Alla conquista del cuore della Terra
Estratto (febbraio, 2003)(*)
Il petrolio: una spiegazione necessaria
ma non sufficiente
Moltissime persone hanno anche incominciato ad intuire che il petrolio
deve c’entrare non poco in questi conflitti. La guerra del Golfo era paradigmatica,
ma anche ai tempi di quella contro la Serbia qualche osservatore controcorrente
e attento si era ricordato di un progetto per fare transitare attraverso
il Kossovo in direzione dell’Europa occidentale gli idrocarburi fossili
provenienti dai terminali sul Mar Nero(2).
Probabilmente era un motivo secondario, però forse non così
tanto, vista poi l’ampiezza della base di Camp Bondsteel, costruita
in Kossovo vicino a oleodotti e corridoi energetici da una affiliata della
compagnia petrolifera "Halliburton Oil" di cui Cheney era Direttore Generale(3).
Poteva essere una coincidenza.
Ma anche l’Afganistan è da anni considerato un territorio di
transito preferenziale (rispetto all’invisa Repubblica Islamica dell’Iran)
per gli idrocarburi fossili estratti dalla zona del Mar Caspio che saranno
diretti verso l’Oceano Indiano. Infatti, un intervento in Afganistan contro
i recalcitranti (e irriconoscenti) Talebani era già nell’agenda
di Clinton, senza bisogno del destro poi "offerto" da Osama bin Laden.
E, similmente, anche l’intervento nel Kossovo era già stato deciso
molto prima del preteso "genocidio"(4).
E ora di nuovo l’Iraq. A freddo. Anche qui, per pura coincidenza, troviamo
il petrolio, esattamente la più grande riserva mondiale dopo l’Arabia
Saudita. Petrolio di ottima qualità, economico da estrarre. E, ancora
per puro caso, l’oro nero si trova anche in quasi tutti i Paesi elencati
nell’agenda antiterrorismo degli Stati Uniti: Iran, Sudan, Indonesia.
Il petrolio è quindi un collante evidente dei conflitti avvenuti
e di quelli a venire.
Ma esiste un’altra coincidenza ancora più interessante: tutti
e tre gli "Stati canaglia" canonici sono in Asia. Inoltre, verosimilmente
i prossimi obiettivi saranno decisi insieme ad Israele e quindi, riflettendo
la strategia geopolitica di questo Paese, che insiste sul Medio Oriente
e sull’Asia Centrale (via Turchia), saranno anch'essi concentrati in quest’area(5).
Troppe coincidenze fanno, ovviamente, un piano lucido. Ma quale piano? Questo piano ha a che fare solo con il petrolio? O è un piano più vasto?
Il "cuore della terra" e il controllo
delle "nuove vie della seta"
Ci sono molti motivi per ritenere che il controllo delle risorse energetiche
costituisca un fattore importante di un calcolo più ampio.
Secondo il mio modo di vedere i martoriati Iraq e Afganistan, i tristemente
noti Kossovo e Bosnia, così come gli sconosciuti, ma anch'essi infelici,
Azerbaijan e Georgia e il furbo Uzbekistan sono tutte tappe di quella che
definisco "la conquista del cuore della Terra", cioè l’attuazione
riveduta e aggiornata della classica "dottrina Brzezinski" di conquista
del centro dell’Eurasia, o meglio ancora, prendendo a prestito il nome
di una legge statunitense varata all’uopo nel 1999, il Silk Road Strategy
Act, sono tappe verso il controllo delle nuove vie della seta,
delle risorse energetiche che vi fanno capo e di quelle del Golfo. Ma per
un fine strategico più complesso.
Le tappe successive potrebbero essere l’Iran, la Siria o anche un’Arabia
Saudita già adesso in pesantissima crisi economica e sociale e ulteriormente
destabilizzata dal probabile dopo Saddam(6).
Più facilmente, con i soldi e non con le armi, ovverosia alla moda
dell’Uzbekistan (già da tempo infeudato a Stati Uniti e Israele),
sono ormai a portata di mano il Kirghizistan e il Tagikistan(7).
Interessante sarà vedere cosa gli Stati Uniti intenderanno fare
con il Kazakistan, il cui petrolio è appetito da tutti e potrebbe
essere essenziale per dare un senso economico ad un oggetto su cui vale
la pena soffermarsi brevemente: la pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan
(BTC) che unirà i pozzi petroliferi di un Azerbaijan ormai praticamente
federato alla Turchia, a un grande terminale petrolifero proprio sulla
costa mediterranea del (bellissimo) paese fondato da Atatürk, passando
attraverso una Georgia che non vede l’ora di sbarazzarsi della presenza
militare russa (che comunque tra qualche anno dovrà sgombrare il
campo grazie ai
Protocolli di Istanbul).
Ma per sperare di fornire alla BTC la quota giornaliera di petrolio
imposta dai calcoli economici bisognerà vincere le indecisioni del
governo di Astana, alternativamente propenso verso la Cina, la Russia,
l’Iran e l’Occidente.
Per quanto riguarda il Turkmenistan, per ora apparentemente c’è
poco da sperare dato che sembra soddisfatto degli accordi che legano i
suoi ricchissimi giacimenti di gas naturale alla rete di gasdotti della
russa Gazprom. E, come ben sanno gli Stati Uniti, le pipeline non
sono solo corridoi energetici, ma anche diplomatici.
Il keynesismo di guerra delle pipelines.
La BTC, fortemente voluta dal dipartimento di Stato statunitense (e
non, si noti bene, da quello dell’energia come sarebbe stato naturale)
è un’opera quasi sconosciuta – e specialmente ai nostri più
gettonati commentatori – ma per ora è il miglior esempio di attuazione
nel nuovo impero formale degli USA di quel "keynesismo di guerra"
di cui tanto si parla. Infatti benché non abbia attualmente una
prospettiva molto profittevole questa pipeline ha, tuttavia, il
nobile compito geostrategico di sottrarre il petrolio del Mar Caspio all’influenza
russa, cinese e iraniana e di cementare la "nuova via della seta" Turchia-Georgia-Azerbaijan,
che in realtà inizia in Israele e termina nel bel mezzo dell’Asia
Centrale a ridosso della Cina.
Un vero e proprio paradigma della strategia statunitense.
Una strategia che ha l’obiettivo conclamato di contrastare, attraverso
il controllo dei principali fattori strategici (posizione geografica e
risorse energetiche), la possibilità che in Eurasia si formi un’aggregazione
di forze che possa mettere in discussione la supremazia statunitense, la
quale, per leggere a ritroso una spudorata ammissione del dottor Kissinger,
è solo un altro modo per definire la cosiddetta "globalizzazione".
Se questa strategia è evidente, se non altro perché dichiarata
senza troppe remore dai responsabili statunitensi, ne sono però
meno evidenti le motivazioni più profonde.
Al di là delle apparenze, della propaganda e delle certezze
anche di sinistra, ritengo che sia più che sensato porsi delle domande,
se non altro a partire dalla constatazione che è alquanto strano
che gli Stati Uniti sentano minacciata la propria supremazia proprio dopo
che l’unica altra superpotenza, l’URSS, è collassata.
I diritti umani come transponder
per bombardieri
La vulgata propagandistica narra di una lotta titanica contro un terrorismo
internazionale senza obiettivi razionali ma motivato da istinti premoderni
se non addirittura primordiali. Una lotta che si complementa con una missione
storica: la difesa e l’ampliamento dei diritti umani, della sicurezza globale
e della democrazia. Queste sono le motivazioni superficiali, ovvero quelle
che si vuole far apparire in superficie, come la punta di un iceberg. Ma
già un solo metro sotto il livello del mare spariscono, perché
lì iniziano quelle più profonde. Come l’Afganistan insegna,
diritti umani, sicurezza e democrazia non sono nemmeno "side effects"
della guerra, che purtroppo sono di tipo ben differente.
Al contrario, l’uso strumentale dei diritti umani equivale esattamente
alla loro cerimonia funebre. Infatti il problema che pone questo scenario
è che quando i diritti umani sono utilizzati come armi politiche
o quando seguono compatibilità strategiche e non sono invece concepiti
come diritti individuali e collettivi universali, indivisibili e inalienabili,
diventano inservibili perché ogni richiamo ad essi rischia di diventare
un transponder per bombardieri.
La motivazione più recepita e variamente elaborata dalla sinistra è invece il petrolio. Come abbiamo visto è sicuramente più pertinente; tuttavia è parziale e questa parzialità rischia di metterne in ombra la pregnanza: perché infatti gli Stati Uniti avrebbero la necessità di acquisire militarmente questo controllo dato che, almeno apparentemente, hanno una forza politica ed economica tale da attrarre e condizionare qualsiasi paese produttore, dall’Arabia Saudita alla Russia? L’utile di breve e medio termine che ne ricaverebbero vale gli altissimi rischi economici, politici e militari che queste aggressioni comportano? La risposta non può consistere nel ribaltare gli assiomi statunitensi e vedere negli USA un "Regno del Male" con l’aggravante di essere guidato da un gruppo dirigente particolarmente ignorante, aggressivo e arrogante (cosa sicuramente vera) che ormai non riesce ad inventarsi nient’altro che la conquista imperialistica diretta delle risorse altrui. E’ chiaramente una spiegazione limitata, a volte frutto di legittima esasperazione, ma non accettabile, per il semplice motivo che in linea di principio anche le spiegazioni che prendono in considerazione fattori irrazionali o mitologici devono comunque inserirli in un quadro analitico razionale.
Il dominio statunitense: parabola di un
ciclo sistemico di accumulazione del capitale
Un quadro analitico razionale che ritengo possa inquadrare con successo
i fenomeni che stiamo osservando, da quelli più materiali a quelli
più ideologici, ci è fornito dall’analisi dei cicli sistemici
di accumulazione del capitale, così come è elaborata dalla
scuola di pensiero detta del "sistema-mondo", raccolta attorno al
"Fernand Braudel Center for the study of Economies, Historical Systems,
and Civilizations", dell’Università di Binghamton, New York
e guidato da Immanuel Wallerstein, Andre Günder Frank e Giovanni Arrighi
e, in posizione più eccentrica e spesso critica, Samir Amin.
In particolare, secondo Giovanni Arrighi ogni ciclo sistemico di accumulazione
è egemonizzato da una singola potenza e presenta una fase iniziale
di espansione materiale basata sulla produzione e sul commercio
cui segue una fase di crisi e decadenza, caratterizzata da un disimpegno
del capitale dalla produzione e dal commercio e da un suo impegno nella
speculazione finanziaria internazionale (si veda G. Arrighi, "Il
lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo". Il
Saggiatore, 1996).
Questa espansione finanziaria è alimentata dalla concorrenza
tra gli Stati per succedere alla potenza egemone in crisi, concorrenza
che richiama il capitale attraverso un’espansione del debito pubblico e
le spese per il riarmo che si ampliano a dismisura durante le fasi di crisi
sistemica.
Seguendo questa analisi arriviamo allora ad uno scenario sorprendente:
gli Stati Uniti fanno quel che fanno non perché sono senza rivali
ma perché la loro supremazia è in crisi. O, per essere più
precisi, perché sono in crisi – e da tempo – i meccanismi di base
di riproduzione di questa supremazia.
Infatti, secondo la valutazione di molti studiosi, anche appartenenti
a scuole di pensiero differenti, gli Stati Uniti stanno vivendo la fase
di declino della loro egemonia nata con la fine della II Guerra Mondiale.
In termini più ampi, la Superpotenza sta percorrendo la fase discendente
di una parabola iniziata alla fine del XIX secolo e che ha raggiunto il
suo apice negli anni tra il 1945 e i primi anni settanta del novecento.
Di questa crisi potrebbero approfittare (anche qui, non per intrinseca
perfidia o per odio antioccidentale, ma per occidentalissimi meccanismi
concorrenziali) alcune potenze di dimensione continentale come gli stessi
Stati Uniti: in primo luogo la Cina, poi la Russia e, in prospettiva, anche
l’India.
Questa partita tutta eurasiatica è però estremamente
aperta e lo strapotere bellico statunitense la sta spostando su un piano
militare. Cosa che è storicamente avvenuta in tutte le precedenti
fasi di crisi sistemica individuate da Giovanni Arrighi.
Decadenza e violenza
La fine di un ciclo egemonico è infatti sempre un periodo di
violenza, così come il suo inizio. Per la precisione l’egemonia
è l’evoluzione di un dominio ottenuto con la forza e, parimenti,
l’esaurirsi di un’egemonia favorisce l’uso della forza per far emergere
un nuovo dominio.
La violenza è dunque un modo iniziale e finale di esercizio
del potere. L’esercizio maturo è ottenuto tramite l’egemonia, ovverosia
facendo condividere gli scopi del potere anche a chi è soggetto
gerarchicamente al potere stesso.
Un’egemonia può basarsi su meccanismi ideologici e/o materiali
e, si può dire, è compiuta quando li comprende entrambi.
Meccanismi ideologici classici sono la fedeltà ad un gruppo
etnico, ad una religione o il riconoscimento di un nemico o di interessi
comuni, e quindi essi stabiliscono i modi in cui il potere è legittimato
e può essere esercitato, anche in termini coercitivi (termini che
sono ereditati dai meccanismi violenti con cui inizia la parabola dominio-egemonia-dominio
e, per dirla con Marx, ricompaiono quando le cose non vanno più
per il loro "corso ordinario"). Sono dinamiche che tendono a raggruppare,
a definire spazialmente l’area di egemonia. In generale diremo che sono
dinamiche che tendono a territorializzare. Dinamiche che vengono
esaltate da eventi come Pearl Harbour o l’11 settembre, o in periodi come
la Guerra Fredda.
Meccanismi materiali sono quelli di carattere economico, il riconoscersi
in un circuito commerciale o produttivo o anche finanziario, come attori
e/o beneficiari. Questi meccanismi non sono necessariamente territorializzanti.
Anzi spesso tendono alla deterritorializzazione, a rompere le frontiere
spaziali. E ciò accade patologicamente quando una giurisdizione
territoriale diventa un limite per l’accumulazione del capitale.
A partire dagli albori del capitalismo nelle città-stato dell’Italia
settentrionale, i due tipi di meccanismi di potere possono considerarsi
– in linea di principio – appannaggio di gruppi separati, risultato
di un lungo processo di differenziazione tra centri di potere politico
territoriale e centri di potere economico, tra Stati e imprese.
E’ a questo punto dell’evoluzione storica che si può parlare di
"Capitale" come distinto dal "Potere" (territorialista).
La logica del Capitale e la logica del
Potere
La divaricazione dei comportamenti di potere e capitale è innanzitutto
spiegata dal fatto che il primo segue una logica di spazi-di-luoghi
mentre il secondo segue una logica di spazi-di-flussi.
La logica degli spazi-di-luoghi è funzionale alla razionalità
del potere che è dettata da fattori come la formazione dello Stato,
coi suoi meccanismi di riproduzione del controllo del territorio dove il
potere è installato, quelli di espansione in ampiezza e le motivazioni
ideologiche e morali che si di solito si intrecciano a questi fattori.
La logica degli spazi-di-flussi è invece dettata da criteri
come il calcolo del rapporto costi-benefici di ogni intrapresa e il controllo
della capacità di acquisto, intesi come strumenti organici all’unico
scopo della logica puramente capitalistica: generare denaro tramite
denaro.
E’ la particolare fusione di queste due logiche che permise l’ascesa
delle città-stato italiane, dando l’avvio ai grandi cicli di accumulazione
del capitale. Una storia che inizia col tentativo da parte dei mercanti
europei di recuperare i mezzi di pagamento che si erano concentrati in
Oriente e specialmente in Cina, aree che fino a metà del 1700 forniranno
la quasi totalità dei prodotti manifatturieri mondiali.
Ma perché il capitale si allea col potere tramite il meccanismo
del debito pubblico? In sintesi questo matrimonio d’interessi è
dovuto in alcune situazioni alla ricerca di protezione territoriale da
parte del capitale apolide e, più in generale, ai calcoli del capitale
rispetto le capacità del potere con cui si sta alleando di permettergli
una successiva espansione materiale. Infatti ad ogni alleanza del capitale
con il potere, stipulata durante la fase di espansione finanziaria, che
è caratterizzata dal disimpegno del capitale dalle
attività di trasformazione della natura, è seguita una fase
di espansione materiale, caratterizzata invece dall’impegno del capitale
nella produzione e nel commercio di merci, a scala ben maggiore di quella
precedente.
A sua volta il potere si allea col capitale per consolidarsi ed espandersi,
ovvero per coprire i "costi di formazione dello Stato" e i "costi di protezione".
Storicamente questa alleanza fa emergere una e una sola potenza capitalistica
mondiale la cui egemonia caratterizza un ciclo sistemico di accumulazione.
Questa potenza capitalistica sarà quella capace di accentrare il
monopolio dei mezzi di pagamento e di "presentare i propri interessi
come interessi generali di tutti gli altri agenti (stati-nazione, cittadini)
o di un importante gruppo di essi" (Arrighi, op. cit.).
E avendo rilevato il potere a spese della potenza egemone declinante
(e degli altri contendenti), questa posizione gli permette, per l’appunto,
di avviare la nuova grande espansione materiale di cui ha bisogno il capitale.
Quando l’espansione materiale incomincia a diventare un limite alla
valorizzazione del capitale allora inizia anche il divorzio tra il capitale
e la potenza egemone in carica.
Questo momento di passaggio è quindi indotto da una crisi generale
di accumulazione "che segna il punto più alto del periodo di
espansione materiale (D -->M) e dà inizio al periodo
di espansione finanziaria (M -->D’)" (ibidem(8)).
Come commenta Arrighi, D è segno di libertà di
azione da parte del capitale: varie scelte di valorizzazione sono possibili.
D
-->M è uno specifico impegno del capitale che però viene
sottoposto alle rigidità incorporate da M. Infine M -->D’
è un disimpegno grazie al quale il capitale riacquista una libertà
d’azione, D’, allargata. E’ con questa dinamica che il capitale
affronta la dialettica limite-condizione delle composizioni di potere
territoriali storicamente date e le trasforma.
Il disimpegno del capitale dalla produzione e commercio di merci inizia
quando l’espansione materiale genera capitali che non possono incrementare
"se non a patto di non essere più reinvestiti nelle
attività che li hanno generati". La ragione di questo fenomeno
risiede nel successo stesso dell’espansione materiale che genera pressioni
concorrenziali di vario tipo (pressione verso l’alto dei salari, concorrenza
per l’approvvigionamento delle materie prime, concorrenza sugli sbocchi
commerciali dei prodotti, eccetera). Queste pressioni abbattono il profitto
sotto quelle soglie che gli agenti capitalistici ritengono "tollerabili".
Si ha allora una crescente fuoriuscita di capitali dall’investimento nelle
attività produttive e commerciali e si genera una massa crescente
di denaro in cerca di occasioni di profitto(9).
La fase di espansione finanziaria, come si è detto, è
resa possibile dalla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile,
concorrenza che è indotta a sua volta dalla loro rivalità
nella successione alla potenza egemone, ancora in carica ma uscente. Questa
successione avviene facendo leva su due punti: a) l’acquisizione diretta
o indiretta delle reti commerciali-industriali del soggetto egemone uscente;
b) la centralizzazione dei mezzi di pagamento internazionali.
L’espansione finanziaria è quindi legata a una fase di caos
sistemico che genererà una nuova egemonia al cui interno saranno
riorganizzati i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale.
L’inizio della fase discendente di un ciclo egemonico è segnalato
da una crisi detta "crisi spia" (s1, s2, …, nel diagramma successivo)
perché in effetti è la "spia" di una più profonda
e fondamentale crisi sistemica, che lo spostamento verso l’alta finanza
(la finanziarizzazione) dissimula e ritarda fino all’avvento della "crisi
terminale" (t1, t2, …, nel diagramma). In realtà, "lo spostamento
può fare molto più di questo: esso può trasformare
per chi lo promuove e lo organizza, la fine dell’espansione materiale in
un "momento meraviglioso" di nuova ricchezza e di nuovo potere, come è
avvenuto, in misura diversa e secondo modalità differenti, in tutti
e quattro i cicli sistemici di accumulazione. Tuttavia, per quanto meraviglioso
possa essere questo momento per coloro che traggono maggiormente vantaggio
dalla fine dell’espansione materiale dell’economia-mondo, esso non è
mai stato l’espressione di una soluzione durevole della crisi sottostante.
l contrario è sempre stato il preludio a un aggravamento della crisi
e alla definitiva sostituzione del regime di accumulazione ancora dominante
con uno nuovo." (ibidem)
Il "momento meraviglioso" in piena crisi sistemica, di cui parla Arrighi,
è stato rappresentato ai giorni nostri dalla nuova belle époque
reaganiana-clintoniana che ha raddoppiato la classica belle époque
a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
L’egemonia USA, ultimo ciclo sistemico
storico
Fatte queste premesse, si possono individuare i seguenti cicli sistemici
(adattamento da Arrighi, op. cit.):
L’ultimo ciclo di espansione materiale inizia con la vittoria degli
Stati Uniti nella Guerra dei Trent’anni per la successione all’egemonia
britannica (1914-1945) e con la I Guerra Fredda che permette a Truman di
vincere le resistenze di un Congresso isolazionista ed estendere su una
zona artificialmente limitata del mondo le idee di
New Deal mondiale
elaborate da Roosevelt (bisogna infatti notare che nei piani di Roosevelt
non era contemplata nessuna suddivisione del mondo e anche l’Unione Sovietica
vi rientrava a pieno diritto).
Per vincere quelle resistenze l’amministrazione Truman invocava un’emergenza
internazionale che il sottosegretario di Stato, Acheson, aveva "previsto"
in Corea, in Vietnam o a Taiwan. Chissà come Acheson "indovinò"
veramente perché, come ebbe a dire, "la Corea arrivò e
ci salvò". Era il 1950. La I Guerra Fredda era ormai ufficialmente
dichiarata. Il mondo veniva diviso in due e il New Deal poteva propagarsi
su un "mondo" in formato ridotto e quindi gestibile: il "Mondo Libero".
Come ci ricorda Gore Vidal, le resistenze e le proteste contro la politica
estera di Truman e la complementare politica interna di sicurezza nazionale,
da parte degli uomini del defunto Roosevelt (come ad esempio l’ex vicepresidente
Henry Wallace) furono emarginate o criminalizzate anche con l’accusa di
"comunismo" (sic!) (si veda Gore Vidal, "Le menzogne dell’impero".
Fazi Editore, 2002)
Fu così che sull’onda del più grande riarmo che il mondo
avesse mai visto in tempo di pace si costituì lo strumento per continuare
a sostenere gli aiuti all’Europa anche dopo la conclusione del Piano Marshall
e impedire che innanzitutto il Vecchio Continente (o almeno la sua parte
"libera") e poi il Giappone si isolassero dagli Stati Uniti.
Gli organismi sovranazionali di governo del mondo, che nella visione
di Roosevelt avrebbero dovuto sancire il carattere politico del governo
mondiale, furono tenuti sullo sfondo. Le organizzazioni nate con gli accordi
di Bretton Woods – cioè Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale
– e l’ONU ebbero solo una funzione ancillare nei confronti del governo
statunitense (anche la Corea fu un’operazione di "polizia internazionale")
oppure furono ostacolate. L’unico effetto rivoluzionario degli accordi
di Bretton Woods fu che la produzione del denaro mondiale passò
sotto l’esclusivo controllo di una ristretta rete di autorità governative
(in linea con il primato della politica sulla finanza codificato dal New
Deal rooseveltiano).
Tra il 1950 e il 1968 assistiamo così alla più grande
espansione materiale della storia del capitalismo (la cosiddetta "Età
dell’Oro del capitalismo"), all’ombra di un dominio formale statunitense,
speculare a quello sovietico, ovverosia di una struttura gerarchica di
Stati con a capo gli USA, dominio a cui cercarono di sottrarsi la Francia
gaullista e Cuba.
Ma tra 1968 e il 1973 si consuma la "crisi spia" del ciclo americano.
La crescente concorrenza internazionale, con conseguente disimpegno dei
mezzi di pagamento dagli investimenti produttivi e il progressivo impegno
nella speculazione finanziaria – ad esempio nell’Eurovaluta – e una serie
di tracolli politico-militari del campo occidentale (guerra del Vietnam,
guerra del Kippur) congiunti all’impossibilità da parte delle autorità
statali di tenere sotto controllo i flussi monetari generati dalle multinazionali,
che seguendo la logica degli spazi-di-flussi sfuggono costantemente alle
singole giurisdizioni pur basandosi su di esse, portarono alla fine del
gold-dollar-standard
(la base aurea mediata dal dollaro che aveva sostenuto il periodo di sviluppo
materiale) e all’inedito fenomeno della
stagflazione: la stagnazione
accompagnata dall’inflazione.
Il ciclo americano era entrato in crisi globale a meno di trent’anni dal suo inizio.
Un accanimento terapeutico: cercar di
succedere a se stessi
Dopo tentativi del governo statunitense di ridurre alla ragione l’alta
finanza, contrastando le manovre speculative con una continua inflazione
e un continuo deprezzamento del dollaro, con Reagan assistiamo ad un processo
opposto: la ricerca di nuova alleanza tra potere e capitale suggellata
dalla trasformazione degli Stati Uniti nel più grande mercato offshore
del mondo (deregulation) e con un riarmo sfrenato che trasformò
il debito pubblico statunitense in un immenso aspirapolvere di capitali,
così potente da risucchiare tutte le eccedenze dei Paesi industrializzati
e uccidere sul nascere le speranze di "recupero" dei Paesi che, all’epoca,
si dicevano "in via di sviluppo".
La politica di Reagan con la sua II Guerra Fredda rappresentò
dunque una duplicazione della I Guerra Fredda di Truman, ma per scopi totalmente
opposti: mentre Truman voleva risolvere il problema della ridistribuzione
della capacità di acquisto concentrata negli Stati Uniti, Reagan
aveva invece il problema di riconcentrarla. Un’altra differenza consisteva
nel fatto che con la sconfitta del Vietnam gli Stati Uniti abbandonarono
la politica di impero formale per entrare in una fase di impero informale
dove l’egemonia era esercitata tramite il mercato, più o meno come
era successo nel 1800 con il periodo di libero mercato nel Regno Unito
durante il precedente ciclo di accumulazione. Nel caso degli USA erano
però il crescente deficit commerciale e l’enorme indebitamento pubblico
che, congiunti alla supremazia monetaria, politica e militare fungevano
da forza centripeta del mercato mondiale.
Questa situazione si è estesa all’era Clinton, grazie all’esasperata
finanziarizzazione dell’economia trainata dalla forza del dollaro (crescita
della bolla speculativa) e alla massiccia terziarizzazione(10).
Ed è così che negli anni novanta del secolo scorso, gli Stati
Uniti hanno vissuto il culmine del loro "momento meraviglioso".
Ma altri meccanismi erano all’opera. L’egemonia statunitense reaganiana-clintoniana
era strutturalmente debole. Al contrario dei precedenti storici, ultimo
l'Impero Britannico, gli Stati Uniti non avevano, e non hanno, un surplus
strutturale da reinvestire all’estero e favorire la crescita (subordinata)
dei Paesi che ricadevano sotto il loro tramontante impero informale o che
ricadranno sotto il loro futuro dominio.
Ne segue che la crescita degli USA e del sistema capitalistico occidentale
(Giappone ed Europa) lascia indifferenti, nei migliori dei casi, le sorti
del restante i restanti 4/5 del mondo, dato che questo sistema, sia in
termini economici, sia in termini culturali, sia in termini politici "non
ha più nulla da proporre all’80% della popolazione del pianeta"
mondiale (Amin).(S. Amin, "Oltre il capitalismo senile". Edizioni
Punto Rosso). La supremazia, statunitense per utilizzare le categorie offerteci
dall’approccio del sistema-mondo, si gioca allora esclusivamente sulle
attività di formazione e di protezione dello Stato. E’ una supremazia
che comunque permette agli Stati Uniti di convertire in forza gravitazionale
che agisce sul mercato i loro disavanzi (quello dei conti con l’estero
ha ormai superato il 430 miliardi dollari) e di porsi al primo posto nell’ambito
degli armamenti e della ricerca scientifica, attività strettamente
legata al riarmo, e che consentono loro di ipotecare almeno quattro dei
cinque monopoli individuati da Samir Amin coi quali si esercita la supremazia
mondiale: monopolio della tecnologia, controllo dell’accesso delle risorse
naturali, monopolio dei mezzi di comunicazione e dei media, monopolio degli
armamenti di distruzione di massa (cfr. Samir Amin, “Il capitalismo
del nuovo millennio”. Edizioni Punto Rosso, 2001).
Il quinto monopolio, il controllo mondiale dei flussi finanziari, è
invece più problematico.
Negli anni novanta si è assistito infatti ad una impressionante
crescita asiatica nell’alta finanza. Fatti 100 i beni delle maggiori
50 banche mondiali, la percentuale giapponese è passata dal 18%
del 1970 al 48% del 1990, mentre le riserve in valuta estera sono passate
dal 10% del 1980 al 50% del 1994.
Questa crescita è stata accompagnata da un’eccezionale espansione
industriale. L’Unione delle Banche svizzere ha stabilito in un’analisi
comparativa che a partire dal 1870 non c’è mai stata una crescita
economica paragonabile a quella recente del Sud-Est e dell’Est asiatico
iniziata poco dopo la crisi sistemica del 1968-1973 (+ 8% annuo di media).
In più questa crescita è avvenuta in un periodo di stagnazione
nel resto del mondo e si è propagata come un’onda dal Giappone alle
Tigri asiatiche, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong, e da lì
alla Malaysia, alla Tailandia e all’Indonesia, fino a coinvolgere anche
il Vietnam. E ora la Cina.
Come si sa, i carghi provenienti dall’Oriente in Europa sono zeppi
di merci, mentre quelli in direzione contraria sono mezzi vuoti, riproducendo
singolarmente la situazione che avveniva all’inizio del capitalismo seicento
anni fa. Similmente, come nella seconda metà dell’800 la produzione
industriale britannica era ormai surclassata da quella statunitense e tedesca,
allo stesso modo oggi assistiamo al declino industriale dell’Occidente
a favore dei nuovi Paesi emergenti(11).
"La contraddizione dell’egemonia mondiale USA ha innanzitutto a
che fare con un percorso di sviluppo caratterizzato da alti costi di protezione
e riproduzione, ovvero sulla formazione di un apparato militare di ampiezza
globale ad alta intensità di capitale e sulla diffusione di uno
schema di consumo di massa insostenibile e devastante che hanno finito
per destabilizzare la potenza degli USA. Al contrario, l’eredità
storica dell’Asia dell’Est di minori costi di riproduzione e di protezione
hanno dato alle agenzie governative e d’affari della regione un decisivo
vantaggio competitivo nella economia globale fortemente integrata. Se questa
eredità verrà preservata, è un fatto ancora non chiaro."
(Arrighi,
op. cit.)
Come risultato evidente di questa contraddizione, la sconfitta del Vietnam
forzò gli USA a riammettere la Cina nei normali circuiti commerciali
e diplomatici mondiali, ampliando il raggio dell’espansione e dell’integrazione
regionale, in cui la Cina stessa, con la sua base demografica, le potenzialità
di crescita e la disponibilità di forza-lavoro è diventata
un gigante assoluto, attraendo quote crescenti di mezzi di pagamento. La
Cina ha ormai superato il Giappone nella fornitura di merci agli USA e
le autorità cinesi "hanno in mano il destino dei cambi dell’intero
continente asiatico." (M. De Cecco, "La Repubblica, Affari &
Finanza", 13-1-03) (12).
Non è quindi un caso che gli Stati Uniti abbiano previsto che
tra il 2017-2020 la Cina diventerà un avversario strategico.
L’arcano profondo dell’attacco a Oriente sta forse proprio qui. Evitare
che il capitale si allei con l’emergente stato-nazione-continente cinese.
E per raggiungere questo obiettivo deve cercare, finché è
ancora in tempo e finché ne è ancora capace, di arginare
il più possibile la propria decadenza e di occupare, come sanno
i giocatori esperti, il "centro della scacchiera".
Ed è possibile, anche se con difficoltà.
Le difficoltà nascono dal fatto che, per dirla in termini
un po’ naïve, gli Stati Uniti non hanno assolutamente tanti
soldi da spendere in guerre. E su questo il Movimento deve far leva e fa
leva (giustissima la campagna "Non un uomo, non un soldo per la guerra").
Già quella del Golfo fu pagata per oltre il 70% dagli alleati
e in special modo da Arabia Saudita, Emirati e – nota oggi dolente – da
Giappone e Germania(13).
La possibilità deriva invece dal fatto che in parziale
contrasto con le fasi di crisi sistemica precedenti, oggi non si assiste
ad una fusione della potenza finanziaria e di quella militare in un ordine
più alto, ma si assiste invece ad una loro fissione: la centralizzazione
della potenza militare negli USA da una parte e dall’altra la dispersione
del potere finanziario in un arcipelago asiatico formato da stati-nazione,
città-stato, diaspore, che non hanno né singolarmente né
collettivamente nessuna possibilità di eguagliare la potenza militare
statunitense né, per adesso, la possibilità di sostituirsi
agli USA come centro organizzativo della finanza internazionale
(Arrighi, op. cit.).
Ma non è detto che questa situazione possa perdurare in eterno.
Anzi, storicamente ciò non è mai successo. Non ci vorrà
moltissimo tempo per arrivare al punto culminante della
concorrenza
per lo scambio politico con il potere finanziario. Gli Stati Uniti
lo sanno benissimo e le date 2017-2020 previste dai suoi strateghi lo stanno
a testimoniare.
I diritti umani e le convenzioni internazionali
sono pipelines: seguono linee geostrategiche.
In questa situazione gli Stati Uniti, se vorranno mantenere la posizione
di potere, dovranno cercare di scambiare la propria capacità
bellica e di formazione dello stato con il potere finanziario dell’Asia
orientale, eventualmente "mediante una rinegoziazione dei termini dello
scambio politico che ha legato il capitalismo dell’est asiatico al keynesismo
militare globale degli Stati Uniti durante tutta l’epoca della guerra fredda."
(Arrighi, op. cit.). Contemporaneamente dovrà cercare di bloccare
sul nascere ogni ipotesi di aggregazione di nuovi complessi o alleanze
territoriali capaci di competere con questo piano.
I corollari comportamentali di politica internazionale a nostro avviso
sono:
Il Movimento e la guerra, quintessenza
della mercificazione della vita umana
Se si accetta questa interpretazione della realtà, allora il
rifiuto etico della guerra è costretto a fare in conti con un obiettivo
immane: trasformare radicalmente la logica di sviluppo economico, di formazione
dello stato e di esercizio della forza che è stata seguita negli
ultimi seicento anni. O almeno contrastarla. Un compito non facile, lungo
e complesso. Ma non impossibile, perché l’avversario non è
poi così invulnerabile come si vuole presentare.
Ma è vulnerabile non perché un’organizzazione di fanatici
è capace di bombardarlo con un’azione terroristica, frutto avvelenato
proprio della logica da contrastare, o perché un satrapo asiatico,
altro frutto di questa logica, può in teoria infliggere sensibili
perdite agli eserciti che vogliono aggredirlo.
Al contrario, lo è perché esso stesso nel corso del tempo
ha prodotto il proprio principale anticorpo: la coscienza dell’indivisibilità
e dell’universalità dei diritti umani. Una coscienza che nello stesso
campo occidentale è cresciuta in modo esponenziale come reazione
all’iperconsumismo, alla dilatatissima alienazione economicistica e all’esasperata
polarizzazione delle ricchezze, ovverosia come reazione al radicale attacco
a valori di base politici, etici, sociali e religiosi elaborati e conquistati
nel corso di secoli.
Tutto ciò è testimoniato proprio dal carattere composito
del movimento contro la globalizzazione liberista e le sue guerre, la cui
varietà non dovrebbe destare meraviglia se si pensa che "il capitalismo
innovativo e globale non è affatto soltanto anti-proletario (come
continuano ad opinare i veteromarxisti operaisti), ma è anche e
soprattutto anti-borghese, perché l’ethos nobiliare-borghese si
è sempre ostinato a mantenere sfere vitali non mercificabili, o
per lo meno non interamente mercificate." (Costanzo Preve, "Il Bombardamento
Etico", Editrice CRT, Pistoia, 2000, pag. 39)(16).
E non è difficile allora capire perché un’opinione pubblica
trasversale, avvilita dall’arroganza economica e politica del potere, già
allarmata per i tentativi di privatizzazione della vita cresciuti sull’onda
dei successi della bioingegneria e preoccupata per il cattivo stato di
salute del pianeta avvertibile tutti i giorni, consideri istintivamente
e implicitamente (e giustamente) lo scambio morti-per-petrolio – il più
evidente tra gli scambi proposti dall’amministrazione Bush – come l’inaccettabile
quintessenza della mercificazione della vita umana.
Ed è infatti mia opinione che la guerra, e specialmente la guerra
moderna, sia da rubricarsi proprio sotto questa voce.
Allo stesso modo possiamo aggiungere che, con tutte le sue contraddizioni,
lo stesso risveglio religioso di questi anni non è altro, e proprio
da un punto di vista squisitamente laico, che una manifestazione del fatto
che l’essere umano è un animale ideologico, ermeneutico e metafisico,
e non lo schiavo di una "mano invisibile" che lo inchioda alla pura materialità.
E’ questa "dimensione antropologica transtorica" - per usare un concetto
di Samir Amin - a spingere l’uomo a fare la propria storia. Ed è
la moderna pratica politica laica il terreno più favorevole per
compierla, perché "la democrazia moderna si attribuisce subito
il diritto d’invenzione, a fare qualcosa di nuovo. Sta tutto qui il senso
del segno di uguaglianza che la Filosofia dei Lumi pone tra Ragione ed
Emancipazione." (S. Amin, "Oltre la mondializzazione". Editori
Riuniti, 1999).
Fare la propria storia vuol dire emanciparsi dall’alienazione mercantilistica
e capire che un nuovo ciclo di espansione materiale capitalistico presupporrebbe
una fase di conflitti crescenti e senza esclusione di colpi e, inoltre,
sia che esso venga incentrato di nuovo sugli Stati Uniti sia, a maggior
ragione, che venga incentrato su un nuovo stato-continente come la Cina
che deve recuperare velocemente le fasi "pesanti" di sviluppo perdute,
equivarrebbe con ogni evidenza ad un collasso ecologico-sociale planetario.
L’emancipazione dall’alienazione mercantilistica non può quindi
limitarsi all’Occidente, ma deve estendersi in ogni parte del mondo, Asia
in primo luogo.
E sembra anche evidente che questa emancipazione non è più
appannaggio esclusivo di un soggetto sociale specifico, come nella tradizione
marxista, ma di una rete di soggetti in larga misura ancora da definire
e, addirittura, da identificare e che possono variare da Paese a Paese,
eppure già reali e operanti.
L’alternativa a questa emancipazione potrebbe non esserci, né
singolarmente né come specie:
"[…] prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia umana, non è dato sapere." (G. Arrighi, op. cit.)
NOTE
(1) Consulente di una transnazionale
statunitense specializzata in informatica e in servizi nel settore petrolifero-energetico.
Collaboratore di istituti di ricerca in Europa e in Asia nel campo dell’algebra
della logica, sistemi esperti e analisi logico-algebrica di informazioni
incomplete, è autore di memorie scientifiche e ha tenuto seminari
e conferenze in Canada, Francia, Germania, Giappone, India, Polonia, Romania
e Stati Uniti. Per un incarico di consulenza, ha vissuto in Turchia dall’inverno
2000 all’estate 2001. Durante questo soggiorno ha approfondito la propria
documentazione sulla politica interna e internazionale di quel paese e
delle repubbliche centroasiatiche e transcaucasiche. E’ membro della Chiesa
Evangelica Metodista, al cui interno ha promosso la discussione sulle politiche
neo-liberiste. (http://www.surf.it/logic)
(2) E’ il caso di Sergio Cararo (si veda il sito http://digilander.libero.it/acta_imperii/balcani01.html).
(3) I termini più generali della questione iugoslava
sono verosimilmente quelli discussi da Alberto Negri in http://www.sottovoce.it/conflitti/corridoi1.htm
(4) Così Gerard Segal, ex direttore dell’Istituto
Internazionale di Studi Strategici di Londra, un anno prima dell’intervento
contro la Serbia: "Dovremo intervenire unilateralmente in Kossovo? La
risposta sarà in larga misura un calcolo politico, ma l’interrogativo
solleva questioni fondamentali attinenti alle finalità della potenza
militare" (La Repubblica, 10-7-1998).
(5) Con la probabile aggiunta eccezionale e precauzionale,
appena il gioco si farà duro, della perenne spina nel fianco: Cuba.
(6) Il reddito medio dell’Arabia Saudita è diminuito
di più del 50% dall’inizio della reaganomics ad oggi.
(7) "Non con le armi" non è però
in ultima analisi una descrizione esatta. La guerra per sottrarre all’influenza
Russa i Paesi centrasiatici e transcaucasici si sta combattendo in Cecenia.
La Cecenia, infatti, prima della guerra alla Serbia è stata
la riprova che la Russia era così debole da non riuscire a venire
a capo di un conflitto locale in casa propria (figuriamoci all’estero);
dopo l’11 settembre è stata la merce di scambio per ottenere il
lasciapassare per l’Asia centrale ex-sovietica, mentre oggi costituisce
la situazione di crisi che continua a mantenere la Russia sotto pressione
militare e politica. Il conflitto in Cecenia è uno dei tanti il
cui compito è quello di non finire, a totale dispetto e dispregio
delle sofferenze che provoca.
(8) Nelle classiche formule di Marx, D sta per
capitale (denaro),
M sta per "merci" (ma possiamo anche intendere
M
come mezzi o strumenti dell’espansione materiale) mentre D’ è
il capitale accresciuto grazie a quei "mezzi"(D'=D+x).
La formula con cui Marx descrive la logica generale di
accumulazione del capitale è quindi
D -->M -->D’, mentre
quella con cui descrive l’accumulazione finanziaria tramite interessi è
D
-->D’ (il denaro che "procrea" direttamente denaro). Arrighi, su un
diverso piano di astrazione, spezza la formula generale di Marx in
due momenti storico-logici separati: l’impegno del capitale nella produzione
e nel commercio di merci, D -->M, che dà luogo alla dinamica
di accumulazione D -->M -->D’ (espansione
materiale), e il
disimpegno dalla produzione materiale e progressivo impegno nelle attività
finanziarie, M -->D’, che innesca il meccanismo di accumulazione
abbreviato D -->D’ (espansione finanziaria).
Marx definisce la finanziarizzazione come "una delle
leve più energiche dell’accumulazione originaria", associandola
così all’inizio del modo di produzione capitalistico, che in quanto
tale è caratterizzato invece dalla formula D -->M -->D’ (cfr.
, "Il Capitale", Libro I, Vol 3, Sezione VII, cap. 24). Se quindi
si concepisce il capitalismo come un unico ciclo sistemico, una
nuova fase di finanziarizzazione sarà vista come un sintomo di putrefazione
(Lenin) o di decadenza (Keynes) del sistema. E’ di fatto il grande schema
a cui si attiene anche Samir Amin, sebbene in modo altamente creativo e
per nulla meccanico (dato che al suo interno contempla possibili ‘sottocicli’).
Schumpeter, al contrario considerava la finanziarizzazione sintomo della
fine di un ciclo di accumulazione e, nella sua scia, Arrighi la
considera caratteristica della fine di un ciclo sistemico di accumulazione
e di inizio di un ciclo successivo. Va allora notato che lo stesso Marx
non parla di un’unica fase iniziale di accumulazione, ma di diverse fasi
di accumulazione originaria che si sono susseguite nella Storia, ognuna
basandosi sui frutti di quella precedente (Venezia, Olanda, Inghilterra
e, presagiva, Stati Uniti). Tuttavia lo schema dei cicli sistemici di accumulazione
non è derivabile
direttamente da Marx (e in ciò l’interpretazione
di Amin sembra più ortodossa di quella di Arrighi).
(9) I famosi "capitali fluttuanti speculativi" oggetto
della Tobin tax, cavallo di battaglia di ATTAC, hanno questa origine.
(10) Attualmente è calcolato che il rapporto tra
transazioni commerciali e transazioni finanziarie sia 1:80, cifra che illustra
bene cosa si intenda per “disimpegno dalla produzione e dal commercio”.
(11) La partecipazione dell'apparato produttivo di Giappone,
Germania e USA all'economia internazionale è passata dal 54% nel
1961 al 40% nel 1996 (IFRI-Ramses).
(12) La diaspora capitalistica cinese nel mondo ha contribuito
in modo fondamentale a questo processo, sia finanziando direttamente la
crescita cinese, sia fungendo da intermediaria finanziaria e commerciale
(modello "One Nation, Two Systems").
(13) Per gli USA e gli UK il presidente Chirac è
"un verme" non perché senza la Francia non si possa fare la guerra
materialmente, ma perché la Francia trascina le posizioni di molti
Paesi, in primo luogo la Germania, senza i quali è difficile farla
finanziariamente.
(14) "Una volta che il momento è maturo, non
sarà impossibile che i nazionalisti separatisti dello Xinjiang,
assistiti da forze ostili interne e internazionali, si mettano a contrastare
il governo locale e quello centrale e chiedere supporto alla comunità
internazionale, proprio come i separatisti albanesi nel Kossovo, Yugoslavia.
In quel momento non possiamo escludere la possibilità che il blocco
militare della NATO guidato dagli USA agisca contro la Cina in un modo
o nell’altro, anche con mezzi militari, con il pretesto di salvaguardare
i diritti umani dei gruppi etnici di minoranza." Al Yu, "Kossovo
Crisis and Stability in Cina’s Tibet and Xinjiang", Ta Kung Pao, FBIS.CHI-97-223,
August 11, 1997.
(15) Cfr. Chalmers Johnson, "I missili di oggi sull’Iraq
sono partiti 50 anni fa". Supplemento al N. 5 di Carta, febbraio
2003.
(16) "A proposito infine della tradizione culturale
borghese, l’attuale globalizzazione non ‘occidentalizza’ affatto il pianeta
(come sostengono noti confusionari sempre pubblicati, recensiti e pubblicizzati),
dal momento che essa globalizza un modello di vita rigorosamente post-occidentale,
posteriore al declino comune delle occidentalissime classi borghese e proletaria,
e nichilisticamente posteriore a tutte le forme di saggezza e di religione
occidentali." (Costanzo Preve, op.cit. pag. 47)
(*) Estratto da "Alla conquista del cuore della Terra"
(per informazioni rivolgersi all'autore)
Premessa - Introduzione.
Parte I. Potere, egemonia e guerra. La guerra
e i cicli sistemici. Tipi di guerra - Violenza, potere politico e potere
economico - Le fasi storiche ricorrenti di accumulazione del capitale e
le “guerre sistemiche”.
I cicli sistemici storici. Il ciclo britannico
(Rule Britannia! Britannia rule the waves) - Non “imperialismo” ma
“tipi di imperialismo” - L’Impero britannico e l’imperialismo britannico.
Il ciclo americano - La crisi del ciclo americano - La fine del ciclo americano
(L’Oriente è rosso?). Cala il sipario. La supremazia statunitense
come accanimento terapeutico? Dallo scontro tra civiltà allo
scontro nelle civiltà: Lo scontro nelle civiltà - La
volontà e la rappresentazione - Autori e beneficiari: la pseudo-logica
dominante - Perché l’Islam politico - L’impero autoreferenziale
statunitense e il cosiddetto “spirito protestante” - I valori occidentali
e la loro esportazione. Nota su maggioranza, minoranza e soggetti alternativi.
Il sipario strappato: è possibile una resistenza? Appendice A:
i primi cicli sistemici. Il ciclo genovese-iberico - Il ciclo olandese
- La nascita dello stato-nazione capitalistico inglese.
Parte II. La conquista dell’Eurasia. L’Eurasia.
Un posto che ne vale la pena. Le caratteristiche uniche dell’Eurasia
- L’Heartland: Asia Centrale e Caucaso. Ovvero, la Torre di Babele. Breve
profilo dei contendenti principali. La Russia - La Cina - La Turchia
- L’Iran - L’Uzbekistan - La geopolitica degli Stati Uniti: dalla crisi
egemonica alla conquista dell’Heartland. Impero o Imperialismo?.
Il pendolo delle “opportunità”: i punti salienti
della storia recente. Cambiamenti strategici nella storia recente dell’Heartland
- L’eredità di Bush Jr. - I nuovi schieramenti - Excursus: perché
è stato ucciso il Comandante Massud? - La conquista dell’Heartland
e la guerra all’Iraq. L’Heartland e la geopolitica delle risorse energetiche.
Premessa - Stime delle riserve energetiche in Asia Centrale - Pensieri
geostrategici - Le pipeline: tra geopolitica e keynesismo di guerra - Gli
sporchi giochi attorno alla BTC - La BTC: un’opera sovvenzionata dall’apparato
militare-industriale? Geopolitica delle risorse naturali: ambiente
e acqua. Generalità - Cenni sulla questione dell’acqua in Medio
Oriente: l’asse “idro-militare” Turchia-Israele - Cenni sulla questione
delle risorse idriche in Asia Centrale - Petrolio e acqua: il caso dello
Xinjiang - Petrolio e ambiente: il caso del Bosforo. Epilogo. Excursus:
di nuovo sull’autoreferenzialità. Appendice B: Il conflitto
del Nagorno-Karabakh - Le contraddizioni degli USA nella politica eurasiatica:
Sezione 907 contro Silk Road Strategy Act. Appendice C: L’Olocausto
Armeno. Gli Armeni - Il genocidio - “Umanità” è un concetto
geopolitico, come le direttrici delle pipeline. Nota bibliografica.