Fonte: il manifesto del 9 luglio 1999
La febbre dell'oro è passata
La Banca d'Inghilterra vende le riserve. Finisce un mito. Africa più che mai in crisi
- ANNA MARIA MERLO -
E' la fine definitiva del "vecchio avanzo barbarico" stigmatizzato da Keynes? Il prezzo dell'oro crolla (anche se ieri ha recuperato un po'), ai livelli più bassi da vent'anni, dopo che la Gran Bretagna ha messo all'asta, martedì 6 luglio, 25 tonnellate del prezioso metallo, una parte di quella metà delle riserve auree (415 tonnelate su 715 di stock) di cui Londra ha deciso di disfarsi. Secondo il cancelliere dello scacchiere Gordon Brown oggi ci sono investimenti molto più interesanti che una Banca centrale può fare, invece di tenere nelle casse il metallo che tanto ha pesato sulla storia umana.
La vendita britannica non è ancora nulla rispetto allo scenario che si profila per i prossimi mesi: è da due anni che è in corso un movimento internazionale che ha portato vari paesi a sbarazzarsi di una parte delle riserve d'oro, ma al plotone formato da Belgio, Argentina, Australia, Canada, Olanda, adesso, oltre alla Gran Bretagna si è aggiunta la Svizzera. Berna ha già annunciato che nel 2000 metterà sul mercato 1.300 tonnellate di oro, la metà delle sue riserve (la Svizzera sembra aver deciso di recuperare in tutta fretta il tempo perduto: solo nell'aprile scorso, con un referendum, ha messo fine alla parità oro-franco svizzero).
Un metallo ormai inutile
L'oro, che era considerato la principale fortezza contro l'inflazione, viene venduto, in un periodo in cui l'inflazione sembra del tutto sconfitta, per permettere una politica di rilancio: la Svizzera, difatti, utilizzerà buona parte dei proventi immettendoli nell'economia interna, mentre il resto andrà a finanziare una Fondazione a carattere umanitario, per aiutare persone e popoli in difficoltà.
Anche il Fondo monetario internazionale, dopo l'accordo sull'annullamento di parte del debito dei paesi meno avanzati raggiunto al G7 di Colonia il mese scorso, cederà tra il 5 e il 10% delle sue riserve auree (ma aveva già iniziato a vendere oro, 53 milioni di once dal '76 a oggi). I paesi produttori tremano. Tra l'altro, molti di loro fanno parte, paradossalmente, della stessa lista di quelli che dovrebbero essere "aiutati" dal Fondo monetario internazionale e dai paesi del G8, proprio attraverso la vendita di oro.
Il metallo prezioso che ha sfidato i secoli nei miti e nei forzieri, grazie alle sue qualità rassicuranti - inalterabile, inodore, malleabile, anonimo, liquido - amico di fuggiaschi e pirati, sembra destinato a sopravvivere soltanto come una merce non diversa dalle altre, materia prima per la gioielleria (che già ne assorbe l'80% della produzione, settore dove oggi, grazie alle richieste di Cina e India, e all'ultima corsa alla medaglia d'oro per festeggiare il 2000 che sta travolgendo gli Usa, la domanda supera l'offerta) e niente più.
Nostalgia francese
Ma le antiche certezze resistono. Alla Banque de France, per esempio. La Francia era già stata l'ultimo dei grandi paesi ad abbandonare il bimetallismo (rapporto legale e fisso con oro e argento, introdotto con il franco germinale nell'anno XI, cioè il 1803, e abolito soltanto nel 1928). Oggi si aggrappa all'oro, come "elemento di fiducia a lungo termine della moneta", "elemento di prudenza per motivi psicologici nello spirito dei risparmiatori e del pubblico", addirittura "ancora oggi assicurazione contro una forte deregolamentazione del sistema monetario internazionale". E' stata la Francia, difatti, il paese che ha maggiormente insistito perché nelle riserve della Banca centrale europea ci fosse una componente obbligatoria di riserve auree (è stata fissata al 15%, e in questa stessa percentuale è l'apporto in oro alla Bce delle banche centrali nazionali degli 11 paesi dell'euroland). Perché allora non approfittare della nouvelle vague e utilizzare queste riserve per una politica di rilancio economico, per finanziare per esempio i "grandi lavori" comunitari, come proponeva Prodi ai tempi in cui era primo ministro e che oggi da presidente della Commissione sembra aver dimenticato?
Decide Nixon
Il sistema aureo si è costruito un mito nella storia economica. Nei fatti, la sua fine può essere datata agli anni '70, quando nell'agosto del '71 il presidente Nixon decide l'inconvertibilità del dollaro, che perse così il rapporto con l'oro e nel gennaio '76, con gli Accordi della Giamaica, entrati in vigore nel '78, in base ai quali i paesi membri del'Fmi possono lasciar fluttuare la loro moneta o definirne il valore attraverso un rapporto fisso con i diritti speciali di prelievo o altra divisa, fatta esclusione dell'oro. Anche dopo la Seconda guerra mondiale il "tallone aureo" sembrava già moribondo, ma gli anni della forte inflazione lo fecero risorgere per un breve periodo.
Il XIX secolo ha visto la diffusione e l'apogeo del sistema aureo, al punto che prima della Grande guerra l'oro rappresentava il 91% delle riserve monetarie mondiali (oggi è il 53%).
Dopo la Prima guerra mondiale, il raddoppio dei prezzi fa saltare il sistema aureo. Ma il fascino del metallo giallo mantiene ancora intatta la sua attrattiva. Al punto che, proprio quando il sistema mostra di non funzionare più, ne vengono esaltate le caratteristiche (per esempio dal Rapporto Cunliffe del 1918, pubblicato in Gran Bretagna), sulla base degli scritti di Ricardo: se il sistema aureo è adottato da un gran numero di paesi al mondo, diceva il fondatore dell'economia classica, l'oro è al tempo stesso moneta nazionale e internazionale.
Nel sistema aureo l'equilibrio interno dipendeva quindi dall'equilibrio esterno, dal momento che l'unità monetaria nazionale era definita da un determinato peso d'oro e la banca centrale comprava e vendeva oro a prezzo fisso.
La moneta era convertibile, i tassi di cambio determinati dalla quantità d'oro e mantenuti fissi. Inflazione e deflazione venivano così regolate automaticamente: "Quando gli scambi con l'estero accusavano un'eccedenza, l'oro affluiva nel paese e un incremento della quantità di moneta accompagnava lo sviluppo del commercio. Quando gli scambi con l'estero erano deficitari e il tasso di cambio toccava il punto di uscita dell'oro, l'esportazione dell'oro diventava remunerativa" (Rapporto Cunliffe).
La denuncia di Keynes
Ma questo migliore dei mondi possibili non è durato, e nei fatti non è mai esistito. Keynes denuncerà questo mito, dove le "regole del gioco" della stabilità degli scambi internazionali tendevano a sacrificare l'equilibrio interno a quello esterno. La leggenda dell'oro però resuscita nuovamente: poco per volta nel primo dopoguerra le principali monete ritrovano la convertibilità in oro (almeno per i regolamenti internazionali) e il dollaro (1919) e la sterlina (1925) tornano alla parità ante-guerra, sempre per la questione della "fiducia" di cui parla ancora oggi la Banque de France.
La Conferenza di Genova del '22 prende però atto che era solo un'illusione l'idea che il sistema aureo fosse basato sull'impiego esclusivo del metallo giallo come mezzo di pagamento (i crediti bancari a breve e i movimenti di capitali a lungo termine hanno finanziato lo sviluppo economico già nell'800): viene istituito il gold exchange standard, considerato da alcuni come una "pericolosa innovazione", perché tende a istituzionalizzare la riduzione dell'uso dell'oro, distinguendo le valute "chiave" del regime aureo e le valute periferiche.
Bretton Woods
Ma le conseguenze della crisi del '29 mandano all'aria le basi del sistema a cambio aureo: la sterlina (1931) e il dollaro (1934) svalutano, il tallone aureo viene sospeso nel '31 da Londra e nel '33 da New York (nel '37 in Francia). Questi terremoti rafforzano però il mito dell'oro come fattore di stabilità e nel '36 l'oro viene ristabilito in parte come mezzo di pagamento. Gli accordi di Bretton Woods (1944) riconfermano questa posizione: le monete vengono definite rispetto all'oro, che resta moneta di regolamento. Ma il gold exchange standard aveva il dollaro come sola moneta convertibile (i biglietti emessi dalla Federal Reserve americana erano coperti al 25 per cento da riserve in oro).
Oggi, tutto ciò sta diventando soltanto storia. Neppure le crisi monetarie hanno risollevato le sorti dell'oro come riserva. In Corea o in Indonesia, dopo le recenti tempeste finanziarie, i risparmiatori non si stanno buttando sull'oro ma sulle Borse, malgrado si siano scottati di recente. Da anni ormai, difatti, l'oro non è più un buon investimento.
D i questo passo dell'oro in Sudafrica resteranno solo i nomi e un po' di memoria storica. Johannesburg è nata intorno alle miniere aurifere poco più di un secolo fa. I neri la chiamavano eGoli, la città dell'oro. La sua regione era il Transvaal: la democrazia ha portato qualche cambiamento di nomi e il Transvaal è diventato Gauteng - che in lingua sesotho vuol dire terra dell'oro. Ma il palindromo più ricco, celebrato e maledetto, oggi non ha quasi più corso. Le miniere restano. I loro filoni anche. L'occupazione no. Nel 1984 il Sudafrica estraeva 679,9 tonnellate d'oro all'anno. Nel '96 era sceso a 494,6 tonnellate, pur restando il primo produttore mondiale di oro.
80.000 posti a rischio
La decisione inglese di vendere 25 tonnellate delle sue riserve aurifere ha avuto un immediato riflesso devastante all'angolo opposto del globo: 5.000 posti di lavoro sono stati tagliati alla East Rand Proprietary Mines (Erpm), una delle più vecchie miniere, aperta nel 1893. Era in crisi da tempo, la decisione inglese ha dato il colpo di grazia. Solo negli ultimi tre anni, nel settore delle miniere d'oro, sono andati persi 100.000 posti di lavoro, a rischio ce ne sono almeno altri 80.000 sui 300.000 rimasti. E se si tiene a mente che da ogni busta paga dipende direttamente la sopravvivenza di un numero variabile tra 7 e 10 persone - senza tener conto di quel che tutte queste persone mettono in moto - si capisce che tipo di conseguenze la crisi dell'oro avrà sull'economia sudafricana.
Il neo-eletto presidente Thabo Mbeki ha fatto della lotta alla disoccupazione (quasi al 50% tra i neri) e del miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza nera il naturale - e sacrosanto - punto di forza del suo governo. Ora rischia di trovarsi per le mani una situazione drammatica rispetto alla quale poco può fare. E' escluso qualsiasi intervento statale per soccorrere le miniere in crisi, manca in Sudafrica un sistema di ammortizzatori sociali che consenta un'uscita dolce dal mercato del lavoro, soprattutto non sembra ci siano più spazi di manovra per ridurre i costi di produzione. Negli ultimi dieci anni - il declino dell'oro è cominciato nel 1989, ironia della storia proprio quando le speranze di democrazia prendevano reale consistenza - il costo per oncia d'oro è sceso da 342 a 273 dollari. Una riduzione drastica ma insufficiente: un'oncia d'oro oggi vale intorno ai 260 dollari. Dunque si produce in perdita. Una perdita acuita anche dalle buone intenzioni del G7 che hanno lastricato l'inferno in terra di alcuni paesi africani: la decisione di mettere in vendita una parte di riserve auree per alleviare una parte del debito dei paesi meno sviluppati è stato un colpo ulteriore. "C'è qualcosa di irrazionale se il mondo ricco vuole alleviare il debito dei paesi poveri e poi impoverisce uno dei maggiori beni dell'Africa" ha commentato il ministro delle finanze sudafricano Trevor Manuel, molto apprezzato nei circoli economici occidentali per la sua attenzione alle politiche di riduzione del deficit. Anche Mbeki approva quelle politiche e ha ricevuto grande apprezzamento dalla finanza internazionale. Ma ora potrebbe cambiare strada. O essere costretto a farlo.
Contro Londra
Intanto dal suo governo sono uscite parole durissime all'indirizzo del governo britannico al quale dovrebbe invece essere piuttosto vicino per ispirazione e visione generale. "L'esecutivo sudafricano trova incomprensibile e inaccettabile l'insensibilità delle autorità politiche ed economiche britanniche" per il disastro che stanno provocando sui paesi produttori d'oro. E mentre dai palazzi governativi usciva questo comunicato - accolto con entusiasmo dalla Chamber of mines sudafricana - circa 2000 minatori della Erpm manifestavano davanti agli uffici consolari britannici inglesi, consegnando una petizione all'ambasciatore per protestare contro la vendita dell'oro. E ieri a Pretoria è stato deciso che la prossima settimana una delegazione di alto profilo - dovrebbero farne parte anche il ministro del commercio Alec Erwin e Trevor Manuel - arriverà in Europa. Farà tappa a Londra, ma anche in Germania, Francia e Svizzera, per chiedere "una moratoria sulla vendita delle riserve auree". Verrà chiesto che anche ai governi di Ghana, Tanzania e Mali di unirsi alla richiesta.
Dall'oro oggi il Sudafrica ricava il 18% della sua valuta estera, l'oro rappresenta il 4% del prodotto interno lordo del paese, forse non è più un elemento cardine della vita sudafricana come è stato in passato. La struttura produttiva sudafricana negli ultimi venticinque anni è radicalmente mutata. Il settore agricolo e minerario hanno perso peso e ruolo mentre ha via via acquisito peso il terziario. Così, in questo arco di tempo in quei due settori sono andati persi un milione e cinquecentomila posti di lavoro, mentre nel terziario ne sono stati creati circa due milioni. Eppure l'estrazione dell'oro e il lavoro nelle miniere mantengono un valore simbolico decisivo in Sudafrica. E, soprattutto, i numeri non dicono tutta la verità. La maggior parte dei lavoratori che stanno perdendo il loro posto in queste settimane resterà disoccupata, non avendo alcuna specializzazione. Forse in altri settori si creerà altra occupazione. Ma sarà per altre persone.
La corsa all'oro ha spinto avventurieri, militari ed esploratori lungo le coste africane fin dalla metà del 1400. Restano a testimonianza delle prime conquiste gli splendidi castelli portoghesi lungo la costa del Ghana. L'Africa possiede circa il 54% delle riserve minerarie aurifere del mondo dalle quali esce circa il 30% delle produzione d'oro mondiale.
Tolto il Sudafrica, primo paese produttore al mondo, dall'oro dipende largamente il Ghana - undicesimo produttore - che nel 1994 ricavava dall'oro il 45% delle sue esportazioni grazie anche alla Ashanti Goldfields considerata una delle compagnie che lavora a costi tra i più bassi del mondo. L'oro è la seconda risorsa, dopo il tabacco, dello Zimbabwe ed è il prodotto principale delle esportazioni del Burkina Faso, nonostante il declino subìto negli ultimi anni. Miniere d'oro sono presenti in Etiopia, Mali, Costa d'Avorio, Niger, Guinea, Senegal, Gabon, Algeria, Namibia, Mozambico e Tanzania. Pochi i nomi delle compagnie impegnate nell'estrazione. Le principali e maggiormente presenti in tutto il contienente sono la Anglo-American attraverso la sussidiaria Amgold, la Ashanti, la Lonrho. Quest'ultima, attraverso sue sussidiarie, controlla il 30% dell'estrazione aurifera in Zimbabwe.