I bombardamenti di questi giorni

 

Di Noam Chomsky

Traduzione di Alberto Mari

Si è molto discusso sui bombardamenti in Kosovo della NATO (e quindi principalmente degli Stati Uniti). Si è scritto parecchio sull'argomento, comprese le cronache Znet. Vorrei fare alcune osservazioni generali, attenendomi a fatti che non siano seriamente contestabili.
Ci sono due questioni fondamentali: (1) Quali sono le “regole dell'ordine mondiale” accettate e applicabili? (2) In che modo queste o altre considerazioni si applicano nel caso del Kosovo?

(1) Quali sono le “regole dell'ordine mondiale” accettate e applicabili?

Esiste un regime di leggi internazionali e di ordine internazionale, che lega tutti gli stati, basato sullo Statuto dell'ONU e le sue successive risoluzioni, e le decisioni del Tribunale Internazionale. In breve, sono banditi la minaccia o l'uso della forza a meno che non siano esplicitamente autorizzati dal Consiglio di Sicurezza dopo che questo ha determinato il fallimento dei tentativi di pace, oppure come autodifesa contro “attacchi armati” (un concetto sottile) finché non agisce il Consiglio di Sicurezza.

Ovviamente c'è molto di più da dire. Per cui esiste almeno una tensione, se non una contraddizione esplicita, tra le regole dell'ordine mondiale presentate nello Statuto dell'ONU e i diritti elencati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (DU), un altro pilastro dell'ordine mondiale stabilito per iniziativa dell'ONU dopo la seconda guerra mondiale. Lo Statuto bandisce la violazione con la forza della sovranità di uno stato; La DU garantisce i diritti degli individui contro gli stati oppressori. La questione di un “intervento umanitario” nasce da questa tensione. È il diritto di “intervento umanitario” che viene reclamato da ONU/NATO in Kosovo, e che viene generalmente sostenuto dall'opinione della stampa e dalle notizie (in quest'ultimo caso in modo riflessivo, nel vero senso del termine).

La questione è stata sollevata da una notizia apparsa sul New York Times (27 marzo), intitolata “Esperti legali sostengono l'uso della forza” in Kosovo. Tra gli altri un esempio: Allen Gerson, ex consulente per la missione degli Stati Uniti presso l'ONU. Vengono citati altri due esperti. Uno, Ted Galen Carpenter, “ha deriso la posizione del Governo” e respinto il presunto diritto di intervento. Il terzo è Jack Goldsmith, esperto di diritto internazionale della Scuola di Diritto di Chicago. Egli sostiene che le critiche ai bombardamenti della NATO “hanno delle ragioni piuttosto valide” ma “molte persone pensano [una obiezione per l'intervento umanitario] che esista una questione di consuetudine e pratica.” Così si riassumono le prove offerte per giustificare la conclusione presentata nel titolo.

L'osservazione di Goldsmith è ragionevole, almeno se siamo d'accordo che i fatti sono rilevanti per determinare la “consuetudine e la pratica”. Potremmo anche pensare a una ovvietà: il diritto all'intervento umanitario, se esiste, presuppone la “buona fede” di tale intervento, e tale assunzione si basa non sulla retorica, ma sui precedenti; in particolare sui precedenti di aderenza ai principi legislativi internazionali, alle decisioni del Tribunale Internazionale, e così via. È davvero una ovvietà, per lo meno riguardo agli altri. Consideriamo, per esempio, l'offerta iraniana di intervenire in Bosnia per prevenire i massacri in un tempo in cui gli Occidentali non l'avrebbero fatto. Venne respinta come ridicola (e di fatto ignorata); se c'era una ragione oltre la subordinazione al potere, fu perché la “buona fede” iraniana non poteva essere data per scontata. Una persona ragionevole allora si pone l'ovvia domanda: i precedenti iraniani di interventi e di terrorismo sono peggiori di quelli degli Stati Uniti? E altre domande, per esempio: come dovremmo valutare la “buona fede” dell'unico paese che ha posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che invitava tutti gli stati a obbedire al diritto internazionale? Che dire dei suoi precedenti storici? Se non fossero questioni importanti e attuali, una persona onesta le respingerebbe come mere dispute dottrinali, ma un esercizio utile è determinare quanto della letteratura – mezzi di comunicazione o altro – sopravviva a condizioni elementari come queste.

(2) In che modo queste o altre considerazioni si applicano nel caso del Kosovo?

C'è stata una catastrofe umanitaria in Kosoko nell'anno passato, attribuibile in modo schiacciante alle forze militari yugoslave. Le vittime principali sono stati kosovari di etnia albanese, più o meno il 90% della popolazione di questo territorio yugoslavo. La stima comune è di 2000 morti e di centinaia di migliaia di profughi.

In tali casi gli stranieri hanno tre possibilità:

(I) Tentare una escalation della catastrofe
(II) Non fare nulla
(III) Tentare di mitigare la catastrofe

Queste possibilità sono illustrate da altri casi della storia contemporanea. Atteniamoci ad alcuni che abbiano approssimativamente le stesse proporzioni, e chiediamoci dove si possa situare il Kosovo.

(A) Colombia. In Colombia, secondo le stime del Dipartimento di Stato, il livello annuale di uccisioni politiche da parte del governo e dei suoi affiliati paramilitari è vicino al livello del Kosovo, e i profughi fuggiti dalle loro atrocità superano di molto il milione. La Colombia è stata la principale destinataria delle armi e dell'addestramento statunitensi nell'emisfero occidentale, con la crescita delle violenze negli anni '90, e tale assistenza sta ora aumentando, sotto il pretesto di una “guerra della droga” rigettato da tutti gli osservatori seri. L'amministrazione Clinton è stata particolarmente entusiastica nel suo elogio del Presidente Gaviria, la cui permanenza in carica è stata responsabile di “stroncare con la paura il livello di violenza”, secondo le organizzazioni dei diritti umani, superando addirittura i suoi predecessori. I dettagli sono alla portata di tutti.

In questo caso la reazione degli USA è stata (I), intensificare le atrocità.

(B) Turchia. Secondo stime molto prudenti, la repressione turca dei curdi negli anni '90 rientra nella categoria del Kosovo. Raggiunse il massimo nei primi anni '90; un indice è la fuga di oltre un milione di curdi dalla campagna verso la non ufficiale capitale curda Diyarbakir dal 1990 al 1994, quando l'esercito curdo procedeva alla devastazione delle campagne. Il 1994 ha segnato due record: fu “l'anno della peggiore repressione nelle provincie curde” della Turchia, secondo il resoconto sul campo di Jonathan Randal, e l'anno in cui la Turchia divenne il più grande importatore singolo di attrezzature militari americane, e quindi il maggior acquirente mondiale di armi”. Quando i gruppi per i diritti umani rivelarono l'uso da parte della Turchia di jet americani per bombardare i villaggi, il governo Clinton trovò modo di eludere la legge che richiedeva la sospensione delle forniture di armi, allo stesso modo di quanto stava facendo in Indonesia e altrove.

Colombia e Turchia mostrano le loro atrocità (supportate dagli USA) sul territorio della loro nazione, che difendevano dalla minaccia di guerriglieri terroristici. La stessa cosa del governo yugoslavo.

Un altro esempio di (I), l'intensificazione delle atrocità.

(C) Laos. Ogni anno migliaia di persone, principalmente bambini e poveri contadini, vengono uccisi nella Piana delle Giare nel Laos settentrionale, il luogo del peggiore, e presumibilmente il più crudele, bombardamento di obiettivi civili nella storia: il furioso assalto di Washington su una povera società contadina aveva poco a che fare con la sua guerra in quella regione. Il periodo peggiore fu dal 1968, quando Washington fu costretta a intraprendere negoziati (sotto la pressione popolare e del mercato), che ponevano fine ai bombardamenti regolari nel Vietnam del Nord. Kissinger-Nixon decisero quindi di spostare i bombardamenti su Laos e Cambogia.

I morti vennero dalle “bombies” piccole armi antiuomo, ben peggiori delle mine terrestri: sono progettate specificamente per uccidere e mutilare, e non hanno effetto su veicoli, edifici ecc. La piana venne saturata con centinaia di milioni di tali dispositivi criminali, che avevano una tasso di mancata esplosione pari al 20-30%, secondo il produttore, Honeywell. Tali numeri suggeriscono o un controllo di qualità notevolmente basso oppure una politica ragionata di uccisione della popolazione civile attraverso effetti ritardati. Queste erano solo una parte della tecnologia dispiegata, inclusi missili d'avanguardia per penetrare nelle grotte dove le famiglie cercavano rifugio. Le perdite annuali correnti dovute a “bombies” sono stimate dalle centinaia all'anno fino a “un tasso annuale di vittime in tutto il paese pari a 20.000”, di cui più della metà morti, secondo il reporter veterano dell'Asia Barry Wain del Wall Street Journal, nella sua edizione per l'Asia. Una stima prudente, quindi, è che la crisi quest'anno sia approssimativamente confrontabile con il Kosovo, benché i morti siano maggiormente concentrati tra i bambini – oltre la metà, secondo le analisi presentate dal Mennonite Central Committee, che sta lavorando là dal 1977 per alleviare le continue atrocità.

Sono stati compiuti degli sforzi per pubblicizzare e affrontare la catastrofe umanitaria. Il Mine Advisory Group britannico sta tentando di rimuovere gli oggetti letali, ma gli Stati Uniti sono “manifestamente assenti tra le poche organizzazioni occidentali che hanno seguito il MAG”, riporta la stampa britannica, benché abbiano finalmente accettato di provvedere all'addestramento di alcuni civili del Laos. La stampa birtannica riporta inoltre, con una certa collera, l'affermazione degli specialisti del MAG secondo cui gli USA si sono rifiutati di fornire loro le “procedure per rendere inoffensivi gli ordigni”, che avrebbero reso il loro lavoro “molto più rapido e molto più sicuro”. Questo rimane un segreto di stato, così come tutta la faccenda negli Stati Uniti. La stampa di Bangkok riporta una situazione molto simile in Cambogia, in particolare nella regione orientale dove i bombardamenti americani furono molto intensi fin dal 1969.

In questo caso la reazione degli Stati Uniti è stata (II): non fare nulla. E la reazione dei media e dei commentatori è stata quella di mantenere il silenzio, seguendo le norme per cui la guerra nel Laos è stata definita una “guerra segreta”, ovvero ben nota ma occultata, così come per il caso della Cambogia dal 1969. Il livello di autocensura è stato in quel caso straordinario, così come nella fase attuale. La pertinenza di questo esempio scandaloso dovrebbe essere ovvia senza bisogno di ulteriori commenti.

Tralascerò altri esempi di (I) e (II), che si trovano in abbondanza, e anche atrocità contemporanee ancora più pesanti, come il massacro di civili iracheni per mezzo di una forma particolarmente feroce di guerra biologica – “una scelta molto difficile”, commentò Madeleine Albright sulla TV di stato nel 1996 quando le venne chiesta la sua reazione di fronte all'uccisione di mezzo milione di bambini iracheni nell'arco di cinque anni, ma “pensiamo che sia stato un prezzo equo da pagare”. Le stime correnti parlano di circa 5000 bambini uccisi ogni mese e si parla di un prezzo “equo”. Questi e anche altri esempi possono essere tenuti a mente quando leggiamo la retorica riverente su come la “bussola morale” del governo Clinton stia funzionando correttamente, come illustra l'esempio del Kosovo.

Ma che cosa illustra l'esempio? La minaccia dei bombardamenti NATO, prevedibilmente, ha portato a un'aspra intensificazione delle atrocità compiute dall'esercito serbo e dai paramilitari, e alla partenza degli osservatori internazionali, cosa che ha ovviamente prodotto lo stesso effetto. Il Comandante Generale Wesley Clark ha dichiarato come fosse “assolutamente prevedibile” che le azioni terroristiche e la violenza serba si sarebbero intensificati dopo i bombardamenti NATO, esattamente come è in effetti accaduto. Gli atti terroristici hanno raggiunto per la prima volta la capitale Pristina, e ci sono resoconti credibili di distruzioni di massa dei villaggi, assassinii e formazione di un enorme flusso di profughi, forse un tentativo di espellere buona parte della popolazione albanese: tutte conseguenze “assolutamente prevedibili” della minaccia e dell'uso della forza, secondo le corrette osservazioni del Generale Clark.

Il Kosovo è quindi un'altra manifestazione di (I): tentativo di intensificare la violenza, così come ci si attendeva.

Trovare esempi che illustrino (III) è fin troppo facile, almeno se ci atteniamo alla retorica ufficiale. Lo studio teorico recente più importante sull'intervento umanitario, di Sean Murphy, passa in rassegna gli accadimenti dopo il patto Kellogg-Briand del 1928 che bandì la guerra, e da lì fino allo Statuto dell'ONU, che rafforza e articola questi provvedimenti. Nella prima fase, scrive, gli esempi più rilevanti di “intervento umanitario” furono l'attacco giapponese della Manciuria, l'invasione dell'Etiopia da parte di Mussolini e l'occupazione di Hitler di parte della Cecoslovacchia. Tutti furono accompagnati da una retorica umanitaria estremamente confortante, così come da una giustificazione fattuale. Il Giappone doveva stabilire un “paradiso in terra” nel momento in cui difendeva la Manciuria dai “banditi cinesi”, con il sostegno del più importante nazionalista cinese, una figura molto più credibile di qualsiasi altro gli Stati Uniti siano riusciti a far apparire durante il loro attacco al Vietnam del Sud. Mussolini stava liberando migliaia di schiavi nel momento in cui portò avanti la “missione civilizzatrice” occidentale. Hitler annunciò l'intenzione della Germania di porre fine alle tensioni etniche e alla violenza, e “salvaguardare l'individualità nazionale della popolazione tedesca e ceca”, in una operazione “piena del desiderio più sincero di servire l'interesse reale delle persone risiedenti in quell'area”, secondo il loro volere; il presidente slovacco chiese a Hitler di dichiarare la Slovacchia un protettorato.

Un altro utile esercizio intellettuale è comparare queste oscene giustificazioni con quelle fornite negli interventi, compresi gli “interventi umanitari”, del periodo successivo allo Statuto delle Nazioni Unite.

In tale periodo, forse l'esempio più convincente di (III) è l'invasione vietnamita della Cambogia nel dicembre del 1978, per porre fine alle atrocità di Pol Pot che avevano raggiunto il culmine. Il Vietnam invocò il diritto di autodifesa contro l'attacco armato, uno dei pochi esempi post-Statuto in cui la dichiarazione è plausibile: il regime dei Khmer Rossi (il Partito della Kampuchea Democratica, PKD) stava perseguendo attacchi omicidi contro il Vietnam nelle aree di confine. La reazione degli USA è istruttiva. La stampa condannò la reazione asiatica di stampo “prussiano” per la sua oltraggiosa violazione del diritto internazionale. Vennero duramente puniti per il crimine di aver posto fine ai massacri di Pol Pot, prima per mano di una invasione cinese (pilotata dagli Stati Uniti) e quindi con l'imposizione da parte degli USA di sanzioni estremamente severe. Gli Stati Uniti riconobbero nell'espulso PKD il governo ufficiale della Cambogia, per via della sua “continuità” con il regime di Pol Pot, come spiegò il Dipartimento di Stato. Poco argutamente gli Stati Uniti sostennero i Khmer Rossi nei loro continui attacchi in Cambogia.

Questo esempio ci dice molto sulla “consuetudine e la pratica” che sono alla base “delle norme legittime emergenti per l'intervento umanitario”.

Nonostante gli sforzi disperati dei teorici di dimostrare la quadratura del cerchio, non c'è alcun serio dubbio che i bombardamenti NATO indeboliscano ulteriormente quello che rimane della fragile struttura del diritto internazionale. Gli USA l'hanno mostrato chiaramente nelle discussioni che hanno portato alla decisione della NATO. A parte la Gran Bretagna (che per il momento riveste un ruolo di attore indipendente, come fu l'Ucraina negli anni pre-Gorbaciov), i paesi della NATO erano scettici riguardo alla politica degli Stati Uniti, e particolarmente seccati dalla “minaccia di guerra” del Segretario di Stato Albright (Kevin Cullen, Boston Globe, 22 febbraio). Oggi, più ci si avvicina alla regione del conflitto e più aumenta l'opposizione all'ostinatezza di Washington all'uso della forza, persino all'interno della NATO (Grecia e Italia). La Francia ha richiesto una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU per autorizzare il dispiegamento dei pacificatori NATO. Gli Stati Uniti hanno rifiutato, insistendo sulla “loro posizione per cui la NATO dovrebbe poter agire indipendentemente dalle Nazioni Unite”, come spiegarono i funzionari del Dipartimento di Stato. Gli Stati Uniti non hanno acconsentito di inserire la “parola nevralgica 'autorizzazione'” nella dichiarazione finale della NATO, riluttanti a concedere qualsiasi autorità allo Statuto dell'ONU e al diritto internazionale; solamente il termine “endorse” (appoggio) fu permesso (Jane Perlez, New York Times, 11 febbraio). Analogamente il bombardamento dell'Irak fu una sfacciata espressione di disprezzo verso l'ONU, persino la scelta del momento particolare, e così venne recepita. E, ovviamente, vale la stessa cosa per la distruzione di metà della produzione farmaceutica di una piccola nazione africana pochi mesi prima, un evento che comunque non indica una deviazione dalla correttezza della “bussola morale”: per non parlare di un precedente che sarebbe stato preso in esame proprio ora se i fatti fossero stati considerati rilevanti per determinare la “consuetudine e la pratica”.

Si può affermare, in modo piuttosto plausibile, che l'ulteriore demolizione delle regole dell'ordine mondiale sia irrilevante, dal momento che ha perso il suo significato già dagli anni Trenta. Il disprezzo della maggiore potenza mondiale per la struttura dell'ordine mondiale è diventato talmente estremo che non è rimasto più nulla da discutere. Un'analisi delle registrazioni documentarie interne dimostra che questo atteggiamento risale ai primi tempi, persino nel primo memorandum del neo costituito Consiglio di Sicurezza Nazionale nel 1947. Durante gli anni di Kennedy, l'atteggiamento iniziò a guadagnare un'espressione manifesta. La principale innovazione degli anni Regan-Clinton, è che il disprezzo del diritto internazionale e dello Statuto è diventato completamente aperto. È stato appoggiato anche da spiegazioni interessanti, che sarebbero nelle prime pagine e in primo piani nei programmi scolastici e universitari, se la verità e l'onestà fossero considerati valori significativi. Le più alte autorità hanno spiegato con una chiarezza brutale che il Tribunale Internazionale, l'ONU e gli altri enti sono diventati irrilevanti poiché non seguono più gli ordini degli USA, come invece facevano nei primi anni del dopoguerra.

Si potrebbe adottare la posizione ufficiale. Sarebbe un atteggiamento onesto, almeno se accompagnato dal rifiuto di partecipare al cinico gioco di atteggiarsi a posizioni ipocrite e maneggiare i principi del diritto internazionale come un'arma fortemente selettiva contro i nemici mutevoli.

Sotto Clinton il disprezzo dell'ordine mondiale si è estremizzato a tal punto da diventare di interesse persino per gli analisti politici più spudorati. Nell'ultima uscita del giornale istituzionale più importante, il Foreign Affair, Samuel Huntigton avverte che Washington sta seguendo una strada pericolosa. Negli occhi di buona parte del mondo – probabilmente la maggior parte del mondo, suggerisce – gli USA stanno “diventando l'infame superpotenza”, considerata “la maggiore minaccia individuale alle loro società”. Una realistica “teoria delle relazioni interne”, sostiene Huntigton, preannuncia che possano sorgere coalizioni per controbilanciare tale superpotenza. Sul piano pragmatico, quindi, l'atteggiamento dovrebbe essere riconsiderato. Gli americani che preferiscono una immagine diversa della loro società possono cercare una riconsiderazione su un piano diverso da quello pragmatico.

Come rimane la domanda di che cosa fare in Kosovo? Rimane senza riposta. Gli Stati Uniti hanno scelto una linea di condotta che, come esplicitamente riconoscono, intensifica “prevedibilmente” le atrocità e la violenza; una linea di condotta che sferra un altro duro colpo contro il regime dell'ordine internazionale, debole e per lo meno limitata forma di protezione dagli stati oppressori. Nel lungo termine le conseguenze sono imprevedibili. Una osservazione plausibile è che “ogni bomba caduta sulla Serbia e ogni uccisione etnica in Kosovo suggeriscono che sarà molto difficile per serbi e albanesi vivere gli uni accanto agli altri in una sorta di pace” (Financial Times, 27 marzo). Alcune delle conseguenze possibili a lungo termine sono estremamente preoccupanti, cosa che non è passata inosservata.

Una giustificazione standard è che dovevamo fare qualcosa: non avremmo potuto semplicemente stare a guardare la prosecuzione delle atrocità. Questo non è mai vero. Una scelta è, in ogni caso, quella di seguire il principio ippocratico: “Per prima cosa non arrecare danno”. Se non riesci a pensare a un modo di aderire a questo principio elementare, allora non fare nulla. Ci sono sempre strade da prendere in considerazione. La diplomazia e i negoziati non sono mai giunti alla fine.

Il diritto all'”intervento umanitario” sarà probabilmente il più invocato negli anni a venire – magari con una giustificazione, magari no – ora che i pretesti della Guerra Fredda hanno perso di efficacia. In un'epoca come questa, potrebbe valere la pena di prestare attenzione alle posizioni dei commentatori che godono di elevato rispetto – per non parlare del Tribunale Internazionale, che ha decretato in modo esplicito su questa materia con una decisione rifiutata dagli Stati Uniti, la cui importanza non ha bisogno di ulteriori discorsi.

Nelle discipline erudite degli affari internazionali e del diritto internazionale sarebbe difficile trovare voci più rispettabili di Hedley Bull o Leon Henkin. Bull avvertì 15 anni fa che “stati particolari o gruppi di stati che si autoproclamano giudici autoritari del bene comune mondiale, in spregio alle vedute degli altri, sono di fatto una minaccia all'ordine internazionale, e quindi a una effettiva azione in questo campo.” Henkin, in un noto lavoro sull'ordine mondiale, scrive che “le pressioni che erodono il divieto all'uso della forza sono deplorabili, e gli argomenti per legittimare l'uso della forza in queste circostanze sono pericolosi e non convincenti […] Le violazioni dei diritti umani sono già fin troppo comuni, e se fosse permesso porvi rimedio mediane l'uso esterno della forza, non ci sarebbe legge a impedire l'uso della forza di praticamente qualsiasi stato contro qualsiasi altro. I diritti umani, credo, devono essere rivendicati e deve essere posto rimedio alle altre ingiustizie in modi diversi, pacifici, senza aprire la porta all'aggressione distruggendo il progresso nei principi del diritto internazionale, la messa al bando della guerra e la proibizione dell'uso della forza.”

I principi riconosciuti del diritto internazionale e dell'ordine mondiale, i vincoli solenni dei trattati, le decisioni del Tribunale Internazionale, i pronunciamenti dei commentatori più rispettati – queste cose non risolvono automaticamente i problemi particolari. Ogni questione deve essere considerata nel merito. Per coloro che non adottano il modello di Saddam Hussein, c'è un grosso peso da portare se si sceglie la strada della minaccia o dell'uso della forza in violazione dei principi dell'ordine internazionale. Forse il peso è sostenibile, ma deve essere dimostrato, non solamente proclamato con retorica appassionata. Le conseguenze di tali violazioni devono essere valutate accuratamente – in particolare quello che sappiamo essere “prevedibile”. E per coloro che conservano un minimo di serietà, anche le ragioni dell'azione devono essere valutate: anche qui, non semplicemente con l'adulazione dei nostri leader e della loro “bussola morale”.