Considerazioni sulla guerra

Lanfranco Caminiti - Roma, 6 maggio 1999


La lingua della guerra

Questa è una guerra della lingua, una guerra nella lingua, una guerra
attraverso la lingua. Prima ancora di essere un imbroglio del diritto
internazionale è un imbroglio delle parole e dei loro significati. Ci
viene detto: la guerra per la pace, la forza per i deboli, l'ingerenza
umanitaria, gli effetti collaterali, gli ordigni soft. Questa guerra
si combatte per ossimori e metonimie. L'ingerenza semantica ("la
guerra nella pace") anticipa, veicola e giustifica l'intervento
bellico. E' un passaggio dalla retorica della guerra come l'ha vissuta
il  Novecento a un esercizio abitudinario della lingua comune: il
Novecento ci ha abituato a un'idea della guerra accompagnata da
mobilitazioni di massa, da interventismi, da adunate oceaniche e
coreografie militaresche, insomma da un rapporto stretto, eccezionale
tra "discorso della guerra" e "azione della guerra" (il balcone, gli
altoparlanti e la radio di Mussolini, il cinema della von Riefensthal
e le parate nazionalsocialiste): l'ambiente semantico della guerra era
definito in uno scenario generale in cui il discorso comune veniva
proiettato, condotto, esaltato, univocizzato, "violentato" o
"sollevato". 

Qui, ora non è più così: qui, ora la lingua viene messa al lavoro
direttamente, dal suo interno, dai suoi riferimenti, dalle sue radici,
dai suoi significati, stravolgendoli, inframmezzandoli,
circoscrivendoli, impedendone le distinzioni. Lavorandoli. La
flessibilità linguistica è messa al servizio della inflessibilità
bellica. La guerra non è mai stata "dichiarata" (come invece in uno
dei più famosi discorsi di Mussolini: "... la dichiarazione di guerra
è stata consegnata agli ambasciatori di...") in una ufficialità
linguistica, perché l'eccezionalità linguistica la definirebbe
nettamente. La normalità di questa guerra invece deriva direttamente
dalla sua normalizzazione linguistica. E' qualcosa di diverso quindi
dallo strappo, dalla mobilitazione, dalla definizione di uno scenario:
è la collocazione della guerra come evento comune "dentro" la
normalità del linguaggio, "dentro" la normalità quotidiana, "dentro"
la normalità della produzione. "Dentro" l'Impero. La guerra fa parte
delle cose, questa guerra fa parte delle cose. La stupefazione comune
di fronte a un evento straordinario quale la guerra viene messa a
tacere con un esercizio della tonalità discorsiva che non è mai
eccezionale, retorico. Briefing quotidiani condotti con estrema
tranquillità, brevi dichiarazioni in una soffusa aura di semplicità,
conferenze stampa in cui l'angoscia, il timore, la preoccupazione,
l'indignazione non trovano mai espressione linguistica (a parte Harold
Pinter) né nelle domande né nelle risposte. Tutto è sotto controllo
linguistico. Si sta solo facendo un "lavoro". Si sta solo facendo un
lavoro. L'accento cokney, da proletario di quartiere londinese, del
portavoce Nato James Shea dovrebbe renderlo perfino "simpatico". 
Sottrarre le parole della guerra ai loro significati comporta due
effetti stranianti: il primo è quello dell'assenza di un "nemico"
nominativamente preciso, quindi di un obiettivo preciso. E' solo
un'ottusa ostinazione quella che va ricondotta alla ragione, un
inceppamento del meccanismo normale dei flussi, una strozzatura
improvvisa su cui operare. L'assenza di esaltazione della nemicità ha
però il terribile effetto di non definirla esattamente; in questo
senso non avendo "dichiarato" il nemico, non avendone definito i
contorni, è "tutta quella cosa lì" che va sistemata: una guerra non
dichiarata, non detta, una guerra dove non ci sono le parole per
definire il nemico, non ha distinzioni linguistiche per "popolazione
civile" e "obiettivi militari", per "impianti di produzione" e
"strutture belliche". Mentre nella guerra contro Saddam si continuava
a giustificare il bombardamento di un deposito farmaceutico come
"sospetto" di essere in realtà luogo di fabbricazione di armamenti
chimici (una parola ne nascondeva un'altra, un significato ne
mascherava un altro), qui ormai è "tutta quella cosa lì" che è
palesemente fuori regola, ambulanze, civili, radio e tv, ponti,
militari serbi, profughi, Kosovo e Serbia e Montenegro, i Balcani
insomma. La "società belligerante" serba va tutta estirpata (mi fa
davvero senso ritrovare un concetto che ho usato durante lo scontro di
classe degli anni Settanta in Italia, quello della "società
belligerante", per descriverne il conflitto, adesso in mano di
analisti americani per giustificare l'annichilimento della Serbia). E'
un salto rispetto la retorica del processo di Norimberga e le migliori
intenzioni dei tribunali internazionali: adesso il criterio esplicito
è che "nessuno poteva non sapere e reagire, quindi è corresponsabile".
Tutto è  nemicità se niente è specificamente nemicità. Tutto è
obiettivo. La logica degli scudi umani che usava Saddam è già saltata
a piè pari. Cazzi loro.

L'altro effetto straniante è quello della difficoltà di usare le
parole opposte alla guerra, quelle di pace, diplomazia, trattato,
sospensione. La flessibilità linguistica bellica usa già tutte queste
altre parole decontestualizzandole dai loro significati e inserendole
nel flusso linguistico della guerra: nessuna di queste parole riesce a
fermare la guerra perché la guerra agisce già attraverso queste
parole. Il flusso linguistico della guerra corre attraverso la rete
dei significati delle altre parole, di quelle che le erano opposte. Il
pudore e il disagio che si ritrovano a usare parole opposte alla
guerra (la pace) derivano dal sentirle prive di significato, "occupate
militarmente" dalla guerra. La guerra ha esteso il suo protettorato
linguistico sulle altre parole. Queste parole, resistenza, pace, hanno
adesso senso solo se usate dentro un'altra lingua, dentro dialetti,
dentro etnie, ma qui ognuna significa l'opposto dell'altra. La parola
"pace" come la parola "resistenza" suonano diversamente, significano
cose opposte per un serbo e per un albanese. Ma non è l'osservazione
che la linea della guerra traccia significati differenti, mappa
steccati linguistici: chi ricorda Remarque sa che le parole di  pace e
di odio della guerra significavano lo stesso di qua e di là, chi ha
visto "La grande illusione" di Renoir sa che l'insensatezza della
guerra era vissuta egualmente di qua e di là. E' che l'Impero ha
costruito la sua lingua universale, la neo-lingua orwelliana, in cui
le parole di pace e di guerra sono gestite direttamente e manipolate
nello stesso flusso linguistico; e solo alle etnie, ai dialetti, alle
lingue territoriali sono lasciati i significati linguistici
differenti. In questa deterritorializzazione dei significati delle
parole condotta dall'Impero linguistico, e in questa
riterritorializzazione condotta dai nazionalismi, parlare, dire in
modo universale è impossibile. A ciascuno la sua lingua.

Il tempo della guerra

Fin dall'inizio della guerra il suo tempo è stato sottratto a
qualunque misurazione. Non solo per gli aspetti dell'incommensurabile
legati alle tecnologie, quelli dell'impressionante relazione tra
l'individuazione di un obiettivo, la sua messa in mirino e la sua
distruzione, quelli cioè dell'"attimo"; oppure, all'opposto quelli
della durata, ad esempio relativamente agli effetti di rilascio della
radioattività di una bomba all'uranio, calcolato in un milione e mezzo
di anni. Tra questi due incommensurabili si muove la distruzione. Non
c'è altro "durante", l'unico durante che si riesce a concepire è una
continuità dell'elemento distruttivo, una sequenza di attimi
distruttivi o un rilascio di radioattività per l'"eterno".
L'accelerazione della distruzione ha un suo alleato nella lentezza
della distruzione. Il durante è sottratto alla misurazione umana,
manuale. La durata ha carattere indefinito e la sua unica definizione
è data dal carattere definitorio della distruzione. Solo quando tutto
sarà distrutto tutto sarà finito. Perché tutto finisca, perché il
tempo finisca, tutto deve essere distrutto.

Questa compressione e dilatazione del tempo, questa accelerazione
e questa eternità, quella stessa che osserviamo nei flussi della
produzione, ha dunque carattere combinatorio. Il tempo della
guerra è adesso ma è anche dopo, è dopo ma è anche adesso. Fin
dall'inizio della guerra lo scenario in cui s'è mossa la politica
internazionale è stato quello del dopo-guerra, ma non nel senso di
immaginare delle azioni atte a definire la fine della guerra e
l'inizio di un tempo successivo, ma piuttosto nel senso di agire
dentro la guerra come se si fosse già nel dopo-guerra. Le continue
dichiarazioni tranquillizzanti del nostro ineffabile presidente
del Consiglio, i piani di pace preparati dall'adesso elegante
ministro tedesco degli Esteri Fisher, le elusive prese di
posizione di buona parte della cultura europea, le manovrine della
diplomazia internazionale si collocano in un tempo parallelo, in
una dimensione altra del tempo, quella appunto del dopo-guerra,
come se in questa altra dimensione ci fosse del tempo disponibile
perché indefinito dato che l'altro tempo, quello della guerra, è
tutto occupato dall'attimo all'eterno. Qui, Clinton può dichiarare
i suoi piani di ricostruzione, prestare attenzione ai russi,
ascoltare gli alleati europei, rispondere con sofferenza alla
gerarchia ecclesiale cattolica e ortodossa. La combinazione del
tempo nella guerra, l'arte combinatoria del tempo della guerra,
rilascia tempo per una dimensione virtuale del dopo-guerra.
Muoversi nel tempo del dopo-guerra, anzi inquadrare in questo
tempo le azioni di guerra, è come minimizzarle. E' come
minimizzare l'intanto, l'adesso, il durante. Comprimerlo fino a
renderlo irriconoscibile. C'è un continuo slittamento del tempo
della guerra nella dimensione del dopo-guerra. Che intanto la
guerra continui, che non si trovi un tempo adesso per fermarla,
per dichiararsene fuori e contro, non conta. Bisogna muoversi nel
dopo-guerra perché questo giustifica la presenza nel tempo di
guerra. Non si possono lasciare a se stessi i profughi, i serbi e
la ricostruzione. Che sia la guerra di adesso a provocare tutto
questo non conta. L'ossessione (quanto disastrosa nella storia
d'Italia) è sedersi al tavolo degli Alleati per discutere del
dopo-guerra, e si discute adesso intanto che la guerra è. La
guerra non continua, la guerra è. Anche qui, come per il
linguaggio, il suo tempo diventa quotidiano, diventa perpetuo. La
proposizione kantiana per una pace perpetua si rovescia nel suo
opposto. A noi resta non il tempo della pace, ma quello del
dopo-guerra. Noi possiamo sperare non che si instauri la pace, ma
che venga il dopo-guerra. Ovvero, che la guerra abbia il suo corso
e il suo tempo. E' questo che ci ripetono tutti i belligeranti per
ragioni umanitarie. Invece dell'Apocalisse la ricostruzione.


I corpi della guerra

Questa guerra è immateriale e senza corpi, questa guerra è concreta e
i corpi vengono esibiti. L'immaterialità delle azioni di guerra viene
data dalla continua distinzione della guerra dal cielo dalla guerra on
the ground, quella di terra. L'immaterialità di questa guerra sta nel
suo elemento aereo e celeste, nel suo simigliare ad Ariel e non a
Calibano mentre la tempesta infuria. Nel configurare l'immaginario, il
segno della guerra, gli effetti della guerra sono secondari rispetto
al gesto della guerra, al movimento della guerra, alla provenienza
dell'azione di guerra. Che la guerra sia distruzione appartiene
contemporaneamente alla ragione e all'istinto, alla strategia e alla
tattica, non configura la forma dell'immaginario sebbene  il discorso,
la comunicazione sociale costruisca poi trama. Lo stupore davanti al
fungo atomico è altra cosa dall'orrore o dal calcolo dei suoi effetti.
La Prima guerra mondiale, ad esempio, porta il segno della trincea. La
trincea è il suo segno, la sua forma. Dalla trincea si assalta, nella
trincea si vive prima dell'assalto, in trincea ci si ribella e si
costituisce coscienza, alla trincea si torna persino dopo i
combattimenti massicci dispiegati (come Verdun). La battaglia è palmo
a palmo, come nel Carso. Il fango della trincea si imprimerà nella
memoria storica e la letteratura, il cinema, la narrazione orale con
esso costruiranno l'immaginario. Qui, ora la materia è aerea e
volatile, qui la forma dell'immaginario ha la stoffa dei nostri
incubi. Questo ricetto dei corpi assegnati alla guerra (i corpi
militari, quelli alleati invisibili o senza perdite statisticamente
significative, ma persino l'esercito serbo non si vede) ci dovrebbe
tranquillizzare sulla sua consistenza ridotta dato che non ci sono i
corpi della guerra a scontrarsi proprio mentre esalta la magnitudine
degli effetti devastanti sui corpi qualunque. Qui, i corpi vengono
esibiti, ma solo in quanto vittime da una parte o dall'altra (i
profughi in viaggio di qua e di là, corpo materiale delle
selvatichezze serbe, le bombe a caso con uccisi innocenti, corpo
materiale delle selvatichezze alleate). I corpi materiali sono solo
vittime, e solo in quanto vittime (o prigionieri) si diventa materiali
e si viene esibiti.

L'immaterialità della guerra si riferisce ai corpi solo se questi
sono corpi del dopo-guerra. Le vittime non sono quelle provocate
direttamente dai raid aerei ma quelle che vi pre-esistono o vi
susseguono. I corpi sono insignificanti rispetto le strutture. La
guerra del cielo trova la sua materia non nei corpi nemici ma
nelle strutture. Un ponte può saltare benché sopra vi viaggino dei
profughi, un convoglio può essere colpito indipendentemente dai
suoi componenti, persino un'ambulanza può beccarsi una bomba
perché è visibile, i palazzi saltano, dei ministeri, della tv, gli
impianti, non importa se abitati, se vissuti, se zeppi di corpi.
Solo le strutture sono "visibili" dall'alto: nella logica
immateriale della guerra del cielo, di questa Apocalisse i corpi
non sono calcolati e calcolabili, sono sempre e comunque un
effetto collaterale, insignificanti. I corpi delle vittime sono
sottoposti al controllo, non all'annientamento. I rilevamenti
satellitari permettono (attraverso il calore dei corpi, suppongo,
e la forma assunta da decine di migliaia di corpi in movimento in
fotografie sempre più ridotte) l'individuazione dei corpi e il
loro controllo. I corpi delle vittime vengono ammassati, spinti,
spostati, trasferiti, impiantati, spiantati, rifocillati, curati,
piagati, separati, riuniti, smaterializzati, in un orrore da
"lager mobile". Smaterializzati. Essi sono già corpi del
dopo-guerra. Privati del riferimento al territorio verranno
reinnestati "dopo". Questa guerra combina le forme tipiche della
distruzione bellica con le forme del controllo di polizia. Le
strutture appartengono alla guerra del cielo che "non vede" ed è
indifferente ai corpi; i corpi appartengono alle operazioni di
polizia che "non vede" ed è indifferente al territorio. Fermare la
guerra con i nostri corpi, come nella Prima guerra mondiale, mi
sembra  davvero difficile. I nostri corpi non riescono a
materializzare questa guerra. Ai nostri corpi sono affidati solo i
corpi delle vittime, gli unici materiali, da curare, assistere,
forse anche controllare.

La guerra di terra, come ho già detto, forse non ci sarà.
L'immaterialità della sua forma nell'immaginario sopravanza e
impastoia intanto l'urgenza di fare ora. La supposta materialità
dell'intervento di terra costruisce il tempo del "dopo". A un suo
disinnesco si appigliano la politica e la diplomazia per rendere
indifferente e digeribile l'adesso. L'accumulazione di truppe, che
è adesso, vive nel tempo del "dopo", nel senso che prepara la
gestione del dopo-guerra (un protettorato nel Kosovo? una gestione
militare di tutta l'area dei Balcani?) e nel senso che è una
minaccia nel presente. La guerra è intanto. La sua concretezza ha
effetti disastrosi enormi (in vite, in ambiente, in strutture, in
scenari) che sono già intanto.

un miracolo

Un miracolo è dunque quello che ci serve, lo straordinario, il mai
visto, l'inimmaginabile, l'insolito, quanto è fuori della nostra
portata. La politica, cioè. Pervasa non più dalla volontà di potenza
ma dal delirio di impotenza. Nell'epoca dell'Impero non ci sarà più
possibile fare ricorso alla nostra Wille zur Macht, alla potenza della
nostra soggettività, alla politica come forma della volontà, perché
essa è tutta abitata dall'arbitrio (la mediazione del diritto come
terreno delle volontà è completamente stritolata dall'arbitrio che non
consente mediazioni). L'arbitrio costruisce ambienti hobbesiani di
conflitto generalizzato per poterli regolare e fondare sovranità.
Questa sovranità dell'Impero si conferma nell'esercizio del proprio
arbitrio. 

La politica che possiamo regolare nasce dalla cooperazione della
nostra impotenza. Davvero però il ricorso alla nostra corporeità è
possibile solo nei confronti delle forme del controllo piuttosto che
nei confronti della guerra. Con i nostri corpi possiamo agire verso le
vittime non contro i carnefici. Manifestare è cosa buona e giusta, ma
non basta. E' quindi importante dare forma alla disponibilità verso le
vittime, sottraendoli quanto possibile al controllo, al "dopo-guerra",
con la coscienza di un impegno duro, di una lotta, di una battaglia in
questo. Non basta e non è possibile solo il gesto solidale: esso è
troppo vicino alle forme del controllo. Bisogna sottrarre i corpi, i
nostri e quelli delle vittime a questo. L'impegno "umanitario",
l'impegno "volontario", l'impegno "non-governativo", l'impegno del
"terzo-settore" parlano vocaboli di una lingua già pervasa dalla
guerra e dal controllo. Le retrovie e la ricostruzione sono appunti i
loro luoghi e il loro tempo.

Un miracolo di politica basta sulla cooperazione dell'impotenza. E
sull'urgenza come suo tempo perpetuo. L'urgenza, l'immediato deve
essere il suo tempo. Il miracolo richiede l'assoluto e investe la
politica del relativo. Oggi non c'è altro tempo, altro riferimento,
altra lingua che quello della guerra. Non ci è dato parlare d'altro
perché altrimenti il miracolo non si rivela. Esso richiede forme della
cooperazione (la costituzione immediata di un forum, di un cartello,
di una associazione con strutture, coordinamenti, campagne ecc.) e
forme della dismissione. La cooperazione dell'impotenza, la politica
della non-potenza, il miracolo possono nascere mettendo a frutto la
straordinarietà del quotidiano, l'enorme molecolarità del quotidiano.
I suoi gesti devono articolarsi attraverso il criterio della
disobbedienza civile. La diserzione non può essere altrui, non può
essere dei corpi della guerra: questi sono immateriali e invisibili o
destinati al dopo-guerra. Non ci sono tradotte "che van in montagna"
da fermare o trincee da cui scappare. La diserzione deve essere
civile, la diserzione deve essere politica, la diserzione deve essere
sociale. La diserzione dev'essere nostra nella forma della
disobbedienza, della politica.

Chi ritiene che questa sia una guerra contingente, chi ritiene che ci
si trovi solo di fronte alla contingenza d'una guerra, non ha capito,
credo, la costituzione dell'Impero. Continuerà ad agire come se ci
trovassimo in un tempo "altro".

Un miracolo della politica è dunque possibile, la politica del
miracolo è praticabile. Investire la politica della nostra impotenza è
possibile. La fragilità degli Alleati è enorme sul terreno della
politica tanto quanto è enorme la sua potenza sul terreno della
guerra. La fragilità dei governi alleati nasce tutta dall'avere
sussunta l'opposizione e la sua rappresentanza piuttosto che espulsa e
circoscritta all'esterno come nella "guerra fredda". Qui bisogna
agire, qui l'assoluto deve investire il relativo.

L'Impero è solo una immateriale "tigre di carta". I serbi lo sanno
bene. Se continuano a resistere. Miracolosamente.