SUDAN / Comunità cristiane di soli laici

La chiesa nasce dal basso



di Kizito Sesana
foto di Gian Marco Elia

da Nairobi

Ler, situata sulle rive del grande Nilo Bianco, nel vasto e paludoso territorio dei Nuer, è al centro del Sud Sudan. E da Ler, nel 1993, un catechista sudanese, Joseph Pal Mut, venne in Kenya, a Nairobi. Mut bussò alla porta di ogni comunità religiosa missionaria che ha sede nella capitale, rivolgendo a ciascuna la stessa richiesta: "Potreste per favore mandare un prete a Ler?".
Mut bussò anche alla mia porta. Stava là, ritto come una freccia, leggermente più alto della media, duro come una roccia, con una faccia simpatica. Mut mi stava chiedendo un sacerdote, nient'altro.
Stando a quanto mi diceva, migliaia di cattolici avevano bisogno del ministero di un prete. Era difficile prendere seriamente le sue parole. La percentuale di nuer - l'etnia locale prevalente - che aveva accolto il Vangelo prima della guerra civile sudanese era minima, e la maggioranza di loro erano presbiteriani.
Non c'era mai stata una missione cattolica a Ler. La diocesi di Malakal, nei cui confini rientrava Ler, contava - secondo le ultime statistiche ufficiali - un totale di circa 37.100 cattolici, su una popolazione di 2,7 milioni sparsi su un'area di 238.000 chilometri quadrati. Il vescovo di Malakal e i suoi pochi preti erano stati costretti a limitare la loro attività ad una piccola area attorno a Malakal, a motivo della guerra civile. Mut, un neo-convertito, era venuto a conoscenza del cattolicesimo durante il periodo in cui era stato un rifugiato in Etiopia. E quando mi tirò fuori taccuini spiegazzati con migliaia e migliaia di nomi di battezzati, pochi riuscirono a crederci. Ma lui non desistette.

Chiesa di laici

Alla fine, il mio confratello padre Paul Donohue ed io decidemmo di assumere il rischio di andare a Ler. Volevamo vedere con i nostri occhi che cosa stava succedendo. Passammo una settimana nelle vicinanze di Ler e fummo testimoni dell'incredibile lavoro fatto da un gruppetto di giovani catechisti sotto la guida di Mut. Visitammo cappelle in remote zone rurali dove la gente dei villaggi circostanti si sarebbe riunita. Parlando con loro potemmo verificare che conoscevano gli elementi essenziali della fede. Ovunque ci fu possibile celebrammo l'eucaristia con adulti cattolici che non avevano mai visto un prete nella loro vita.
Là, in assenza di qualunque struttura di chiesa, nell'assoluta miseria, nel mezzo di un'aspra guerra civile, c'era questa gente che si stava convertendo alla chiesa cattolica. Per quasi un secolo erano rimasti indifferenti alla fede in Cristo. Ora la stavano abbracciando attraverso il lavoro di un giovane quasi analfabeta.
I cristiani si erano abituati a chiamare i loro catechisti abuna (padre). Avevamo l'impressione, difficile da verificare, che alcuni di loro stessero celebrando qualche rito simile all'eucarestia. La loro fede e amore per Gesù era assolutamente seria e incontestabile. In effetti, erano profondamente preoccupati di mantenere la comunione con la chiesa universale. La prova di questo venne più tardi. All'inizio del 1993, sotto la guida capace del vescovo, provvisoriamente incaricato di esercitare il ministero in quella zona, fu possibile visitare l'area di Ler regolarmente e mandare alcuni preti: tutta la comunità accettò la transizione senza alcun trauma né scissione.

Diaconato permanente

Più recentemente, nell'agosto 1995, ebbi l'opportunità di visitare i Monti Nuba, nel cuore del Sudan. Di nuovo la visita ebbe seri ostacoli logistici, non senza qualche pericolo. Iniziò con un volo di tre ore passando sulla regione teatro di guerra, in un piccolo aereo che dal Kenya ci portava verso l'interno del Sudan. Una volta a terra, camminammo parecchi giorni attraverso la boscaglia per raggiungere la zona di Heiban.
Nei Monti Nuba la guerra civile ha causato il totale sconvolgimento economico e sociale della popolazione. Attualmente, circa 300 mila civili nuba vivono nell'area controllata dall'Spla (Esercito di liberazione del popolo sudanese). Il resto degli abitanti sta subendo un'operazione simile alla pulizia etnica, praticata dal governo di Khartum. Migliaia di nuba sono stati costretti ad andare nel nord Sudan ed altre migliaia sono profughi che tentano di sfuggire ai campi di lavori forzati.
La popolazione civile vive in questi "campi di pace", come vengono eufemisticamente chiamati, in condizioni simili a quella dei campi di concentramento. Le donne sono costrette a diventare temporaneamente "mogli" di soldati musulmani, mentre gli uomini sono tenuti lontano dalle loro famiglie e costretti a lavorare nei campi o a servire i soldati. La popolazione nuba è completamente isolata dalla comunità internazionale. Nessuno l'ha aiutata, nonostante le loro condizioni siano state fatte conoscere da resoconti precisi stilati dai pochi giornalisti che - a rischio della loro vita - hanno visitato la regione come osservatori indipendenti. La popolazione nubana, privata di qualunque assistenza umanitaria internazionale, ha sperimentato solo la furia devastante del governo di Khartum, dall'inizio della guerra civile fino ai nostri giorni.
La loro tragedia è stata documentata da un'équipe di African Rights, un'organizzazione con base a Londra dedita a questioni di gravi abusi di diritti umani, di conflitto, carestia e ricostruzione civile in Africa. Nel luglio 1995 African Rights ha pubblicato un rapporto di 344 pagine intitolato "Di fronte a un genocidio: i nuba in Sudan". In esso viene data ampia e dettagliata testimonianza per dimostrare che nella regione sta compiendosi la distruzione di un popolo.
Il diaconato permanente, che nella chiesa cattolica africana è praticamente inesistente, ha attecchito nella zona controllata dall'Spla sui Monti Nuba dove vivono e lavorano tre diaconi permanenti. Fu il vescovo di El Obeid che tempo addietro vide avvicinarsi la tempesta e, con lo scopo di preparare la giovane chiesa nubana ad ergersi da sola, ebbe la preveggenza di ordinare questi uomini. Per quasi dieci anni i tre diaconi e la comunità cattolica sono stati completamente tagliati fuori dal loro vescovo.
Ma la vita della chiesa va avanti, pur in mezzo a tanti problemi. Il più grosso è indubbiamente la mancanza dell'eucaristia e i fedeli ne sentono il bisogno. "Se un prete non può stare con noi, non potreste inviarci l'eucarestia per aereo?", ci chiedono i catechisti durante il nostro primo incontro, al quale sono giunti dopo aver camminato tre o quattro giorni. Malgrado il loro isolamento, le comunità cristiane sono cresciute in numero. I catechisti mostrano registri con centinaia e centinaia di nomi di adulti neobattezzati, nomi di nuove comunità in villaggi lontani, dove dieci anni fa solo l'islam e le religioni tradizionali venivano praticate.

"Simbolo dell'eucaristia"

I catechisti viaggiano a piedi e danno lezioni di catechismo in un posto situato al centro del villaggio. In questa situazione di isolamento e persecuzione, lo Spirito ha lavorato chiaramente attraverso tre diaconi, un gruppo di catechisti e altri leader laici.
Cosa chiedono queste nuove comunità cattoliche? Ho domandato loro cosa potevo fare durante una celebrazione eucaristica a tarda notte, con una comunità di gente malnutrita e vestita di stracci - alcuni tra i presenti erano riusciti a sgusciar fuori da un "campo di pace" non troppo distante per venire alla messa. La loro risposta corale, travolgente è stata: "Vogliamo l'eucaristia, desideriamo avere un prete, e sentirci parte della chiesa cattolica". Fu difficile non commuoversi davanti alla fede di questa gente semplice, piena di dignità, che sopporta la persecuzione nel nome della fede e che non chiede alcun aiuto.
Tale richiesta da parte della comunità fu talmente insistente che alla fine due diaconi decisero di parlare apertamente. Dopo aver capito che non avevo fatto tutta quella strada fino ai Monti Nuba per giudicarli, mi raccontarono come avevano pensato a qualcosa per soddisfare la fame di eucaristia. Sapendo di non aver alcun mandato per celebrarla, escogitarono un surrogato dell'eucaristia, un segno di un segno. Ecco la descrizione: "Le ragazze pre-adolescenti vanno a mietere la durra, che viene macinata in farina e usata per preparare il kisra (un pane piatto non lievitato). I più anziani e il resto di noi si riuniscono fuori della cappella e pregano sopra il kisra. Chiediamo a Dio di renderlo un segno del suo amore e della sua presenza fra noi. Poi distribuiamo e mangiamo il kisra durante il servizio della preghiera. Sappiamo, come sanno anche i fedeli, che questa non è l'eucarestia, ma è il nutrimento che ci aiuta ad andare avanti, finché un giorno avremo un prete che ha l'autorità di saziarci con il Corpo di Cristo".
Inevitabilmente il cuore mi ha posto parecchie domande. Perché - mi sono chiesto - quando circostanze fuori dal controllo della chiesa inducono i laici ad assumere potere, questi mostrano iniziativa, energia, e un impegno che raramente si vedono in comunità più strutturate? _ opportuno e giusto, date queste speciali condizioni (ma situazioni simili, se non così drammatiche, esistono o esistevano in molte altri parti dell'Africa), lasciare comunità per lunghi periodi, persino molti anni, senza il sostegno dei sacramenti, in particolare senza l'eucaristia? Le parole di Gesù "Fate questo in memoria di me" non sono forse una disposizione anche per coloro che non hanno un sacerdote? Persone come i catechisti nuer e i diaconi nuba non sono forse i leader naturali, collaudati e più anziani delle loro comunità? Cosa dovrebbe impedire ai vescovi di ordinarli? Non sarebbero certo meno preparati di sacerdoti che escono dai seminari, così spesso asettici, non toccati dalla vita reale, distanti dalle ansie della gente.

Fame di pace...

Ci sono anche altre domande che mi sono state suggerite da un altro aspetto del mio ministero in Africa, chiaramente connesso con la situazione di guerra in Sudan. Potrebbe essere chiamato la riconciliazione comunitaria. Membro di un gruppo di persone che cominciò a riunirsi a Nairobi nel 1989 sotto il nome di "Gente per la pace in Africa", sono stato coinvolto in numerosi colloqui e seminari di riconciliazione. Ancora una volta le cose si sono evolute a partire dalla base. La prima richiesta venne dalle fazioni dell'Spla in lotta tra di loro, che ci chiedevano di aiutarli a trovare un accordo. Poi è stata la volta dei giornalisti somali che vollero un seminario di riconciliazione, quindi le donne sudanesi, i rifugiati rwandesi e le vittime dei cosiddetti scontri tribali in Kenya. Ma l'elenco va aumentando continuamente.
All'inizio rimasi stupito e non sapevo come comportarmi, tanto mi sentivo impreparato per questo ministero. Cosa si può fare con 50 persone in un salone, tra di loro profondamente divise e tuttavia - almeno a livello personale - desiderose di trovare una via di uscita dalla spirale dell'odio e della violenza? Come possono essere guarite le loro ferite, e che riconciliazione significativa e durevole può esser raggiunta? Niente nella mia formazione mi aveva preparato a questo. Assieme ad amici, abbiamo dovuto immaginare, creare, pregare, essere profondamente feriti prima di trovare alcuni possibili sentieri praticabili.
Oggi siamo un po' meno impreparati di alcuni anni fa. L'insegnamento teologico che ci era stato impartito negli anni di seminario era centrato quasi esclusivamente sull'aspetto individualistico e spirituale del sacramento della riconciliazione. La dimensione comunitaria - la riconciliazione del penitente con tutta la chiesa - era lasciato all'impegno e sensibilità del penitente. Raramente, se mai accadeva, il rito penitenziale veniva celebrato in comunità.
Ora, i membri del gruppo "Gente per la Pace" sentono un'enorme esigenza del ministero del peace-keeping (mantenimento della pace), del peace-making (costruzione della pace) e della riconciliazione che supera il livello interpersonale puntando al livello della comunità. Situazioni esplosive, che potrebbero diventare altrettanti Rwanda, esistono in tutta l'Africa. A livello locale ci sono tensioni fra ricchi e poveri, tradizione e modernità, nomadi dediti alla pastorizia e popolazioni contadine stanziali.
Le giustapposizioni sono infinite. Queste tensioni stanno lacerando il tessuto sociale del continente. Può la chiesa essere colta nuovamente alla sprovvista? Come può esercitare il potere di guarigione di Gesù in queste divisioni? E' possibile immaginare un rito di riconciliazione che coinvolga due comunità?

... e di riconciliazione

In un documento intitolato Scacciare la paura, pubblicato a Nairobi in preparazione al sinodo africano del 1994, si osservava che la chiesa sta imparando ad apprezzare sempre di più la tradizione africana del peace-making e della riconciliazione. In una serie di considerazioni, basate sul fatto che Dio in Cristo ci ha donato il ministero di riconciliare la gente e le comunità, il documento chiedeva che questo potere venisse riconosciuto ai laici, rendendoli così più partecipi nel peace-making e nella riconciliazione a tutti i livelli. Più concretamente, i laici potrebbero essere educati ai metodi, teorici e pratici, di resistenza creativa ed evangelica all'ingiustizia, e alla promozione di una società più umana e partecipe. Il documento suggerisce anche che "la dimensione sociale e di peace-making dell'eucaristia e del sacramento della riconciliazione dovrebbe essere sottolineata. In particolare il sacramento inculturato della riconciliazione dovrebbe essere celebrato in occasioni pubbliche per ratificare il raggiungimento della pace dopo la risoluzione di un conflitto".
E' chiaro che l'attuale forma canonica della celebrazione del sacramento della riconciliazione è altamente inadeguata, in particolare per il contesto comunitario della società africana. Occorre domandarsi se la chiesa stia rispondendo a questa fame di pace e di riconciliazione, che viene dalla gente. O se invece continui a ripetere cose scontate e pronunciamenti di condanna della violenza, senza offrire alcuna alternativa per risolvere alla radice le cause dei conflitti.

Richiesta di nuovi ministeri

La fame di eucaristia, la fame di pace sono aspetti diversi di un'unica esigenza fondamentale: il desiderio ardente della gente di essere sanata dalla potenza guaritrice di Gesù, capace di ripristinare l'amore e la comunità dove c'è odio e divisione.
Ho messo sul piatto più domande che risposte. Questo è normale, dato che non sono un teologo e nemmeno un assistente sociale. Sono un prete che, come molti altri preti, ascolta l'angoscia e il pianto della gente. Ho cercato risposte alle mie domande nei documenti più recenti e non ne ho trovata alcuna. Solo principi generali.
L'esortazione postsinodale Ecclesia in Africa non è differente dagli altri documenti della chiesa. Non ho trovato risposta alle mie domande. Sono d'accordo con monsignor Jean Zoa, arcivescovo di Yaoundé, che avrebbe detto: "Dopo il Concilio Vaticano II abbiamo constatato come le chiese che stavano al passo con l'aggiornamento erano quelle che si ponevano domande, quelle che sentivano di avere problemi pastorali ed erano desiderose di risolverli. Lo stesso accadrà per il sinodo africano". Quelle chiese che pensano che adesso possono rilassarsi perché il sinodo è stato celebrato e perché ci sono alcune linee-guida generali nell'Esortazione apostolica, corrono il rischio di essere lasciate indietro dalla vita e di diventare chiese anemiche.
Il mio istinto pastorale mi dice che noi inizieremo a trovare una risposta alle domande che ci vengono poste quando ci fideremo dei laici, daremo loro potere, e prenderemo seriamente quel che hanno da dire riguardo alla loro partecipazione al sacerdozio di Gesù. E' importante non rinunciare alla nostra ricerca.

Kizito Sesana


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