. Quando ricorda la polizia che caricava i ragazzini sulle camionette per indurli a confessare qualsiasi cosa ed incastrare gli educatori, esplode in risa. Questo è il suo mondo, quando esce dalla strada il suo giovane volto si riempie di tristezza. Stare nel limbo di un mondo che non c’è, e di cui ha capito tutto, e un mondo che c’è, e di cui non ha ancora capito nulla, le fa male. Anche lei ha avuto un menino del cuore a cui ha offerto la propria casa per non lasciar passare l’attimo, il momento magico in cui generalmente sono gli stessi bambini di strada a chiedere aiuto per aggrapparsi a un filo che li riporti al futuro e li faccia uscire dal presente.

Era un ragazzino paraplegico, colpito dalla pallottola di un camionista armato e impaurito dalla paura. Furono mesi di amicizia e di allegria, poi, come la maggior parte delle volte accade, più niente. Ora è stato arrestato ed è rinchiuso nella Febem. Il suo momento magico è passato e il filo si è spezzato.

Giungiamo nella piazza in cui sfocia la via coperta dalla notte. Il sergente Alvaro agita le carte del suo progetto e cerca di darmi una spiegazione della follia verso cui nutre forti sensi di colpa. È un poliziotto che oscilla fra la repressione e il paternalismo, ma non eccede mai. Nella piazzetta veglia sui più piccoli e punisce i più grandi. È del colore della pece e vive in una favela. Alvaro sa che avrebbe potuto essere mille volte bambino di strada, adolescente di strada o sofridor da rua. Sa che solo una virgola del destino lo ha allontanato dai quei corpi stanchi che bivaccano sulla montagna di carta accumulata nella piazza e cerca di dare un senso alla pazzia che si dà da fare ogni notte sotto i suoi occhi.

Agita con le mani le carte di un progetto per aiutare i bambini di strada, ma non c’è un nesso logico fra questi corpi che si spingono in avanti per fare boccacce e continuare a danzare, i vecchi della strada che fanno la fila per prendere la zuppa e quelli troppi stanchi per muoversi, che riposano sulle montagne di cartone raccolto e guardano gli occhi voraci dei bambini di strada consumare lo spazio da cui per loro non è stato possibile uscire, e nel quale non è stato neanche possibile morire.

Un po’ più in là un nuovo sussurro di dolcezza tappa l’ultima ferita della notte, è Jonathan che impazzisce al pensiero di quanti medicamenti non ha potuto fare.

Dall’altra parte della piazza sta iniziando una danza, risuona il ritmo di un tamburo ricavato da un secchio di plastica, alcune voci iniziano a cantare la saudade, mentre corpi scivolano sulla pista della notte. Fuori dalla strada il buio e silenzio, dentro luce, confusione ed eccitazione. Le tenebre si fermano per aspettare la zuppa.

Jonathan ha appuntato la targa di una macchina che continua a girare intorno alla piazza: “Facce da giustizieri, andatura da militari, soldati fuori servizio o guardie private”. E ha ricordato:
“I poliziotti hanno cercato di avere un rapporto sessuale da una menina e da Billy Jean. Gli educatori hanno girato intorno al gabbiotto per evitare che avvenisse”.

Le meninas sono carne da macello ancor prima di finire sulla strada, ma qui, se non vengono utilizzate dalla polizia o non scelgono di sopravvivere prostituendosi, vengono protette perché i codici della strada non ripropongono la stessa violenza che le ha costrette oltre la cortina. I più grandi vegliano sui più piccoli, i maschi sulle femmine.

Billy Jean si vanta di avere avuto molti ragazzi nella Febem, ha i capelli ossigenati e due occhi trasparenti. Considera l’omosessualità l’unica scelta della sua vita. Quando intravede Tagmar, sono urla di piacere che vanno in tutte le direzioni.

Tagmar è una monaca-educatrice di strada. Non sa spiegare né disincastrare le emozioni e le convinzioni che l’hanno portata qui, a rollare la corda per far saltare i ragazzini della piazza, mentre le ragazzine la stuzzicano e le chiedono di parlare della sua verginità. Parla attraverso la corda con Billy Jean. Il filo dei loro pensieri si libra sulla confusione della notte che morde per non mollare. Salta vestita di bianco e il suo velo finisce nella mani di un ragazzo che glielo strappa per gioco.

Jonathan ha fatto un altro medicamento ed appunta: “Mi sono ferito e riempito del sangue di W., spero che non sia sieropositivo”.

Rua São João è una fonte di vibrazioni. Sui suoi fianchi sfrecciano le linee di due viadotti che sembrano sfiorare il cielo. Nel mezzo una vallata di pietra, in cui si incrociano le correnti di tutti i tipi, mi circonda di spazio infinito. È una serata di festa, musica e concerti. I meninos hanno venduto e consumato più droga. Sulle gradinate si accascia un ubriaco: è il momento della rivincita.

Rafael si accanisce, lo prende per i piedi e lo trascina giù dalle scalinate, la sua testa sbatte contro ogni gradino senza far rumore e si inonda di sangue. A Rafael si aggiungono altri ragazzini per sfogare la sorda rabbia contro il mondo degli adulti che li ha stretti oltre la cortina. Sull’ubriaco cadono le vite spezzate da famiglie violente, i ricatti dei padroni della notte, le fughe dei branchi che si leccano le ferite. Sembra un gioco. Il vecchio, anestetizzato dalla quantità di alcool nel corpo, non si ribella. I bambini ridono divertiti come se si trattasse di un gioco e fra le mani avessero una bambola.

Jonathan guarda e lascia fare, poi si avvicina e disinfetta con pazienza le ferite dell’ubriaco, intervenendo, come sempre, alla fine. Della sua impotenza ha fatto una filosofia e sa che per stare dall’altra parte bisogna imparare a non interferire con i taciti codici della violenza.

La musica è finita, scende la paura. I ragazzini si accalcano e gridano alla notte, cantando rap per non udire, ma il silenzio è alle porte. Da una delle linee nere scende una pattuglia di soldati della polizia militare. Camminano in fila. Vengono a braccare. Io mi nascondo dietro le rassicurazioni appuntate per mesi da Jonathan che sa quando è il momento di scappare.

Le bande scompaiono, tranne Rafael che ha solo 7 anni e stanotte ha voglia di sfidare la paura che sempre lo accompagna. Oltrepassa le linee nemiche per fare sberleffi ai soldati della patria e poi si ritira dietro le gambe di Jonathan. Per Rafael la violenza è una compagna inseparabile. Può essere che arrivi stasera o che giunga più tardi. La conosce, sa sentirla nell’aria. L’ha trovata ovunque è andato e l’ha portata con sé da ogni posto da cui è tornato. Lo risveglia ogni volta che stivali militari scovano la sua faccia addormentata per strada. Lo avvolge mentre divora il proprio spazio nella piazza di fronte al gabbiotto della polizia militare. È contenuta nei gomiti storpiati, nei piedi fetidi, nella velocità del suo sacchettino di smalto, nella danza del crepuscolo. Stasera la violenza è un’estensione del suo corpo che salta su se stesso drogato. Aspettarla può essere peggio che riceverla e riceverla può essere una scorciatoia per smettere di attenderla.

La testa di Rafael finisce fra le grosse mani di un poliziotto che gliela schiaccia, urlando. Jonathan è rimasto solo e appunta:
“Ci guardano, li guardiamo, ma è solo una delle probabilità”.

Sento di avere oltrepassato la cortina senza accorgermene. Guardano a lungo la macchina fotografica, Rafael grida, ma non piange. Un istante e Rafael viene gettato a calci da questa parte, il sacchetto di smalto buttato nel tombino.

Rafael si riprende e poi torna a correre dietro di loro, gridando. Forse è stanco della strada, fiaccato dall’attesa passata a consumare giorni e spazio del presente. Jonathan lo richiama e appunta: “Vuoi che facciano del male anche a noi?”.

Il silenzio si allontana, fra brividi che non smettono di tremare e fischi che non smettono di sibilare. Io Appunto: “Che cosa sento? Un altro momento che aggiungerà confusione allo sconcerto, tornerà nelle mie ore di insonnia e mi terrà gli occhi sbarrati per veder passare sequenze che non so interpretare”.

Le bande ricompaiono. Non c’è nessuno in strada tranne branchi di bambini e adolescenti che fiutano l’aria schiacciata dalla tensione e che improvvisamente viene tagliata da un turbine. È un ragazzino che scappa velocissimo. Dietro di lui c’è solo la notte.

I branchi ci fanno festa. Mani sporche scivolano sulle nostre, in segno di riconoscimento per non aver abbandonato Rafael che si schernisce, si gonfia il petto e urla il suo odio contro la polizia, senza lacrime.

Ognuno di noi si separa per affrontare la notte. I nostri passi cercano la via d’uscita, ma una visione ci riporta indietro: gettata su un materasso c’è una ragazza con due bambini. Sta morendo di Aids e i suoi figli sono malati.

Jonathan aveva già appuntato questa triste storia. Gli avevano procurato una casa, ma il richiamo era troppo forte ed era tornata a vendere droga. Stasera giace davanti a una serranda abbassata, ha la tubercolosi. Appunto immagini apocalittiche di una follia che non riesco a decifrare. Sta morendo eppure non vuole ammetterlo, ha poco meno di 18 anni e la sua voce rantola. Forse vuole aiuto per i suoi bimbi e, forse, accetterà delle cure. Il silenzio si gonfia di dolore incontenibile. Una musica triste e solenne accompagna i nostri ultimi passi.

Mi affretto ad uscire dalla strada, voglio cancellare la disperazione che non so assorbire. Appena fuori mi guarderò indietro e vedrò gli educatori di strada dell’Associazione Vitoria Régia, con la loro amarezza e la loro purezza. Le denuncie finite negli uffici dove ad indagare sulla violenza dei poliziotti militari sono ex poliziotti di strada. I tentativi di trattenere alcuni dei 300 abitanti di Praça da Sé nelle loro case, nella speranza di salvarli. Il sogno di un progetto stabile che dia fiato all’educazione di strada. La strenua difesa dello Statuto degli adolescenti.

Hanno capito la perversione del ciclo che genera esclusione, eppure insistono.










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