Fonte: T a c t i c a l M e d i a C r e w
Da James Rubin a Christiane Amanpour, gran parte dei governi e dei media è unita nel chiedere che la NATO bombardi la Serbia. È necessario, ci dicono, per "evitare una catastrofe umanitaria" e perché "la sola lingua che Milosevic intende è la forza"... guarda caso, la lingua che gli Stati Uniti vogliono parlare. Il Kosovo viene presentato come il problema, e la NATO come soluzione. In realtà, la NATO è il problema e il Kosovo la soluzione. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la NATO aveva bisogno di un nuovo pretesto per pompare risorse nel complesso dell'industria militare. Grazie al Kosovo, tra un mese la NATO potrà celebrare il proprio 50° anniversario consacrando la sua nuova missione globale: intervenire ovunque nel mondo per ragioni umanitarie. La ricetta è semplice: armare un gruppo di estremisti secessionisti perché sparino ad alcuni poliziotti, descrivere l'inevitabile rappresaglia della polizia come "pulizia etnica", promettere ai ribelli che la NATO bombarderà il loro nemico se gli scontri proseguiranno, e poi sostenere che lo scempio che ne risulta costituisce una sfida alla "risoluzione" della NATO che va affrontata con un'azione militare. Grazie al Kosovo, la sovranità nazionale sarà un retaggio del passato; non certo per grandi potenze come gli Stati Uniti e la Cina, ma per gli stati deboli che ne hanno realmente bisogno. I confini nazionali non saranno d'ostacolo all'intervento della NATO. Grazie al Kosovo, gli Stati Uniti potranno controllare il tratto finale, tra il Mar Nero e l'Adriatico, degli oleodotti che portano il petrolio caspico. In questo modo si estenderà anche l'influenza sull'Europa di un promettente alleato, la Turchia. Lo scorso 23 Febbraio, James Hooper, direttore esecutivo del Balkan Action Council (Consiglio di Azione sui Balcani), uno dei molti istituti di ricerca spuntati per giustificare la trasformazione in corso della ex Iugoslavia in protettorati della NATO, ha tenuto un discorso all'Holocaust Museum di Washington, su invito del suo "Comitato di Coscienza". La prima voce nella lista delle "cose da fare subito" era questa: "Accettare che i Balcani sono una regione di interesse strategico per gli Stati Uniti, una nuova Berlino se volete, il terreno su cui si misura la fermezza della NATO e la leadership USA. [...] L'amministrazione deve dire al popolo americano che probabilmente occorrerà intervenire militarmente nei Balcani per un tempo indefinito, almeno finché a Belgrado non ci sarà un governo democratico." Nel Medioevo i crociati lanciavano le loro conquiste dai pulpiti delle chiese. Oggi la NATO lo fa dal Museo dell'Olocausto. La guerra deve essere sacra. Questa sacralizzazione è stata largamente facilitata da una sinistra post-comunista rifugiatasi nel moralismo e nella politica dell'identità, escludendo qualsiasi analisi dei fattori economici e geopolitici che continuano a determinare le macropolitiche che regolano il mondo. Jean-Christophe Rufin, ex vice presidente di "Medici Senza Frontiere" di recente ha sottolineato la responsabilità delle organizzazioni umanitarie non governative nel giustificare l'intervento militare. "Sono state le prime a deplorare la passività della risposta politica ai drammatici eventi nei Balcani e in Africa. Adesso hanno ottenuto ciò che volevano, o così sembra. Perché in pratica, entrare in confidenza con la NATO potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso." Già l'appello affinché soldati delle Nazioni Unite intervenissero in missioni umanitarie aveva sollevato sospetti nel Terzo Mondo che "gli umanitari potessero essere il cavallo di Troia di un nuovo imperialismo armato", ha scritto Rufin su "Le Monde". Ma la NATO è un'altra cosa. "Con la NATO, tutto è cambiato. Qui si tratta di una pura alleanza militare operativa, creata per reagire ad una minaccia, cioè ad un nemico", ha proseguito Rufin. "La NATO definisce un nemico, lo minaccia, infine colpisce e lo distrugge. "Mettere in moto una macchina del genere richiede un detonatore. Oggi non è più militare. E nemmeno politico. La prova è davanti a noi: il grilletto della NATO oggi è... umanitario. Serve il sangue, un massacro, qualcosa che indigni l'opinione pubblica al punto da farle accettare di buon grado una reazione violenta." La conseguenza, ha concluso Rufin, è che "in Kosovo le popolazioni civili potenzialmente non sono mai state così minacciate come oggi. Perché? Perché quelle vittime potenziali sono la chiave della reazione internazionale. Bisogna essere chiari: l'Occidente vuole cadaveri. [...] Li stiamo aspettando in Kosovo. Li avremo." Chi ucciderà è un mistero ma gli avvenimenti passati suggeriscono che "la minaccia viene da tutte le parti." Nel cuore di un conflitto come in Kosovo, un massacro può essere facilmente perpetrato ... o "predisposto". Ci sono sempre troupe televisive in cerca proprio della "notizia principale". Recentemente, alcuni funzionari croati hanno ammesso che nel 1993 essi stessi avevano inscenato un "bombardamento serbo" della città costiera croata di Sibenik a beneficio della televisione locale. L'ex comandante della 113ˆ Brigata Croata, Davo Skugor, ha reagito con sdegno. "Perché tanto clamore? Non esiste città in Croazia in cui certi trucchi tattici non siano stati utilizzati. Dopo tutto, sono parte integrante del piano strategico. È solo uno di una serie di stratagemmi cui abbiamo fatto ricorso durante la guerra." Resta il fatto che esiste un gravissimo problema Kosovo. Esiste da più di un secolo, di solito aggravato dalle potenze esterne (Impero Ottomano, Impero asburgico, le forze dell'Asse durante la Seconda Guerra Mondiale). I Serbi sono essenzialmente un popolo di contadini modernizzato che, dopo essersi liberato dell'oppressione turco-ottomana nel 19° secolo, si è legato alle istituzioni dello Stato moderno. Per contro, gli Albanesi delle montagne del nord dell'Albania e del Kosovo non hanno mai realmente accettato qualsiasi legge al di sopra del loro non scritto "Kanun", basato sull'obbedienza patriarcale ai giuramenti, sull'onore della famiglia, su obblighi complicati; il tutto fatto valere non da un governo, ma dai maschi della famiglia e dai capi clan che proteggono il proprio onore, anche con la pratica di faide e vendette. Il problema fondamentale del Kosovo è la difficile coesistenza su un territorio di comunità etniche separate in maniera radicale da costumi, lingua e auto-identificazione storica. Da un punto di vista umanitario, questo problema è più importante di quello dei confini di Stato. L'odio reciproco e la paura sono la vera catastrofe umana in Kosovo. È una situazione che va avanti da molto tempo e che negli ultimi anni è peggiorata. Perché? Due fattori risaltano come responsabili paradossali di questo peggioramento; paradossali perché presentati al mondo come fattori che avrebbero dovuto migliorare le cose. 1 - Il primo è la costituzione nel Kosovo autonomo degli anni '70 e '80 di istituzioni culturali albanesi separate, in particolare la Facoltà di Lingua Albanese all'Università di Pristina. Questa autonomia culturale, richiesta dai leader etnici albanesi, si è rivelata un passo non verso la riconciliazione tra le due comunità, ma verso la loro totale separazione. Basati su una scorta relativamente modesta di vecchi studi in larga parte di origine austriaca, tedesca o dell'Albania di Enver Hoxha, gli studi di storia e letteratura albanese si sono ridotti soprattutto alla glorificazione dell'identità albanese. Piuttosto che sviluppare uno spirito critico, hanno contribuito ad un gretto etnocentrismo. I laureati in queste materie venivano preparati il primo luogo per la carriera di leader politico nazionalista, e sorprende il numero di letterati tra i leader secessionisti albanesi del Kosovo. L'autonomia culturale portata all'eccesso ha creato due popolazioni prive di una lingua comune. In retrospettiva, ciò che andava fatto era combinare studi serbi e albanesi, obbligando l'approfondimento di entrambe le lingue, e promuovendo nuovi studi comparativi di storia e letteratura. Questo avrebbe sottoposto sia i miti nazionali serbi che albanesi all'esame reciproco e contribuito a rettificare i pregiudizi nazionalistici di entrambi. Lo studio comparativo bilingue poteva e avrebbe dovuto costituire una via verso la comprensione reciproca, oltre ad essere un arricchimento della cultura universale. Al contrario, la cultura al servizio della politica dell'identità porta all'ignoranza reciproca e al disprezzo. La lezione di questo grave errore dovrebbe essere intesa ovunque come un monito, a partire dalla Macedonia, dove i nazionalisti albanesi protestano perché anche a Tetova venga ripetuta l'esperienza di Pristina. Altri Paesi con popolazioni etniche miste dovrebbero ricordarsene. 2. Il secondo fattore è stato il sostegno di potenze straniere, specialmente degli Stati Uniti, alla causa nazionalista albanese in Kosovo. Con l'accettazione acritica della versione sulla complicata situazione in quella regione presentata dalla lobby albanese, i politici americani hanno fortemente inasprito il conflitto, incoraggiando i ribelli albanesi armati e spingendo le autorità serbe ad azioni drastiche per spazzarli via. L'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK) non ha niente da perdere nel provocare scontri sanguinosi, una volta chiaro che il numero di vittime e rifugiati si aggiungerà al bilancio della "catastrofe umanitaria" che porterà le forze aeree della NATO e degli Stati Uniti nel conflitto dalla parte albanese. I Serbi non hanno nulla da guadagnare da una posizione moderata, una volta chiaro che comunque saranno sempre ritenuti responsabili di qualsiasi cosa accada. Con l'identificazione degli Albanesi come "vittime" in se, e dei Serbi come cattivi, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno reso virtualmente impossibile ogni posizione politica leale e moderata. L'amministrazione Clinton in particolare basa la propria politica sul presupposto che ciò che gli Albanesi kosovari, UCK compreso, vogliono davvero è la "democrazia" in stile americano. In realtà, ciò che vogliono è il potere su un territorio particolare, e tra i nazionalisti albanesi è in corso un'aspra lotta su chi eserciterà quel potere. Così, il mito americano del "democrazia stile USA ed economia di libero mercato risolveranno tutto" viene aggiunto ai miti serbi e albanesi e va a formare uno schermo di finzioni che rende quasi impossibile capire la realtà, e tanto meno migliorarla. Sotto il mito americano ci sono disegni geopolitici stile Brzezinski riguardanti possibili strade per gli oleodotti verso il petrolio caspico e una metodologia per espandere la NATO a strumento che assicuri l'egemonia degli Stati Uniti sul territorio euroasiatico. Se per qualche miracolo, il mondo all'improvviso si capovolgesse e vi fossero potenze straniere a cui veramente importasse il destino del Kosovo e dei suoi abitanti, si potrebbe suggerire quanto segue: 1 - smettere la demonizzazione unilaterale dei Serbi; riconoscere le vere qualità, le colpe e le paure di entrambe le parti, e lavorare per promuovere la comprensione invece dell'odio; 2 - smettere di incoraggiare e armare i gruppi ribelli; 3 - permettere una mediazione autentica da parte di chi in quella regione non ha interessi geostrategici o politici in gioco. ---------------------------------------------------------------- Diana Johnstone was the European editor of In These Times - http://www.inthesetimes.com - from 1979 to 1990, and press officer of the Green group in the European Parliament from 1990 to 1996. She is author of The Politics of Euromissiles: Europe in America's World (Verso/Schocken, 1984) and is currently working on a book on the former Yugoslavia. This article is an expanded version of a talk given on May 25, 1998, at an international conference on media held in Athens, Greece.