"Da sei mesi viviamo quassu' in condizioni disumane, come bestie. Anche se non abbiamo piu' nulla, preferiamo tornare e ricostruire le nostre case, a costo di dover dormire ancora nel nylon, ma almeno nel giardino di casa nostra": e' la voce di alcuni abitanti del villaggio di Kishna Reka, costretti a una diaspora sui monti che sovrastano l'abitato. Circa 3000 persone vivono da almeno sei mesi nei boschi, in capanne costruite con nylon e rami. Il terrore dei soldati presenti nel loro villaggio, distrutto, e' stato piu' forte del freddo, della fame, dell'inverno incombente. Ora che i soldati se ne sono andati, la gente ricomincia a respirare, e a scendere dai monti. Ma per molte famiglie il rientro nei villaggi e' ancora tabu': dove c'e' la polizia non si torna. Chi ci ha provato, e' stato minacciato, costretto a scappare nuovamente. Qualcuno e' stato ucciso. Un dato del conflitto kossovaro: il 63% dei profughi sono bambini. Nelle zone dove il conflitto e' piu' acuto, gli aiuti specifici per loro e per le donne (biancheria intima, pannolini, assorbenti) faticano ad arrivare. Anche se non si puo' parlare di un totale ritiro delle truppe speciali, i check - point lungo le strade principali sono stati rimossi. La presenza, un tempo massiccia, della polizia nei villaggi abbandonati, si limita attualmente ad alcuni punti strategici. E questo permette alle migliaia di profughi, scappati in ogni parte del paese, di tentare, dove possibile, un rientro a casa, o in quello che un tempo si poteva definire tale. Gran parte dei villaggi, difatti, sono stati distrutti e bruciati nel corso dei combattimenti di quest'ultimo periodo, e per tanta gente non c'e' piu' un posto dove tornare. Le informazioni si accavallano pero' spesso contrastanti: a Banja, cittadina nei pressi di Malishevė (punto d'incontro, perche' c'e' una grande vasca d'acqua, utilizzata da molti come enorme lavatoio all'aperto) la gente assicura che la situazione non e' cambiata, che di notte si sente sparare, che la polizia c'e' ancora ed e' solo nascosta e che per questo hanno molta paura. A Pagarusha alcune famiglie continuano a vivere sotto i nylon sui monti, oppure ammassate in case pericolanti senza finestre, in dieci, quindici per stanza. Mancano medicine e dottori, con disagi soprattutto per le donne incinte, e i bambini. Mesi di guerra e di violenza inaudita hanno generato ferite enormi, sofferenze tali che ora sembra impossibile trovare le fila per una soluzione pacifica. La repressione con la quale l'esercito jugoslavo ha voluto sedare la rivolta armata dell'Uck - mossa piu' dalla disperazione e dalla paura che da chissa' cosa - e' stata piu' una guerra contro i civili, che ha colpito indiscriminatamente tutti, distruggendo interi villaggi, moschee, scuole. In citta', la polizia continua a far violenza indisturbata nei confronti della gente: dieci giorni fa ha arrestato il proprietario di una "cucina popolare", e nessuno e' stato in grado di capire il perche'; tre giorni fa sono state chiuse le porte del mercato e i poliziotti hanno derubato chi era all'interno. E' una sistuazione insostenibile. Essere albanese qui vuol dire vivere nel terrore. La maggior parte delle persone pensa che il "cessate il fuoco" possa reggere a patto che ci sia una soluzione politica internazionale che garantisca giustizia e sicurezza alla gente. Il rischio di una nuova fase di violenza e' forte. Parlare di convivenza e' difficile: serbi e albanesi qui hanno sempre vissuto insieme, ma ora piu' nessuno vuole questo. I serbi se ne vogliono andare, si sentono bersaglio della vendetta albanese; gli albanesi accusano i serbi del luogo di aver incoraggiato e sostenuto i massacri fatti. Le posizioni politiche si sono ulteriormente radicalizzate. Il Kossovo chiede l'indipendenza, ora additata come unica soluzione anche dal partito piu' moderato, l'Ldk. Senza l'indipendenza non c'e' soluzione, questo e' il pensiero ricorrente e diffuso. E Belgrado, con queste premesse, rifiuta categoricamente il dialogo. La comunita' internazionale si sta muovendo: 2000 osservatori dell'Osce si stanno posizionando sul territorio per verificare il rispetto degli accordi e per favorire il rientro dei profughi. Dovranno lavorare su un duplice fronte: seguire il rientro degli albanesi nelle proprie case e garantire l'incolumita' dei pochi serbi rimasti, affinche' non abbandonino il Kosovo. Ma la minaccia dei bombardamenti punitivi non sara' servita a nulla se la diplomazia internazionale non trovera' una soluzione che sia davvero tale, impegnandosi a lavorare e vigilare sul disarmo affinche' non vengano riconquistate posizioni e ricomincino scontri: di questo, in Kossovo, c'e' piena coscienza. E attesa.