Nicaragua: a vent'anni di una rivoluzione

di Michèle Najlis


 In prossimità del ventessimo anniversario di ciò che voleva essere la
"Rivoluzione Popolare Sandinista", non possiamo fare a meno di sentire  come
migliaia di Nicaraguensi  un insieme di sentimenti intensi, contraddittori, che
ci fanno sentire che vent’anni non sono pochi. Scorre la memoria dei morti:
Roberto, Francisco, Silvio, Casimiro, Julio, Arlen, Carlos, Antonio  e gli
altri, quelli che sono venuti dopo. Scorre la memoria di quelli che sono morti
(in un campo o nell’altro) difendendo il diritto dei poveri. Scorrono i visi e
i corpi dei mutilati, eroi di ieri che oggi più nessuno guarda.
Rivediamo i ragazzi e le ragazze "Pugno in alto, libro aperto", mentre la
guerra si organizzava e avanzava con il suo corteo di dolore. E scorreva anche
l’ombra degli errori, della corruzione che incubava come uova di serpenti che
non abbiamo saputo -o potuto- sradicare in tempo.
"Non ritornerà il passato", scriveva il poeta Jose Coronel. "Non ritornerà il
passato" ripetevamo nei nostri cuori... e il passato ritornò. Era già lì prima
che potessimo rendercene conto: l’arroganza della nuova classe dirigente e la
sottomissione di quelli che prosperavano accanto ai potenti come allegri
cortigiani mentre il popolo sotterrava i suoi morti e migliaia di sandinisti
onesti lasciavano la loro gioventù nelle montagne (nella guerra) o nei loro
posti di lavoro.

Abbiamo conosciuto i peccati del potere: di quelli di sopra e di quelli di
sotto. Di quelli di sotto che tacevano le critiche perché preferivano costruire
nuovi idoli ai quali immolare la propria libertà piuttosto che assumerla con
responsabilità. Paura di "fare il gioco del nemico". Paura di perdere il
lavoro. Paura di essere visti male. Paura di sbagliare.
Abbiamo conosciuto il silenzio di quelli che uscendo da una riunione di partito
si congratulavano con noi perché avevamo avuto il coraggio di esprimere le
critiche che tutti e tutte facevano nei corridoi.
Abbiamo conosciuto il nostro proprio silenzio, il nostro proprio doloroso
silenzio interiore che non osava riconoscere ad alta voce il fallimento: era
molto quello che avevamo scommesso su questa Rivoluzione: i sogni, i desideri,
gli anni della gioventù e della maturità, tutta la vita. Riconoscere il
fallimento della Rivoluzione era riconoscere il fallimento delle nostre proprie
vite, era rimanere nel vuoto... e siamo rimasti nel vuoto, in un lutto che non
potevamo nemmeno nominare.

E di questo vuoto siamo rinati. "Le nevi del tempo hanno colorato di argento le
mie tempie", come dice il tango, ma non hanno ucciso il vigore del cuore.
In mezzo a una povertà che si moltiplica fino alla disperazione, di fronte
all’impunità di un "dirigente" stupratore e di un presidente corrotto che più
non si può, che patteggiano sul dolore del popolo; in mezzo al cinismo e alla
poca vergogna, proclamiamo con orgoglio e dignità, che continuiamo a credere
nel Dio della Vita che ha rialzato dalla morte il ribelle profeta di Nazaret,
e con lui, la speranza dei poveri.