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Storia della Marcia per la Pace di Aldo Capitini - parte 3

Documento scritto da Aldo Capitini - 1963




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Il prefetto di Perugia aveva mandato alle amministrazioni comunali e provinciali una circolare proibendo di portare alla "Marcia della pace" i gonfaloni della città.

Come le gerarchie ecclesiastiche avevano dato ordine al clero di non partecipare, e nelle chiese era stato detto che quella era una marcia comunista e paracomunista da evitare; e tuttavia quando i marciatori incontrarono ecclesiastici, non un’offesa, non un fischio si levò; cosi, mentre il prefetto aveva preso quell’iniziativa contro la volontà dei consigli comunali e provinciali ed aveva mobilitato un numero ingente di forze di polizia all’inizio, lungo la Marcia e sul prato, nulla, proprio nulla accadde, e non certamente perché c’erano quelle "forze", ma per autodisciplina dei partecipanti, per fiducia negli organizzatori e perché un entusiasmo e una fede potevano esprimersi in un modo così semplice e chiaro, senza la soggezione e l’inferiorità che il popolo sente nei congressi. I giovani stessi, e la Marcia era piena di giovani, seppero frenarsi.

I frati di Santa Maria degli Angeli erano impressionati la mattina (così dissero ad una signora) dell’arrivo di tanta gente "rossa": quando videro quei popolani visitare i luoghi, interni al convento, dove visse San Francesco, e alcuni anche ascoltare la messa, si tranquillizzarono. Non vi fu un ubriaco. (...)

La Marcia ebbe i due momenti più alti quando, in quel luogo così ampio sotto la cupola di un cielo che impallidiva lentamente, Arturo Carlo Jemolo parlò della benedizione divina che certamente scendeva su quell’assemblea di pace, e quando io chiesi due minuti di silenzio per ricordare i morti nelle guerre o per causa delle guerre, e tutti si levarono in piedi, qualcuno si inginocchiò, e mi è stato detto che tutti gli appartenenti alla polizia si misero sull’attenti. Avevo scritto nel periodico mensile "Umbria d’oggi", prima della Marcia (nel numero distribuito alla Marcia, con la data 30 settembre 1961): " ... La Marcia è una decisione pratica, che si prende dopo aver pensato e parlato, come al sommo di un momento importante, è una celebrazione di solidarietà impegnata. Proprio settecento anni orsono da Perugia partirono quelle processioni religiose dei ‘Laudesi’ che, al sommo di una tensione religiosa, manifestavano un sentimento ‘dal basso’ che era maturato in decenni di alta spiritualità dalla predicazione francescana. Ma la nostra Marcia ha qualche cosa di festoso e non di contrito, e di aperto perché unisce persone di idee diverse, accomunate da un unico orizzonte universale. Non dimentichiamo che questa Marcia non è per la pace ‘nell’Umbria’, ma nel mondo intero, per le trattative tra i blocchi, per il superamento dell’ostilità fredda e calda. Con questa Marcia gli umbri si pongono su un piano universale, si affratellano ai popoli di tutti i continenti, alzano la loro voce di amicizia, e tutti coloro che conoscano anche di sfuggita la nostra regione, sentiranno accresciuta la loro simpatia per questa terra che, manifestando tali esigenze universali, dimostra di avere abitanti all’altezza di un compito importante".

Realmente la Marcia è stata un’altra prova (e non sarà la sola) di quell’insieme di apertura religiosa umana e di esigenza di trasformazione sociale che fu così vivo in Umbria nel Duecento e Trecento, in grandi movimenti e grandi lotte. C’è stato chi ha scritto che si è sentito "qualche cosa di nuovo" nella Marcia. lo credo sia soprattutto questo insieme sociale e religioso che ritorna per allargarsi nella nostra storia attuale. Ecco che, a fatto avvenuto, si possono vedere le ragioni profonde della Marcia.

Essa è stata un atto importante, forse una svolta nel nostro paese. Alcuni giornalisti hanno paragonato il fatto a quello del luglio 1960, quando "dal basso" una manifestazione antifascista arrestò l’orientamento del governo a destra. La Marcia è stata una manifestazione "dal basso", che ne ha cominciate tante altre, per isolare i nuclei militaristici e reazionari. Con l’unione stabilita tra i pacifisti e le moltitudini popolari, si è presentato un metodo di lavoro non più minaccioso di violenza, e nello stesso tempo si è avviata un’unità che è la massima che si può stabilire in Italia: quella nel nome della pace. Si è avviato un moto degli strati più profondi e dei sentimenti fondamentali del popolo italiano, un moto che non è senz’altro politico o di classe, ma è la premessa e l’addentellato per ogni lotta ed ogni educazione che voglia svolgersi in Italia per contrastare il patriottismo scolastico diffuso dai nuclei nazional-militari, e, insieme, il borghesismo edonistico che si ritrae da ogni lotta civile e sociale per la fruizione del benessere promesso dal neocapitalismo. La lotta per la difesa e lo sviluppo della pace porta preziosi elementi di coesione dal basso contro l’individualismo e il conformismo e per di più associa di colpo le donne, le famiglie, prima delle lotte politiche. E con l’accento posto sul superamento dei metodi violenti, sull’apertura e sul dialogo, non solo sollecita la nostra democrazia, e qualsiasi altra, ma preme sulle religioni esistenti, e particolarmente su quella tradizionale, perché sia messo in primo piano il rapporto nonviolento con tutti gli esseri.

Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia, durante la quale abbiamo distribuito tremila copie di un pieghevole di quattro pagine sulle idee e il lavoro del Centro per la nonviolenza. Non dico che tutto sia chiaro e acquisito, ma è certo che ora ci sono larghi gruppi di italiani che sentono che la nonviolenza ha una sua parola da dire. Con l’aggiunta della nonviolenza all’opposizione abbiamo dato vita a un fermento interno, ad uno scrupolo, ad un’autocritica; il risultato sarà che metteremo sempre meglio in luce ed isoleremo i gruppi reazionari, i loro sforzi crudeli e vani nel mondo, la loro irreligiosa difesa di una società sbagliata. Tanto più dopo gravissime denunce del pericolo di una distruzione atomica, l’impostazione di un altro metodo di lotta, quello nonviolento che mantiene il dialogo, la libertà di informazione e di critica e non distrugge gli avversari, diventa urgente; ed io credo che anche nelle scuole bisognerà insegnare il valore e le tecniche del metodo nonviolento. La resistenza alla guerra diventa oggi tema dominante, perfino con riferimenti teorici, filosofici, religiosi.