"Non si uccide così la pace"

L'ex presidente Usa Carter: mezzi sbagliati per un fine giusto

Fonte: La Stampa 28 maggio 1999 - Jimmy Carter



DOPO la guerra fredda, molti si aspettavano che il mondo sarebbe entrato in 
un'era di pace e prosperità senza precedenti.  Chi vive nei Paesi 
sviluppati potrebbe pensare che oggi sia proprio così, con l'eccezione 
della guerra nel Kosovo.  Al Centro Carter però noi registriamo tutti i 
conflitti gravi al mondo e la realtà è che il loro numero è cresciuto in 
modo drammatico.

Uno dei motivi è che le Nazioni Unite erano state pensate per contenere i 
conflitti internazionali, mentre quasi tutte le guerre attuali sono guerre 
civili nei Paesi in via di sviluppo.  Questo crea un vuoto nei processi di 
pacificazione che viene spesso riempito dalle nazioni potenti, che si 
concentrano sui conflitti che interessano loro, come quelli in Iraq, Bosnia 
e Serbia.  Mentre la guerra in Kosovo infuria ed è sui giornali di tutto il 
mondo, conflitti ancora più distruttivi nei Paesi in via di sviluppo 
vengono sistematicamente ignorati.

Si può attraversare l'intera Africa, dal Mar Rosso alla costa atlantica 
sudoccidentale, senza mai fermarsi in uno territorio pacifico.  
Cinquantamila persone sono morte di recente nella guerra tra l'Eritrea e 
L'Etiopia e quasi due milioni nella guerra, durata 16 anni, nel vicino 
Sudan.  Quella guerra si è ora riversata in Uganda, le cui truppe si sono 
unite a quelle del Ruanda per combattere nella Repubblica Democratica del 
Congo (ex Zaire).  Anche l'altro Congo (Brazzaville) è devastato dalla 
guerra civile e tutti i tentativi di portare la pace in Angola sono 
falliti.  Nessuno sforzo paragonabile a quello nei Balcani, dove sono 
coinvolti europei bianchi, viene fatto dai leader non africani per 
risolvere quelle dispute.  Questo dà una forte impressione di razzismo.

Grazie al loro ruolo dominante nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni 
Unite e nella Nato, gli Stati Uniti tendono a orchestrare un processo di 
pace globale.  Purtroppo, molti di questi sforzi sono seriamente incrinati.  
Siamo sempre più inclini a mettere da parte i ben collaudati preliminari di 
un negoziato, che nella maggior parte dei casi prevengono il deterioramento 
di una brutta situazione e offrono almeno la prospettiva di una soluzione 
incruenta.  Leader screditati possono essere persuasi più facilmente usando 
contemporaneamente la minaccia delle conseguenze e la promessa di una 
ricompensa - come minimo, la legittimazione all'interno della comunità 
internazionale.

L'approccio che gli Stati Uniti hanno adottato di recente è stato quello di 
immaginare la soluzione che meglio si confà ai loro piani, ottenere un 
appoggio almeno tacito in qualunque consesso riescano a influenzare, 
mettere in campo una forza militare schiacciante, presentare un ultimatum 
alle parti recalcitranti e poi intraprendere l'azione punitiva contro 
l'intero Paese per forzarne il consenso.

Il risultato, spesso tragico, di questo modo di procedere è che i cittadini 
già oppressi soffrono, mentre l'oppressore può sentirsi libero da ulteriori 
conseguenze se compie crimini ancora peggiori.  Attraverso il controllo dei 
media, costui spesso riesce ad apparire come un eroe che difende la sua 
patria contro l'aggressione esterna e così allontana da sé l'esecrazione 
per i disastri economici e politici.

Le nostre intenzioni sono ammirevoli: incrementare la pace, la libertà, la 
democrazia, i diritti umani e il progresso economico.  Ma l'errore di 
metodo sta causando ora sofferenze ingiustificate e il rafforzamento di 
regimi ripugnanti.  In Serbia una comunità internazionale si pone 
l'ammirevole obiettivo di proteggere i diritti dei Kosovari e mettere fine 
alla brutale politica di Slobodan Milosevic.  Ma la decisione di attaccare 
l'intero Paese è stata controproducente e la nostra distruzione della vita 
civile è diventata insensata e troppo brutale.  E dopo più di 25 mila 
missioni e 14 mila tra missili e bombe, non c'è traccia di successo.

Quelli che dovevano essere pochi giorni di attacchi aerei sono diventati 
mesi, mentre più di un milione di kosovari è stato cacciato di casa, molti 
per non tornare mai più, neanche nelle migliori circostanze.  Con 
l'inclusione, tra gli obiettivi, delle zone abitate e l'uso delle bombe a 
grappolo, sono stati danneggiati ospedali, uffici e le residenze di una 
mezza dozzina di ambasciatori e sono stati uccisi centinaia di civili 
innocenti e un numero mai detto di soldati.

Anziché focalizzare l'attenzione sulle forze militari serbe, missili e 
bombe si stanno ora concentrando sulla distruzione di ponti, ferrovie, 
strade, centrali elettriche, depositi di carburante e acqua potabile.  I 
cittadini serbi raccontano che vivono ormai come cavernicoli e la loro 
tortura aumenta ogni giorno.  Non potendo più cambiare quello che è già 
stato fatto - e dovendo salvare la faccia - i leader della Nato hanno 
davanti a sé tre opzioni: continuare a bombardare finché la Jugoslavia 
(compreso il Kosovo e il Montenegro) sarà quasi completamente distrutta; 
contare sulla Russia per risolvere il problema attraverso la diplomazia 
indiretta; accettare che possano morire soldati americani e mandare le 
truppe di terra in Kosovo.

Finora abbiamo seguito la prima, e peggiore, opzione - e sembra che ci 
stiamo orientando verso la terza.  Nonostante le smentite, la recente 
decisione di spiegare una forza militare di cinquantamila uomini al confine 
con il Kosovo conferma che l'uso delle truppe di terra sarà necessario per 
assicurare il ritorno a casa degli albanesi.

Come siamo finiti in questo pasticcio?  Semplicemente ignorando alcune 
regole fondamentali.  Trascurare il negoziato paziente porta alla guerra, 
non alla pace.

Saltare il Consiglio di Sicurezza indebolisce le Nazioni Unite e spesso 
aliena i membri permanenti, potenzialmente assai utili nell'influenzare le 
parti in contrasto.

Escludere le Organizzazioni non governative dal processo di pace preclude 
vitali opportunità di un "secondo binario" per risolvere le dispute.  
Ignorare i gravi conflitti in Africa e in altre regioni sottosviluppate 
priva questi popoli della giustizia e dei diritti.

E' improbabile che anche la più dura punizione militare ed economica di 
cittadini oppressi induca i loro oppressori a piegarsi alle richieste 
americane.

L'insistenza degli Stati Uniti sulle bombe a grappolo, costruite per 
uccidere o menomare esseri umani, è condannata quasi universalmente e getta 
discredito sul nostro Paese (come lo getta il nostro rifiuto di appoggiare 
la messa al bando delle mine).  Anche per l'unica superpotenza del mondo, i 
fini non sempre giustificano i mezzi.

The New York Times-La Stampa