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Torna l'America contro la guerra

Fonte: il manifesto 03 Giugno 1999

Torna l'America contro la guerra

Sabato in piazza davanti al Pentagono, Clinton minaccia la marcia

- STEFANO CHIARINI -






Il Pentagono non vuole vedere decine di migliaia di rappresentanti di 
quella metà del paese che ormai chiede con decisione la fine immediata 
dei criminali bombardamenti contro le città serbe sfilare sotto le sue 
mura il prossimo cinque giugno.

La prima manifestazione nazionale "Stop bombing Yugoslavia" indetta da 
centinaia di noti intellettuali del dissenso americano, dall'ex 
ministro della giustizia americano Ramsey Clark ad Angela Davis dal
vescovo Thomas Bungleton ai veterani del Vietnam, partirà dal
monumento ai caduti del Vietnam, a Washington, per marciare verso il
cuore del sistema militare industriale, il palazzo del Pentagono che
si trova invece nel territorio della Virginia. Il successo delle
numerosissime manifestazioni, sit in e veglie, laiche e religiose, che
si sono svolte in tutti gli angoli dell'America con l'obiettivo di
preparare la marcia del 5 giugno e soprattutto i sondaggi di opinione
che indicano un crollo nel sostegno alla guerra dal 62% di aprile al
53% di alcuni giorni fa e del consenso alla politica estera di Clinton
dal 56% al 46% (secondo i dati del Pew Reasearch Center) ha spinto
l'Amministrazione ad operare in modo tale da limitare il più possibile
la partecipazione di massa alla manifestazione e soprattutto la sua
visibilità. La polizia della Virginia ha così sbarrato la strada verso
il Pentagono imponendo ai dimostranti di marciare lungo una stretta
pista ciclabile che in alcuni punti attraversa una importante
autostrada. Tutti gli appelli rivolti alle autorità della Virginia e
direttamente a quelle di Washington sino a ieri sera non avevano
ottenuto alcuna risposta.

Un esponente del comitato di coordinamento della manifestazione Brian
Becker ha dichiarato ieri "Non importa quali saranno gli ostacoli, il
cinque giugno marceremo in ogni caso verso il pentagono. Questa guerra
ci riporta al Vietnam e non staremo a guardare mentre gli jugoslavi
stanno morendo sotto le bombe e mentre Clinton si prepara aa mandare
decine di migliaia di giovani soldati ad uccidere e ad essere uccisi.
Non dimentichiamo che il 28 maggio il New York Post ha scritto che il
Dipartimento della difesa ha ordinato 9.000 medaglie "Purple Hearts".
Medaglie che vengono date ai soldati feriti in battaglia.

Tra gli organizzatori della marcia c'è però la forte preoccupazione
che la Casa bianca non solo intenda bloccare la crescente protesta ma
che si prepari a dare via libera a qualche gravissima provocazione
come l'abbattimento di aerei con aiuti ai profughi o un bombardamento
contro i campi profughi in Albania o Macedonia condotto da velivoli
croati dello stesso tipo di quelli in dotazione dell'aviazione
jugoslava in modo da addossarne la responsabilità a Belgrado e
ottenere così il via libera dell'opinione pubblica per l'occupazione
via terra del paese. Un drammatico episodio di questo tipo, simile al
bombardamento del mercato di Sarajevo che spianò l'intervento Nato nel
1995 contro i serbi di Bosnia, potrebbe aiutare Clinton anche a
forzare la mano del Congresso dimostratosi sino ad oggi, sul problema
della guerra, tutt'altro che allineato sulle posizioni della Casa
bianca. E di sicuro assai meno succube nei confronti del governo e
assai meno complice nel massacro in corso del parlamento italiano con
tutti i suoi "limiti invalicabili" (tanto cari a Cossutta e Manconi)
la cui incisività è pari a quella delle grida contro i bravi di
manzoniana memoria.

I No del Congresso
Il presidente Clinton infatti dal 25 maggio è in aperta violazione del
"War Powers Act" del 1973 varato dal Congresso proprio per bloccare i
bombardamenti segreti sulla Cambogia. Secondo questa legge il
presidente deve comunicare al Congresso entro 48 ore l'inizio delle
ostilità e quindi entro 60 giorni deve porvi fine a meno che non
ottenga il via libera di entrambe le camere. E il Congresso ha negato
per ben due volte questo via libera. Una prima volta il 28 aprile
quando il deputato Dennis J. Kucinich ha convinto altri 25 democratici
a votare con lui insieme a 187 repubblicani negando a Clinton
l'autorizzazione a bombardare la jugoslavia. Una autorizzazione che
nelle intenzioni della Casa bianca avrebbe dovuto autorizzare anche
l'intervento di terra. Una seconda volta nel mese di maggio quando gli
speaker della Camera hanno tentato senza successo di eliminare dalla
legge sullo stanziamento del bilancio della difesa un paragrafo che
potrebbe bloccare il finanziamento della guerra. Ora quindi, scaduti i
60 giorni, il presidente Clinton potrebbe in teoria trovare sul suo
cammino un giudice federale secondo il quale il presidente sta
violando la Costituzione. Nel paese intanto, nonostante una
ossessionante campagna di stampa, il numero dei favorevoli ai raid
scende ad ogni sondaggio ed è ormai ridotto al 50%.

E l'opposizione contro la guerra, agli inizi più debole di quella dei
tempi del Golfo, va crescendo un pò in tutto il paese. E non solo a
sinistra. Molti sono i falchi come Henry Kissinger che hanno espresso
i loro forti dubbi sull'avventura nei Balcani sottolineando che
potrebbe rimettere nei prossimi mesi in discussione sia i rapporti con
la Russia e la Cina sia il futuro stesso della Nato. Il movimento
pacifista da parte sua è sorto invece attorno all'International Action
Center, fondato dall'ex ministro della giustizia Ramsey Clark, da anni
impegnato contro il genocidio del popolo iracheno, le comunità
religiose, una agguerrita pattuglia di intellettuali facenti
riferimento a Noam Chomsky (con il suo appello degli intellettuali
ebrei ai verdi tedeschi) e ai gruppi di sostegno a Mumia Abu Jamal, lo
scrittore di colore, colpevole di aver denunciato il vero volto del
razzismo americano, da anni nel braccio della morte. Particolarmente
importante il ruolo dei leader delle varie comunità religiose: dai
dirigenti di Pax Christi al Consiglio dei vescovi metodisti, dal
reverendo Joan Campbell segretario generale del Consiglio nazionale
delle chiese andato a Belgrado insieme a jesse Jackson. 


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PACIFISTI USA
"La guerra è stata un fallimento"
Parla l'ex comandante Nato, Eugene Carroll 
- PAT. LOM. - NEW YORK 


A bbiamo incontrato, mentre si prepara la protesta pacifista di sabato
prossimo, Eugene Carroll, ex comandante delle forze Nato in Italia
negli anni Ottanta ed ora direttore dell'organizzazione pacifista di
militari contrari al riarmo Usa: il "Center for Defense information"
di Washington.

Qual è l'errore strategico-militare che la Nato ha commesso con questo
intervento in Kosovo?

E' stato fatale l'errore di Washington. Abbiamo ritenuto che i raid
aerei fossero una garanzia per la difesa dei kosovari, col risultato
che si sono duplicate le vittime. Perseguendo una guerra brutale che
rende i kosovari due volte vittime, per i bombardamenti Nato e per
l'espulsione dal Kosovo. Gli obiettivi che ci eravamo prefissi sono
stati falliti in partenza. Da allora, il livello dei bombardamenti si
è quadruplicato, con l'aggiunta continua di altre armi e aerei da
combattimento. Stiamo distruggendo una nazione, e questo non protegge
davvero i kosovari e non restituisce alla vita la popolazione civile
morta, né assicura una parvenza di pace al popolo kosovaro. E' stato
un fallimento, non si è ottenuto nulla, se non distruzione e morte.

Cosa pensa dell'eventualità sempre più concreta di un invio di truppe?

Vorrebbe dire un'aggravarsi del disastro. Invadere il Kosovo con
truppe Nato provocherebbe un disastro di proporzioni inenarrabili. La
guerra della Nato con alla testa la leadership americana per
distruggere la Serbia - perché di questo si tratta - rappresenterebbe
un'apocalisse umana.

Un'apocalisse dalle tragiche somiglianze con l'escalation in Vietnam
dell'Amministrazione Johnson...

Purtroppo la verosimiglianza con l'escalation in Vietnam e la guerra
in Kosovo è impressionante. Sembra di rivivere quasi una ripetizione
degli stessi passi. L'intensificarsi del livello raggiunto dalla
distruzione in Serbia con l'illusione di poter condizionare Milosevic
ad arrendersi ha il precedente storico nell'aggressione
dell'amministrazione Johnson, 25 anni fa, nel Vietnam. Un altro
elemento simile è comportamento dei media americani nel presentare
questo conflitto, alimentando l'ottimismo e la credibilità verso le
leadership americana e Nato e il successo in questa guerra. Uno dei
maggiori diffusori di questa propaganda è il portavoce Nato, Jamie
Shea che da Bruxelles promette ogni giorno la "vittoria" con la
propaganda (su: diserzione serba, fratture interne al regime di
Milosevic, la distruzione delle capacità militari serbe). Questo modo
di operare, durante la guerra del Vietnam si chiamava "la sindrome
della luce alla fine del tunnel. Sappiamo ora come quella "luce" non
avrebbe portato alla vittoria. Ma, lo stesso, veniamo alimentati ogni
giorno nell' "illusione di luce e pace alla fine del tunnel". E'
mondezza. Se affonderemo sempre più in questo disastro, gli spettri di
25 anni sono destinati a tornare, con scene da apocalisse in
Jugoslavia, per le nuove armi impiegate dalla Nato per la prima volta
in Jugoslavia contro la popolazione civile. Bisogna tornare al
negoziato tra le due parti all'interno dell'Onu.

Ritiene che alla fine si possa parlare di pace in quella regione dove
è stato fatto un deserto?

La "luce alla fine del tunnel" deve essere costituita dalla fine della
violenza dei bombardamenti Nato da un lato e dalla violenza serba sui
kosovari dall'altra. L'interposizione della forza militare
internazionale deve essere sotto il mandato dell'Onu e costituita da
forze Onu. Deve essere escluso che le unità militari siano guidate dal
comando Nato.

Cosa pensa di questa massiccia mobilitazione contro la guerra in
Kosovo per la manifestazione di sabato, 5 giugno?

Ora è decisivo che si senta la voce dell'America civile. Sarà una
dimostrazione massiccia ed importante. E' bene che turbi la
tranquillità della signora Albright, principale responsabile della
guerra. Al Congresso Usa, all'Amministrazione farà capire che lo
spirito che alimenta la popolazione americana è quello di andare verso
la pace e non protrarre la guerra, e darà voce a quei settori della
leadership americana che non sono più disposti a continuare
quest'avventura di morte.