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Un esempio plateale di razzismo e stupidità


4 maggio (ore 22: 23)

Ti avevo promesso che ti avrei spedito questo esempio plateale di razzismo
e stupidità. Così potrai vedere che razza di gente c'è al mondo. Oh, non
voglio certo dire che esistano solo negli Stati Uniti, per carità, ce ne
sono dappertutto. Perlomeno, cerchiamo di girarne alla larga...

Ciao, 
Djordje

P.S: Li stiamo ancora aspettando. Speriamo che Dio ci assista. 

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alle 10: 26 del 4 maggio 99, David Peterson scriveva: 

Egregio professor Vidanovic, 

su richiesta di Noam Chomsky, le invio una copia dell' articolo di Stacy
Sullivan "I carnefici conniventi con Milosevic" (New Republic, 10 maggio
99). Mi faccia sapere se desidera ricevere altro materiale, che io possa
reperire ed inviarle. 

Cordiali saluti, 
David Peterson
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The New Republic, 
10 maggio 99 
Titolo: I boia conniventi con Milosevic
Autore:  Stacy Sullivan
Sottotitolo: Forse abbiamo davvero qualcosa contro il popolo serbo. 

Nella primavera del 1996, quando iniziava il disgelo sul suolo ghiacciato
della Bosnia orientale, un fotografo ed io entrammo in auto a Kamenica, un
villaggio della Repubblica Srpska, un enclave serbo ritagliato in Bosnia
dalla pulizia etnica serba e riconosciuto giuridicamente dai trattati di
Dayton nel 1995. Ci era stato detto che Kamenica era il luogo in cui, l'
estate precedente, le forze serbo-bosniache avevano massacrato gran parte
dei 7000 bosniaci musulmani dati per dispersi dopo l' invasione serba dell'
enclave tutelato dalle Nazioni Unite. 

Uscimmo dalla strada principale, ed attraversammo il villaggio su di un
sentiero sterrato che conduceva alle colline. Pochi minuti dopo, ci
ritrovammo in una radura letteralmente cosparsa di ossa umane. Erano
passati circa otto mesi dal massacro degli uomini di Srebrenica, ma nessuno
dei serbi di Kamenica aveva pensato a seppellirli. C'erano ancora scarpe da
tennis e calzini di lana che penzolavano dai piedi degli scheletri. Per
terra c'era una lettiga fatta di un lenzuolo e di due bastoni; l' uomo che
vi giaceva era ormai ridotto ad uno scheletro, intatto, ancora vestito in
jeans e camicia scozzese. C'erano crani, vertebre, braccia, gambe, casse
toraciche, stivali di gomma, pezzi di stoffa e carte d' identità sparsi un
po' dappertutto. E in un cespuglio spinoso ai piedi della collina, trovammo
una Polaroid scolorita di quattro uomini (si presume tutte vittime) che
ridevano passandosi una bottiglia di birra. 

Mentre camminavamo tra i morti, due contadini serbi ci passarono accanto a
bordo di un trattore, e per poco non investirono il cadavere che si trovava
ancora sul ciglio del sentiero. Sembravano non averlo notato. Pochi minuti
dopo, passarono due serbi più giovani a piedi. Chiesi loro se sapevano che
cosa fosse successo sulla collina. Loro alzarono le spalle e ci dissero che
nell' estate del 1995 erano in vacanza in Austria. 

Da quell' incontro, mi sono sempre sforzata di capire che cosa pensassero
quei due uomini. Ben prima dell' attuale massacro in Kosovo, le milizie
serbe avevano ucciso un numero esorbitante di civili in nome dell'
autodifesa della nazione. Eppure, si è lasciato che tutto ciò succedesse,
con appena un mormorio di dissenso o protesta da parte dell' opinione
pubblica. Anche quando avvicino un serbo individualmente, e frugo alla
ricerca di un qualche rimorso, non ne trovo neanche l' ombra. Perché ?

Oggi, questa potrebbe essere la questione più importante per gli alleati
della NATO che tentano di far fronte alla furia serba che imperversa in
Kosovo. Il pensiero convenzionale diffuso tra gli intellettuali ed i
politici occidentali è, come sostiene il Presidente Clinton, che non
abbiamo nulla contro il popolo serbo. E' stato il loro capo, Slobodan
Milosevic, con i suoi scagnozzi a manipolarlo affinché scatenasse tutte
queste brutali guerre. Questo è il pensiero che traspare dai due discorsi
rivolti dal Segretario di Stato Madeleine Albright ai serbi, nella loro
lingua, che la Albright apprese durante l' infanzia in un breve soggiorno
nella capitale yugoslava. Ma se questo è vero, tradisce una stategia mirata
soltanto ad infrangere il volere di Milosevic o, al massimo, a rovesciarlo
dal potere. Nel gergo degli strateghi militari, il "centro di gravità"
della guerra contro la Yugoslavia sarebbe costituito dal suo governo e
dalle forze armate. 

E se non fosse così ? E se i serbi che indossano magliette col simbolo
target e si riuniscono pateticamente per concerti rock giornalieri o
maratone fossero sostenitori della pulizia etnica - attivi o passivi ? In
tal caso, sì: abbiamo qualcosa contro il popolo serbo. In tal caso: il
"centro di gravità" in Yugoslavia è di gran lunga più difficile da
estirpare di quanto non lo siano un esercito od un regime. E' la mentalità
di un' intera nazione. 

Io stessa volevo illudermi che i serbi fossero stati ingannati e costretti
ad accettare le atrocità perpretrate a loro nome. Ma ora, dopo cinque anni
di reportages sull' ex- Yugoslavia, dopo aver cercato invano di strappare
un' espressione di rimorso dalle centinaia di serbi che ho incontrato, sono
convinta che la mia ultima ipotesi sia la pià corretta. Qualsiasi altra
cosa facciamo in Kosovo, dobbiamo accettare come un fatto che tutti i serbi
sono- per parafrasare Daniel Jonah Goldhagen- carnefici conniventi con
Milosevic. 

La propaganda di regime, benché potente, non fa altro che riflettere il
comportamento serbo che abbiamo davanti agli occhi ormai fin dal 1991, anno
della disintegrazione della Yugoslavia. Prendete questa conversazione, da
me intrattenuta in un caldissimo pomeriggio alla fine del luglio 1996, a
Kravica, un altro villaggio serbo vicino a Srebrenica. Vi si trovavano
alcuni esperti forensi del gruppo statunistense Physicians for Human Rights
(Medici per i Diritti Umani, N.d.T), accompagnati da un contingente di pace
della NATO, che scavavano alla ricerca di una fossa comune. Gli scienziati
sondavano delicatamente il terreno alla ricerca di carne umana ed hanno
iniziato a rimuovere la terra, strato per strato. Più si avvicinavano ai
cadaveri, più si intensificava il lezzo di carne in decomposizione. Una
volta scoperte le decine e decine di corpi, il puzzo era insopportabile. I
corpi avevano le mani legate dietro la schiena con il fil di ferro ed erano
stati giustiziati tutti uno dopo l' altro. 

Una famiglia di profughi serbi di Sarajevo si era stabilita in una fattoria
proprio accanto alla fossa comune. Ho trovato il capofamiglia, Pavle (ma
non mi ha voluto dire il cognome), di 68 anni, che raccoglieva le mele a
neanche 50 metri. Alla mia domanda sulla fossa comune, inizialmente ha
risposto: "Probabilmente quei corpi sono di serbi. Sei serbi sono scomparsi
da qui." . Quando ho detto a Pavle che più di 7000 uomini musulmani erano
scomparsi dopo la caduta di Srebrenica , mi ha risposto: "Magari si sono
ammazzati tra loro". Poi Pavle ha continuato a spiegarmi che i musulmani
erano stati fortemente divisi sul da farsi quando i serbi avevano attaccato
Srebrenica. Alcuni volevano combattere, altri proponevano di arrendersi.
Alla fine, i due gruppi avevano cominciato a combattersi a vicenda e a
uccidersi gli uni con gli altri. 

Tutti questi racconti di Pavle - che le vittime erano serbi, che i
musulmani si massacravano tra loro- sarebbero andate benissimo per la
televisione di Belgrado, che ha trasmesso di queste frottole denegatorie
per tutta la durata delle guerre in Croazia e Bosnia. Eppure, è difficile
immaginare che ci credesse davvero. Ed è stato ancora più chiaro quando ho
insistito per sapere di più sul regolamento di conti tra i musulmani. Se i
musulmani si erano davvero massacrati tra di loro in uno scontro a fuoco,
perché avevano le mani legate dietro la schiena con il fil di ferro? "E che
ne so io?" mi ha ribattuto "E secondo te io mi dovrei preoccupare di
recuperare chi mi hanno costretto a lasciare casa mia ? Il contingente
internazionale sarebbe più utile se ricostruisse le nostre case, invece di
riesumare quei corpi."

Ovvio che Pavle conosceva la verità. Ovvi anche i suoi veri sentimenti nei
confronti del massacro di tutti quei musulmani: "Se la sono andata a
cercare". Dopo tutto, il governo filo-musulmano, secondo lui, l' aveva
costretto a lasciare Sarajevo. Di queste conversazioni ne ho avute
moltissime. Prima o poi, i serbi smettono di negare e cominciano a
sostenere che i massacri da parte delle loro milizie erano motivati. La
propaganda di Milosevic non mira a creare un nuovo sistema di convinzioni
nel pubblico: il suo vero fine è suscitare ed accrescere un sistema di
convinzioni già esistente, che si trova proprio alla superficie della
personalità serba. E il cuore di questa forma mentis è l' idea che i serbi,
e soltanto i serbi, siano le vere vitttime nei Balcani. 

Questo sistema di convinzioni, non lo nego, si basa su una parte di verità,
sia storica, sia attuale. I serbi hanno sofferto tremendamente nelle mani
dei tedeschi e dei loro alleati durante entrambe le guerre mondiali. E, in
tutti i conflitti nati dallo smembramento della Yugoslavia, è vero che sia
i croati sia i musulmani hanno commesso la loro parte di atrocità contro i
civili serbi. In effetti, l' enclave di Srebrenica era la base da cui
partivano i guerriglieri musulmani che hanno ucciso centinaia di contadini
serbi. "Nella mente malata di noi serbi, la coscienza che ciò che stiamo
facendo è giusto rappresenta un giustificazione sufficiente per chiudere
gli occhi di fronte ad ogni brutalità", mi ha spiegato un mio amico di
Belgrado. 

Ma anche questo non regge, perché nessuna razionalità può condurre alla
conclusione che l' attuale violenza ai danni dei serbi (lasciamo stare
quelle del passato) costituisca un' autorizzazione morale per lasciar
perpetrare un massacro assai più esteso a delle milizie serbe armate fino
ai denti. Ed è qui che entra in scena il mito. La cultura serba ruota tutta
intorno alla sconfitta del Principe Lazar da parte degli Ottomani sui campi
di battaglia del Kosovo- un' estrema resistenza che ha santificato il
Kosovo per i serbi di ogni tempo. Nei secoli, si è sempre insegnato ai
serbi non solo che i serbi hanno fatto più sacrifici di ogni altro popolo
cristiano d' Europa per resistere all' aggressione pagana, ma anche che i
loro sacrifici non sono mai stati apprezzati né riconosciuti. Inoltre,
delle ingrate potenze esterne avrebbero negato loro l' indipendenza. 

E' questo senso di frustrazione e di lutto profondamente radicato nella
storia che fa credere ai serbi di essere, per definizione, vittime. E
questa loro idea di innocenza collettiva si rispecchia in un altrettanto
intensa idea collettiva secondo cui la colpa sarebbe tutta delle altre
etnie balcaniche. Nell' ambito della loro grandiosa storia, la morte dei
musulmani o degli albanesi (ex alleati dei turchi e dei tedeschi) è niente
in confronto al "genocidio" ripetutamente compiuto contro i serbi nel
passato. Quindi, se i musulmani di Srebrenica sono stati massacrati, non è
che la giusta ricompensa   per ciò che i musulmani di Sarajevo hanno fatto
a Pavle e alla sua famiglia. Una rappresaglia cosmica. 

Certo, Pavle non è altro che un contadino, un uomo senza cultura sensibile
soltanto alle storie lacrimevoli e al ritmo della musica tradizionale. I
serbi moderni, quelli che vivono nella grandi città e che hanno studiato,
dovrebbero essere immuni ad un tale richiamo. Beh, non esattamente. Anzi,
come ha riferito Michael Dobbs il 19 aprile sul Washington Post, molti
belgradesi vedono le televisioni occidentali e davanti alle immagini delle
atrocità commesse dai serbi nei confronti degli albanesi, le giudicano
meditatamente come "propaganda". Ed è stata proprio la famosa dichiarazione
dei principali membri dell' Accademia Serba delle Arti e delle Scienze, la
più importante istituzione intellettuale serba, a dare l' avvio al
movimento nazionalista serbo nella Yugoslavia post-titoista. Il documento
era un coacervo tendenzioso di richieste di ricompensa per le passate
sofferenze dei serbi nelle mani sia del governo di Tito sia delle nazioni
rivali, come i croati e gli albanesi (vedere "La soluzione finale" di Ryan
Lizza, a pagina 28 di questo numero di "The New Republic"). 

Per quanto i serbi possano sentirsi ostili verso croati e musulmani (e vice
versa), l' odio più radicato ed autentico tra fazioni nell' ex Yugoslavia è
tra serbi ed albanesi. Il pregiudizio antialbanese da parte dei serbi è di
una crudezza eccezionale; eppure, è considerato perfettamente rispettabile
a Belgrado. E si diffonde a tutti i livelli della società. 

Nell' estate del 1997, ero ad una festa a casa di una raffinata artista di
Belgrado, che aveva vissuto a lungo in Svezia, ma che era tornata di
recente a Belgrado, e del suo ragazzo, uno stimato designer che lavora per
Saatchi & Saatchi. Gran parte degli invitati erano come i padroni di casa
(belli, raffinati, laureati ed indefessi viaggiatori). 

Ero appena tornata dal Kosovo, dove avevo indagato su quello che allora era
un ignoto gruppo di militanti rurali che si faceva chiamare Esercito di
Liberazione del Kosovo. Alla festa, incontrai un dilpomatico svedese, anch'
egli appena tornato dal Kosovo. Subito ci accorgemmo di aver incontrato le
stesse persone, e di aver frequentato gli stessi bar a Pristina. Mentre
raccontavamo come ci eravamo trovati bene con gli albanesi che avevamo
conosciuto entrambi, molti di questi beneducati serbi presenti nella sala,
si misero a ridere. Credevano che stessimo scherzando. Ritenevano
impossibile che fossimo davvero usciti a bere una birra con degli albanesi.
Quando, poco a poco, gli balenò in mente che dicevamo sul serio, la sala
piombò nel silenzio ed uno a uno, tutti se ne andarono. Ne dedussi che si
erano stancati di noi o che non capivano l' inglese, ma poi scoprii da un
serbo che adesso ha lasciato il paese, che gli invitati erano andati in un'
altra stanza per esprimere il loro disgusto nei confronti di due stranieri
che si associavano con gli albanesi. 

Ci sono senz' altro dei serbi "buoni", gente colta e distinta che conosce
la verità e vorrebbe poter fare qualcosa. Un numero indefinito di bosniaci
musulmani deve la vita a queste persone,  che si sono messe a rischio
personalmente per farli uscire dalla Bosnia proprio sotto le grinfie della
pulizia etnica di Milosevic. Ho chiesto ad una serba di Belgrado com' è
possibile che tutti questi serbi camminino lungo i resti delle case, vedano
mucchi di macerie e calpestino gli scheletri dei morti senza mostrare
rimorsi né altre emozioni. Lei è stata zitta un momento, e sembrava
sinceramente addolorata, "Mi fanno stare malissimo le immagini degli
albanesi che vengono scacciati verso l' Albania "mi ha detto " Ma credimi,
c'è tanta gente che la pensa come me. Non tutti i serbi buoni se ne sono
andati, come credono in molti. Siamo ancora qui, disperati e terrificati.
Stiamo zitti, ma ci documentiamo sulla follia serba."

Mi ha chiesto di non rivelare il suo nome, né altri segni di riconoscimento
per paura di rappresaglie. I miei amici a Belgrado mi dicono che è
impossibile protestare contro le atrocità del regime, specie in stato di
guerra- e la Yugoslavia è in guerra senza soluzione di continuità dal 1991.


Anche questa posizione ha una base razionale. Nel 1992, agli albori della
guerra in Bosnia, i pacifisti serbi marciarono su Belgrado in protesta, ma
furono brutalmente messi a tacere. Ci hanno provato di nuovo nel 93, ma
ancora una volta una violenta repressione soffocò velocemente la protesta.
Ora, dall' inizio dei bombardamenti NATO sulla Serbia, dicono che le cose
vanno peggio che mai: "Mostrare rimorsi adesso equivale al suicidio", mi ha
spiegato un mio amico, portando ad esempio l' omicidio di Slavko Curuvija,
l' editore di Belgrado che aveva criticato la politica di Milosevic. Gli
hanno sparato pochi giorni dopo che la stampa ufficiale l' aveva bollato
come sostenitore dei bombardamenti NATO. 

Ma anche la paura della repressione non è una scusa sufficiente, né
tantomento una spiegazione per l' inefficienza dei serbi buoni. Dopo tutto,
i militari e la polizia serbi hanno iniziato bombardare i villaggi albanesi
e a massacrare i civili albanesi più di un anno fa. Come mai i serbi buoni
non se la sono sentita di protestare per la guerra contro gli albanesi del
Kosovo prima che intervenisse la NATO?

Inoltre, i serbi filo-democratici, in altre circostanze, hanno dimostrato
di non temere il regime. C'è stato anche un breve periodo in cui pensavo
che ormai Milosevic fosse arrivato alla resa dei conti. E' stato nel
dicembre 1996, un anno dopo la fine della guerra in Bosnia. Decine di
migliaia di serbi sono scesi in strada a Belgrado per chiedere le
dimissioni di Milosevic. Ero là, nella bellissima città vecchia di
Belgrado, tra drappelli di manifestanti nella Piazza della Repubblica.
Erano studenti ed operai, anziani e famiglie. Avevano con sé fischietti e
cartelloni, e battevano le mani su pentole e padelle. Erano di un umore fra
il gioioso e il beffardo, ed io mi sono lasciata coinvolgere, non riuscendo
a contenere l' emozione alla prospettiva dell' imminente caduta di
Milosevic. 

La ragione apparente di questa manifestazione era che Milosevic aveva fatto
dei brogli in diverse città, tra cui Belgrado, dove erano stati eletti i
sindaci ed altri pubblici ufficiali dell' opposizione . Mi sono detta:
finalmente i serbi hanno ritrovato la loro anima e sono indignati dal ruolo
del loro leader nell' assedio di Sarajevo, dalla distruzione di Vukovar e
dal massacro di Srebrenica. 

I serbi continuarono a protestare contro Milosevic per 90 giorni anche
sotto la neve e con temperature glaciali, ogni giorno, senza pause. Così
facendo, smentirono l' argomento per cui i serbi sono solo bambocci nelle
mani della propaganda della TV di stato. La TV di Milosevic cercò di
spacciare decine di migliaia di dimostranti per uno sparuto gruppo di
terroristi e di hooligans, ma gli oratori durante i comizi la misero nel
ridicolo per la propaganda primitiva che era. Anzi, la protesta continuò,
ed una delle richieste del movimento fu che Milosevic rinunciasse al
monopolio sulla televisione perché il pubblico era stufo delle sue bugie e
della propaganda. 

Quanto al fattore paura, molti dimostranti furono picchiati ed arrestati
dalla polizia, ma il movimento non si lasciò intimidire. I tre mesi di
protesta finirono pacificamente, con una parziale vittoria dei dimostranti:
Milosevic cedette infatti alcuni poteri ed alcuni posti ai suoi oppositori.


Queste proteste costituiscono uno dei movimenti popolari più giganteschi
che ho mai visto. Mi sbagliavo, però, a credere che a loro importasse
qualcosa dei crimini commessi dal regime in Bosnia. Il movimento
democratico belgradese non ha mai aggiunto i crimini della guerra in Bosnia
alla lista delle lamentele contro Milosevic. Facendo ciò infatti si sarebbe
divisa l' opposizione (che contiene anche degli elementi ultranazionalisti)
e ci si sarebbe alienati il pubblico consenso. 

La Serbia non è la Germania Nazista; Slodoban Milosevic non è Adolf Hitler;
e i bosniaci musulmani e gli albanesi kosovari, i cui eserciti irregolari
hanno ucciso alcuni serbi a tradimento, non sono esattamente indifesi ed
innocenti come gli ebrei europei. Eppure, la relativa assenza di una
protesta serba efficace e soprattutto, il silenzio degli intellettuali in
materia di crimini di guerra, solleva seri argomenti in favore della
colpevolezza di tutti serbi, in generale, per le azioni del governo
autoritario che li guida. 

La stessa nozione di colpa collettiva ci lascia perplessi. Lo stesso
concetto di tribunale per i crimini di guerra si basa giustamente sulla
premessa che gli individui, e non già le società intere, sono responsabili
quando si verificano atrocità come quelle che avvengono da un decennio nei
Balcani. Ma quel che più colpisce nell' odierna pulizia etnica dei serbi è
la stessa cosa che colpiva Daniel Jonah Goldhagen nel parlare dell'
atteggiamento dei tedeschi nei confronti degli ebrei durante l' Olocausto.
Non si tratta solo della completa assenza di una protesta seria o
sostanziale: ci sono anche il sadismo gratuito, il volontarismo, l'
entusiasmo e la crudeltà nello svolgere il compito loro assegnato e per cui
si sono auto-eletti che  (per usare le parole di Goldhagen) i serbi hanno
dimostrato, al pari dei tedeschi durante la II Guerra Mondiale. Gli
albanesi dicono di essere stati costretti a gridare "questa è Serbia"
mentre venivano cacciati dalle loro case in Kosovo, o ad alzare le tre
dita, nel saluto serbo. Gli albanesi kosovari sono stati perquisiti alla
ricerca di gioielli e denaro; le loro case sono state depredate. La stessa
cosa era successa in Bosnia. 

Forse il dettaglio più rivelatore della protesta di Belgrado erano gli
insulti che questi serbi che marciavano per la democrazia scagliavano
contro Milosevic: "Slobo è un turco! " urlavano, usando un termine che si
riferisce al nemico storico dei serbi, gli Ottomani, ma che è altrettanto
comune come offesa moderna, solitamente riferita ai bosniaci musulmani.
"Slobo è un ustascia !" strillavano, riferendosi ai croati fascisti che si
erano alleati con i nazisti nella II Guerra Mondiale ed avevano ucciso
centinaia di migliaia di serbi. E quando si sono presentati gli autobus
carichi di truppe antisommossa mandate da Milosevic, la risposta dei
manifestanti pareva voler avvertire i poliziotti che stavano mirando all'
obiettivo sbagliato "Andate in Kosovo, andate in Kosovo", si sgolavano. 

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Stacy Sullivan è consulente della John F. Kennedy School of Government's
Human Rights Initiative, (Istituto John F. Kennedy per l' Iniziativa
Governativa a favore dei Diritti Umani, N.d.T) presso l' università di
Harvard. E' stata inviata di Newsweek nei Balcani per due anni e di recente
ha scritto articoli sul Kosovo per il New York  Times Magazine.