Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra
CONVEGNO:
Scudo spaziale, Industria Bellica, Tecnologie Militari:
quale utilità, quali interessi in campo?
A cura di Massimo Zucchetti
(Politecnico di Torino, Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra)
Interventi di:
Vito Francesco Polcaro
Mario Vadacchino
Francesco Bonavita
Marco Sassano
Studenti di Ingegneria Senza Frontiere
Giovanni Salio
Angelo Baracca
POLITECNICO DI TORINO
Sala Consiglio Facoltà di Ingegneria
Corso Duca degli Abruzzi, 24
Lunedì 24 settembre 2001
Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra
ATTI DEL CONVEGNO:
Scudo spaziale, Industria Bellica, Tecnologie Militari:
quale utilità, quali interessi in campo?
A cura di Massimo Zucchetti
(Politecnico di Torino, Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra)
Rapporto
PT DE 544/IN
Dicembre 2001
POLITECNICO DI TORINO – DIPARTIMENTO DI ENERGETICA
Corso Duca degli Abruzzi, 24 – 10129 Torino
Indice 3
Introduzione (m. zucchetti) 4
ANNUNCIO DEL CONVEGNO 7
Armi di distruzione di massa e 'Scudo Stellare': un rimedio peggiore del male? (v. f. polcaro) 8
ARMI NON LETALI ED ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA "CONVENZIONALI": la guerra nell'era della "globalizzazione" (v. f. polcaro) 11
IL TRATTATO ABM E LE DIFESE ANTIMISSILISTICHE (m. vadacchino) 22
ATTIVITà DI PRODUZIONE E RICERCA IN AMBITO MILITARE IN ALENIA (f. bonavita) 27
Industria degli armamenti, nuove tecnologie e questione delle alternative (m. sassano) 32
INTERVENTO PER LA PACE (m. pesenti, R.GHISU) 41
Il secolo nucleare (g. salio) 43
DIFESA ANTIMISSILISTICA E STRATEGIE IMPERIALI (a. baracca) 56
Gli ultimi mesi del 2001 hanno visto il preoccupante ritorno alla ribalta delle questioni riguardanti la guerra e gli armamenti.
Dopo l’undici di settembre – con l’attentato alle torri gemelle a New York – risultava abbastanza chiaro come lo scenario internazionale si sarebbe rapidamente deteriorato verso un clima assai pesante di guerra permanente.
Vi è stato, negli ultimi anni, un impegno costante contro la guerra da parte di un gruppo di ricercatori di Università e Centri di Ricerca, inseriti in vari ambiti ed associazioni – quali il Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra, il Centro Studi Sereno Regis, l’Associazione per la Pace, l’Unione Scienziati per il Disarmo, ed altre ancora.
La reazione da parte di alcuni di noi, di fronte a questo preoccupante scenario, è stata quella di fornire un contributo a livello di informazione e di riflessione.
Mai come nei momenti di delirio guerriero, che periodicamente affliggono la società, è importante che le voci che invitano alla riflessione e all’analisi non tacciano: chi mantiene la capacità di ragionare – evitando di cadere nelle facili generalizzazioni che il "pensiero dominante" propone in questi casi – deve cercare di trasmettere questa sua capacità a tutti, attraverso l’informazione, anzi, meglio e purtroppo, la controinformazione.
L’attitudine "accademica" (absit iniuria verbis…) di molti di noi – ed in primis dello scrivente – ha consigliato di articolare l’iniziativa sotto forma di un Convegno, da tenersi presso una sede universitaria qualificata, ma aperto, in forma di Incontro-Dibattito, all’intervento di chiunque ritenesse di avere interesse o contributi da fornire.
L’attitudine "tecnologica" di molti di noi – ed anche qui lo scrivente si pone fra i colpevoli – ha poi fatto puntare la focalizzazione dell’incontro sull’argomento dell’industria bellica e delle tecnologie militari, che hanno la loro ultima triste ribalta nel ritorno in auge del cosiddetto "scudo spaziale" e nella ricerca di nuovi armamenti.
Il risultato è stato l’incontro-dibattito tenutosi nella Sala Consiglio di Facoltà del Politecnico di Torino il 24 settembre 2001. Esso ha visto una foltissima partecipazione di "pubblico" – la sala consiglio era letteralmente piena di persone – e l’intervento di relatori qualificati.
Dopo gli interventi dei relatori, è seguito un dibattito assai prolungato ed in alcuni momenti anche – giustamente – vivace, con oltre una decina di interventi da parte di persone del pubblico.
Alla fine della giornata, l’impegno preso dal sottoscritto - che si trovava a ricoprire il ruolo di moderatore del dibattito - è stato quello di provare a dare un seguito all’iniziativa, sia promuovendo altre occasioni di incontro, sia lasciando traccia della giornata mediante la pubblicazione di un Quaderno che ne costituisca gli Atti.
Da uno degli interventi al dibattito del 24 settembre – a cura dell’associazione studentesca "Ingegneria senza frontiere" (ISF) – è poi emerso un punto che stimolato ulteriore riflessione ed iniziativa. L’intervento, pubblicato anche sulla rivista di ISF, è riportato anche in questo Quaderno. A metà dicembre, sempre presso il Politecnico, si è tenuto infatti un incontro sul tema "Etica e Scienza", che ha sviluppato il tema annoso del dilemma dello scienziato e del tecnologo davanti al coinvolgimento e all’applicazione militare della scienza. Nell’incontro – organizzato da ISF ed al quale hanno partecipato molti studenti – vi sono state le relazioni dello scrivente e di Giovanni Salio del Centro Studi Sereno Regis.
Risparmiando al lettore la prima delle due relazioni, traccia della seconda è reperibile come contributo scritto di Giovanni Salio in questo Quaderno.
Parimenti è reperibile il contributo di un collega ed esperto sulle questioni degli armamenti, quale è Angelo Baracca, che, trovandosi fuori dall’Italia, era stato impossibilitato ad aderire all’invito per l’incontro del 24 settembre.
Durante il Convegno, tutti i relatori paventavano l’imminenza dello scoppio di una guerra in Afghanistan, come riporta anche l’annuncio della giornata stessa ("I recenti avvenimenti internazionali fanno temere un ritorno all’idea della guerra come una possibile risposta, in un’atmosfera di corsa agli armamenti vecchi e nuovi"). I fatti susseguenti hanno confermato quanto i relatori siano stati – come purtroppo sappiamo – facili profeti.
Alla fine dell’anno 2001, la situazione è quella che si poteva facilmente prevedere: le operazioni di guerra sono ancora in atto, immani distruzioni e migliaia di morti - attuali e potenziali - sono stati causati in Afghanistan dalla guerra, la maggior parte di queste vittime sono civili innocenti, e infine i mandanti dell’attentato dell’undici settembre sono tuttora impuniti.
Siamo più che certi che questi sviluppi erano pienamente previsti non soltanto da noi, ma ben più sicuramente anche da chi ha iniziato la guerra all’Afghanistan.
Altrettanto previsto ed emblematico è stato l’uso del nuovo campo di battaglia per la sperimentazione di nuovi armamenti, fra le quali alcune armi di distruzione di massa.
Per concludere, in mezzo alle notizie quasi quotidiane dell’apertura di potenziali nuovi scenari di guerra, crediamo di poter fornire un ulteriore contributo all’informazione e alla riflessione sui fatti accaduti, mediante la pubblicazione di questo Quaderno.
Il curatore – scrivente di questa introduzione – ringrazia innanzitutto gli autori dei contributi, che hanno tenuto mirabilmente parola all’impegno di dare seguito scritto al loro intervento.
Il Politecnico di Torino va ringraziato per lo spazio ed i mezzi concessi, dimostrazione ulteriore dell’attenzione dell’Ateneo verso queste problematiche.
Lo scrivente desidera poi rimarcare l’essenziale contributo economico ed organizzativo fornito da CGIL Piemonte. Un particolare ringraziamento ai colleghi del Politecnico Rino Lamonaca e Antonio Grassedonio.
Tutti gli intervenuti alle due iniziative vanno parimenti ringraziati, così come anche le associazioni e realtà che in vario modo hanno contribuito: SNUR-CGIL Piemonte; FIOM-CGIL Piemonte; RSU Politecnico di Torino; Torino Social Forum; CGIL-Lavoro e società-Cambiare Rotta; Ingegneria Senza Frontiere; Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra; Unione Scienziati Per Il Disarmo.
Torino, 26 dicembre 2001
Massimo Zucchetti
Politecnico di Torino
Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra
Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra
I recenti avvenimenti internazionali fanno temere un ritorno all’idea della guerra come una possibile risposta, in un’atmosfera di corsa agli armamenti vecchi e nuovi.
Per informarci e per capire, organizziamo un Incontro-Dibattito sul tema:
Scudo spaziale, Industria Bellica, Tecnologie Militari:
quale utilità, quali interessi in campo?
POLITECNICO DI TORINO
Sala Consiglio Facoltà di Ingegneria
Corso Duca degli Abruzzi, 24
Lunedì 24 settembre 2001 – Ore 14:30
Interverranno:
Massimo Zucchetti
(Politecnico di Torino, Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra), moderatore
Vito Francesco Polcaro
(CNR Roma, Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra, Unione Scienziati per il Disarmo)
Mario Vadacchino
(Politecnico di Torino, Unione Scienziati per il Disarmo)
Francesco Bonavita
(delegato sindacale RSU Alenia Spazio)
Marco Sassano
(Associazione per la pace)
Giorgio Cremaschi
(Segretario Generale FIOM-CGIL Piemonte)
SNUR-CGIL Piemonte; FIOM-CGIL Piemonte; RSU Politecnico di Torino; Torino Social Forum; CGIL-Lavoro e società-Cambiare Rotta; Ingegneria Senza Frontiere; Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra; Unione Scienziati Per Il Disarmo
Armi di distruzione di massa e 'Scudo Stellare': un rimedio peggiore del male?
V.F. Polcaro
Senior Scientist
CNR-IAS
Area di Ricerca Roma-Tor Vergata
e-mail: polcaro@saturn.ias.rm.cnr.it
Il Presidente del Consiglio, dopo l’orribile strage negli Stati Uniti dell’11 settembre, ha dichiarato che i recenti avvenimenti mostrerebbero "anche ai sordi" la necessità dello "Scudo Spaziale".
Questa affermazione dimostra inequivocabilmente che l’On. Berlusconi parla di "Scudo Spaziale" senza neppure aver capito di cosa si tratta. Infatti, NMD e’ la sigla di National Missiles Defense, cioè Difesa Nazionale dai Missili e, come dice il nome stesso, e’ un progetto statunitense per sviluppare un sistema di missili capaci di intercettare la testata (cioè il carico utile militare, quello che ha il compito di distruggere il bersaglio) di un missile nemico prima che questa raggiunga il suo obiettivo.
Ammesso, e tutt’altro che concesso, che un tale sistema d’arma sia tecnicamente realizzabile, esso non sarebbe stato di alcuna utilità per difendere New York e Washington dall’attacco terroristico condotto non da missili balistici ma da poche decine di kamikaze armati di coltello. E’ evidente che, se l’attacco fosse stato scoperto per tempo, non sarebbero certo state necessarie armi sofisticate per sventarlo. Anche se la reale natura dell’attacco fosse stata scoperta dopo che i terroristi si fossero impadroniti degli aerei che intendevano usare per gli attacchi suicidi, sarebbe bastato il più obsoleto caccia in dotazione alla Guardia Nazionale per impedire il peggio, cosa che e’ avvenuta nel caso dell’ultimo aereo dirottato, quello che non ha raggiunto il suo obiettivo.
I drammatici avvenimenti della scorsa settimana quindi non cambiano per nulla la nostra opinione relativa alla NMD.
E’ un progetto inutile, perché non e’ realizzabile un sistema d’arma che sia in grado di dare una probabilità abbastanza alta di distruggere un missile balistico prima che colpisca il suo obiettivo: ciò non dipende dalla tecnologia utilizzata ma esclusivamente dalla velocità del missile attaccante, dalla facilità nel realizzare contromisure che ingannino il missile intercettore, dall’entità dei danni che l’esplosione della testata può provocare anche se è distrutta a qualche chilometro di distanza verticale dal bersaglio e soprattutto dalla possibilità di saturare le capacità di difesa del nemico, attaccandolo con un numero sufficiente di testate.
Il progetto e’ inutile anche perché lo scenario politico che lo giustifica e’ illogico: infatti, a differenza di un anonimo atto terroristico, uno "stato fuorilegge" (comunque si debba interpretare questa strana definizione di politica internazionale coniata negli Stati Uniti) che attaccasse un’altra nazione, anche molto meno potente degli USA, con un missile balistico armato con una testata nucleare o biologica o chimica "firmerebbe" inequivocabilmente il suo crimine con la traiettoria del suo missile ed otterrebbe il solo risultato di farsi cancellare dalla faccia della Terra dalla reazione della comunità internazionale nel giro di qualche ora al massimo.
Contemporaneamente tuttavia, la NMD e’ un progetto pericoloso per l’auspicabile processo di disarmo. Esso, indipendentemente dalle sue possibilità di successo, porterebbe inevitabilmente tutte le nazioni già in possesso di missili nucleari ad aumentare il loro numero e la loro letalità, in modo da garantirsi la certezza statistica di infliggere danni inaccettabili all’avversario anche se una parte dei missili (grande o piccola che sia) potesse venire distrutta prima di raggiungere l’obiettivo. Esso inoltre viola patentemente il "Trattato anti-ABM" e costituisce quindi un pericolosissimo precedente che potrebbe incentivare tutte le nazioni a violare i diversi trattati di disarmo già sottoscritti o a ritirarsene unilateralmente, rischio che e’ molto forte specialmente per il trattato contro le armi biologiche, che deve essere rinnovato l’anno prossimo e che e’ gia’ di per se’ a rischio per il rifiuto degli Usa a permettere le ispezioni dei propri laboratori biologici militari.
Inoltre, data la logica militare, se un sistema di difese antimissile, anche se per inevitabile conseguenza di quanto detto precedentemente poco efficace, venisse reso operativo da una qualsiasi potenza nucleare, tutte le altre sarebbero inevitabilmente costrette a modificare la propria strategia, passando da una condizione di "lancio in caso di attacco confermato" ad una di "lancio al primo allarme" dei propri missili a testata nucleare. Infatti, dato che la contromisura piu’ semplice ed economica contro i sistemi antimissile e’ quello di saturare le difese avversarie con un numero sufficientemente alto di testate, il sistema piu’ sicuro per evitare di trovarsi senza capacita’ di ritorsione in caso di aggressione nucleare e’ quello di lanciare i propri missili al minimo rischi di attacco, in modo da evitare che una parte di essi possa essere distrutta a terra. Dato poi che il tempo per lanciare i missili "al primo allarme" e’ solo di qualche minuto (circa 5 minuti per un attacco americano alla Russia), il rischio di guerra nucleare per errore aumenterebbe enormemente.
Infine, questo desiderio di rendersi invulnerabili proclamato dagli USA, e da quei loro alleati che sconsideratamente volessero aggregarsi a questa improvvida iniziativa, non può che incentivare i gruppi terroristici ad attaccarli nel modo più sanguinoso possibile, cosa che e’ resa disgraziatamente molto semplice, non dalla sofisticazione delle armi dei terroristi ma dalla vulnerabilità della società moderna, che ha accentrato in spazi molto ristretti numeri enormi di persone. E questo purtroppo e’ già stato drammaticamente verificato da quanto e’ appena avvenuto.
Lo stesso episodio di attacco terroristico agli USA con armi biologiche (sicuramente non correlato con gli attacchi dell’11 settembre per quanto riguarda l’origine) dimostra inequivocabilmente come sia assolutamente inutile impostare la difesa contro le armi di distruzione di massa secondo l’ipotesi di un attacco missilistico: inviare le spore dell’antrace per lettera e’ sicuramente piu’ facile ed e’ alla portata di tutti.
Non possiamo poi dimenticare che la NMD e’ stata proposta dall’amministrazione Clinton sostanzialmente come intervento di tipo keynesiano mascherato per sostenere, con sostanziali commesse pubbliche, l’industria aerospaziale statunitense in grave crisi. Questo progetto quindi non e’ e non e’ mai stato di alcuna utilità economica per l’Europa, alla quale era sostanzialmente chiesto solo di sostenere economicamente l’ingentissimo costo del programma: infatti, la quasi totalità dei politici europei si sono sempre dimostrati molto riluttanti a dare un’eventuale adesione.
Tuttavia, si trova sempre qualcuno che vuole essere più realista del re e che continua a sostenere il progetto anche dopo che i fatti lo hanno definitivamente dimostrato per quello che e’: inutile e dannoso.
ARMI NON LETALI ED ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA "CONVENZIONALI": la guerra nell'era della "globalizzazione"
V.F. Polcaro
Senior Scientist
CNR-IAS
Area di Ricerca Roma-Tor Vergata
e-mail: polcaro@saturn.ias.rm.cnr.it
Premessa
Questo lavoro è stato scritto un anno fa, in occasione del Convegno "Cultura, Scienza e Informazione di fronte alle nuove guerre" del Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra, tenutosi al Politecnico di Torino nel giugno 2000, i cui atti sono reperibili nel libro: M. Zucchetti (a cura di), "Contro le nuove guerre", Odradek, 2000. Si ringrazia qui l’editore per la disponibilità a ripubblicare questo contributo nel presente quaderno.
Dopo quella data, sono stati resi disponibili nuovi dati in aggiunta a quelli sui quali era basato l'articolo.
Per quanto riguarda le armi non letali, il bilancio degli Stati Uniti stanzia cifre considerevoli per il loro sviluppo, mentre alcuni modelli derivati dai prototipi descritti in questo lavoro sono ormai considerati operativi (in particolare per quanto riguarda i sistemi di barriere antiuomo a radiazione elettromagnetica ed ultrasonica).
Per quanto riguarda quelle che ho chiamato "armi di distruzione di massa convenzionali", purtroppo tutte quelle descritte nel testo sono state impiegate nella recente guerra afgana dalle truppe USA e, per quel che riguarda le "bombe a grappolo" anche inglesi.
Se ne conoscono quindi ora maggiori dettagli ed in particolare:
La "Cannoniera volante" descritta nel testo si e' evoluta nell' AC 130 U "Spooky". Il nuovo modello, impiegato nella seconda fase del conflitto, si differenzia dal precedente nell'armamento, che ora e' costituito da un cannone da 25 mm a canne rotanti, da un cannone da 40 mm anticarro e da un obice da 105 mm, tutti montati sul lato sinistro, in modo da poter tenere sotto il proprio fuoco un punto fisso sul terreno, mentre l'aereo gli gira intorno. E' stata inoltre potenziata l'avionica e le contromisure per poter sostenere anche una certa, limitata, azione antiaerea ostile.
Nel conflitto afgano sono anche state usate almeno due bombe FAE, ora designate dalla sigla BLU-82 e dal nome in codice "Dasy cutter" ("Tagliamargherite"). Dell'ordigno sono state rilasciate alcune fotografie ed anche un breve filmato, che la vede sganciata da un C 130 (non dai B 52), e fatta discendere con un paracadute, in modo da non coinvolgere nell'esplosione (che avviene a circa 1 m da terra) l'aereo che la sgancia e di dare il tempo all'esplosivo liquido di mescolarsi con l'aria. I dati sulla sua potenza sono ancora abbastanza contradditori e sulla natura dell'esplosivo e' stata riferita una composizione piuttosto incredibile (nitrato di ammonio, alluminio, idrogeno e ossigeno).
Fino a prova contraria, riteniamo quindi ancora validi i dati riportati in questo lavoro.
Riassunto
A partire dall'inizio degli anni '90, lo scenario politico mondiale si e' notevolmente modificato. In particolare, l'unica superpotenza sopravvissuta alla "guerra fredda" si e' trovata nella necessita' di disporre, oltre al suo arsenale militare prevalentemente concepito per combattere una guerra nucleare totale o guerre locali tradizionali, di armi che rendano possibile il controllo di territori spesso molto vasti ed abitati da una popolazione fortemente ostile e anche molto numerosa, ma male armata.
La risposta a questa esigenza e' stato lo sviluppo di due categorie di armi che sono sempre esistite ma che hanno trovato nelle moderne tecnologie e nell'attuale situazione politica mezzi e ragioni di uno sviluppo impensabile sino a pochi anni fa: le "armi non letali" e le "armi di distruzione di massa convenzionali".
Vengono descritte, con il particolare riferimento alle guerre in Iraq, Somalia e Yugoslavia, le principali tipologie, le modalità e gli scopi, tattici e strategici, dell’impiego di queste armi.
Da sempre, non tutte le armi, definite come oggetti atti a produrre un danno fisico ad un avversario, sono state progettate per uccidere. Infatti, la morte del nemico non è mai stata considerata in tutte le occasioni l’unica o la migliore conclusione di uno scontro.
Il laccio, le "bolas", la rete, la frusta e lo stesso bastone sono armi non letali (o almeno non necessariamente letali) di origine antichissima e di uso assai frequente in tutte le culture, nelle condizioni più svariate nelle quali si è preferito fermare o disabilitare, piuttosto che uccidere, il nemico.
La necessità di armi non letali, delle quali dotare i corpi incaricati dell’ordine pubblico, si è fatta sentire maggiormente con lo svilupparsi della lotta di classe e quindi con il verificarsi di condizioni economiche e storiche nelle quali era da un lato necessario, per il potere costituito, fronteggiare masse umane ostili e notevolmente organizzate ma disarmate od armate di strumenti rudimentali mentre dall’altro era politicamente poco conveniente ed economicamente controproducente trasformare inevitabilmente gli scontri di piazza in massacri.
Nascono così tra la fine del XIX e quella del XX secolo lo sfollagente, l’idrante antisommossa, i gas lacrimogeni, le pallottole di gomma, il pungolo elettrico, il Myotron (dispositivo elettrico a contatto in grado di paralizzare la muscolatura striata, in dotazione alla Polizia di Stato dell’Arizona) come armi non letali d’attacco e tutta la panoplia di armi di difesa delle quali è ormai dotato qualsiasi corpo di polizia del mondo, indipendentemente dal maggiore o minore grado di democraticità del potere statale che difende.
Tuttavia, la guerra, intesa come scontro armato tra nazioni diverse, è rimasta sempre legata al principio che vince la nazione che è in grado di uccidere il maggior numero possibile di nemici, sicché l’armamento militare, dalle armi individuali a quelle di distruzione di massa, è stato, fino a pochissimo tempo fa, finalizzato sostanzialmente solo al massimo possibile di letalità.
L’attuale quadro politico ed economico si presenta però sotto molti aspetti inedito : per la prima volta nella storia moderna, il mondo è sostanzialmente dominato da un’unica nazione alla quale non se ne contrappone alcuna capace di presentarsi come un avversario in grado di "vincere" , almeno sotto il profilo strettamente militare e nel senso prima enunciato. Inoltre, l’economia mondiale è così strettamente collegata che appare difficile identificare regioni del pianeta nelle quali sia possibile produrre danni materiali che non si ripercuotano, più o meno direttamente, anche sull’economia della nazione dominante o su quella di nazioni ad essa strettamente collegate.
D’altro canto, questa situazione non si traduce certamente in migliori condizioni di vita per tutta la popolazione mondiale, ma anzi popolazioni sempre più numerose sono espropriate delle proprie risorse e del proprio lavoro in favore della potenza dominante e di coloro che ad essa si sono aggregati. Inevitabilmente quindi alcune nazioni tentano ed ancor più tenteranno in futuro di opporsi a questo "nuovo ordine mondiale", anche con l’uso della forza. Tuttavia la repressione di questa opposizione, proprio per la sproporzione della potenza militare delle parti che si affrontano, non può configurarsi come una "guerra", ma viene oggettivamente a configurarsi come una "operazione di polizia internazionale", non dissimile concettualmente dall’intervento delle forze dell’ordine di una nazione contro una manifestazione di piazza che non si riesce a controllare pacificamente. E, come in questo caso, sarebbe ovviamente conveniente se si riuscisse a neutralizzare l’avversario senza ridurre lo scontro ad un massacro.
In queste condizioni, è naturale che negli USA si siano sviluppate e si stiano ulteriormente sviluppando, i più disparati tipi di armi da guerra non letali.
2. Le armi da guerra non letali operative.
Attualmente, solo due categorie di armi da guerra non letali sono in una fase operativa : le armi a colla e le armi laser. Ad esse devono naturalmente essere aggiunti svariati tipi di gas ed aerosol disabilitanti, che agiscono in base a diversi tipi di principi chimici e biologici e che sono ormai noti da decenni. Tuttavia, l’uso operativo di quest’ultima classe di aggressivi è drasticamente limitato dai trattati internazionali, che difficilmente possono essere indeboliti dato che ciò darebbe legittimità all’impiego di armi chimiche, cosa che certo non andrebbe a vantaggio di chi vuole controllare il mondo. Si descriveranno quindi nel seguito solo le armi delle prime due categorie.
2.1 Le armi a colla
Il "fucile lancia-colla" è in dotazione ad alcuni corpi di polizia metropolitana negli USA ed è stato usato dalle truppe americane durante l’operazione "Restore Hope" in Somalia nel 1995. Si tratta in pratica di un dispositivo ad aria compressa che spruzza fino ad una distanza di qualche decina di metri una colla rapida che, nel giro di alcuni secondi, solidifica bloccando completamente i movimenti di chi ne venga ricoperto. La vittima viene successivamente liberata cospargendola di un opportuno solvente. La colla è permeabile ai gas, anche dopo essere solidificata, sicché chi ne venga colpito può agevolmente continuare a respirare e le autorità militari garantiscono che sia la colla che il suo solvente sono completamente atossici. L’arma è però ingombrante, pesante, difficile da maneggiare e con un numero estremamente limitato di "colpi". Inoltre, la sua gittata è corta e molto inferiore alla più scadente arma da fuoco della quale possa essere armato l’avversario. In pratica, essa non si è dimostrata di alcuna utilità.
Le "barriere adesive" sono invece costituite da bande di tessuto di fibra di vetro ricoperte di un potente adesivo che polimerizza quasi istantaneamente sotto un carico di qualche decina di kg. Fissate al suolo, bloccano, incollandoli al terreno, sia chi le calpesti a piedi che le ruote di un automezzo che tenti di attraversarle. Esse sono state concepite come alternativa "non letale" ai campi minati ed alle barriere di filo spinato per la difesa di aree delimitate di territorio e sono state usate dalle truppe USA in Somalia. Tuttavia, anch’esse si sono mostrate completamente inefficaci in quanto sono state neutralizzate dalle milizie somale spargendovi sopra sabbia o semplici fogli di giornale.
2.2 Le armi laser
Sono già stati sviluppati laser che possono accecare temporaneamente o permanentemente un uomo. In realtà, qualsiasi laser commerciale di potenza non trascurabile, puntato agli occhi di una persona, produce questo effetto. Un’arma laser è quindi solo un normalissimo laser dotato di una impugnatura capace di permetterne il puntamento verso il nemico. Naturalmente, accecare in modo permanente una persona si deve considerare più inumano che ucciderla e per questo motivo un trattato, firmato anche dagli USA alla fine del 1995, vieta lo sviluppo di armi laser che possano accecare permanentemente una persona. La convenzione non vieta però lo sviluppo di laser che producano un abbagliamento od una cecità temporanea. Il problema consiste nel regolare opportunamente la potenza e la frequenza del fascio, dato che la soglia che separa l’effetto temporaneo da quello permanente non è ben definita e probabilmente varia da persona a persona.
Negli USA è stato sviluppato un laser applicabile sotto la canna della carabina M16, che può emettere un brevissimo impulso di potenza adeguata a provocare l’abbagliamento dell’avversario. Anche questo tipo di arma è stato dato in dotazione al alcuni corpi statunitensi durante le operazioni in Somalia nel 1995, precedentemente alla firma della convenzione contro i laser accecanti. Tuttavia, il comandante dei Marines, per evitare il rischio di essere poi accusato di condotta di guerra inumana, fece regolare la potenza dei laser al minimo, in modo da usarli solo come dispositivo di puntamento per i più convenzionali (e decisamente letali) fucili di precisione. (Pasternak, 1997). Le truppe Russe sono state accusate di aver usato laser accecanti durante le operazioni in Cecenia, ma non è chiaro se invece non si sia trattato di incidenti, più o meno volontari, nell’uso di mirini laser regolati a potenza troppo alta.
3. Le armi non letali sperimentali
3.1 Armi acustiche
Un fascio di vibrazioni ultrasoniche può trasportare una quantità considerevole di energia che può interagire con vari equilibri biologici del corpo umano. Fasci ultrasonici di opportuna frequenza possono mettere in risonanza gli organi dell’equilibrio, provocando vertigini o nausea, o l’intestino, provocando una incontenibile diarrea.
Un fascio ultrasonico può essere usato anche con il solo scopo di trasportare energia contro un bersaglio : è noto che gli scienziati nazisti avevano costruito un "cannone ultrasonico" in grado di abbattere un aereo. Il dispositivo fu replicato nel 1949 da un tecnico americano, Guy Obolensky, ma il Pentagono, che aveva già sperimentato dispositivi analoghi durante la Guerra, non fu interessato all’arma, in quanto non competitiva rispetto ad un tradizionale cannone antiaereo, più potente e molto meno ingombrante.
La società privata SARA, di Huntington Beach (California) ha invece sviluppato e sperimentato per il DoD statunitense un dispositivo chiamato "barriera ultrasonica" che emette intorno ad un’area localizzata fasci di ultrasuoni che provocano effetti sempre più gravi via via che ci avvicina alle sorgenti d’onda (Pasternak, 1997). La stessa ditta ha dichiarato di stare sviluppando diversi altri tipi di armi acustiche che saranno operativi entro dieci anni.
Ovviamente, la potenza di un’arma ad ultrasuoni, a differenza di quella di un proiettile, decresce con il quadrato della distanza dall’obiettivo ed è quindi inutilizzabile contro un nemico sufficientemente lontano.
Nel 1987 il Pentagono dichiarò che i sovietici avevano sperimentato un’arma capace di uccidere una capra ad un km di distanza con un fascio di radiazione elettromagnetica a radiofrequenza. Mancano riscontri oggettivi di questa affermazione, ma sicuramente il DoD statunitense stanzia fondi per ricerche in questa direzione dall’inizio degli anni ’60. Una sperimentazione (fallita) per un’arma di questo tipo fu anche svolta in Italia da Marconi per conto del governo fascista.
Recentemente Clay Easterly, un ricercatore della Divisione di Scienze Mediche degli Oak Ridge National Labs, una delle istituzioni di ricerca pubblica statunitense più attiva nella ricerca militare, ha presentato al Corpo dei Marines il progetto di massima un "fucile a radiofrequenza" capace di indurre attacchi di epilessia e di un "fucile termico" capace di indurre, per riscaldamento elettromagnetico, un innalzamento della temperatura corporea del bersaglio di due gradi, producendo effetti analoghi a quelli di una fortissima febbre (Pasternak, 1997).
Lo sviluppo di questo tipo di armi appare però problematico, data la grande potenza dell’emissione elettromagnetica richiesta. Inoltre, la focalizzazione di radiazioni a radiofrequenza richiede intrinsecamente l’uso di antenne di grandi dimensioni e quindi di difficile maneggio e facilmente vulnerabili da parte di colpi di arma da fuoco sparati da distanze molto maggiori di quelle alle quali si può ragionevolmente sperare di ottenere un flusso di energia dall’arma con qualche effetto biologico.
Ad ogni modo, gli studi su questo tipo di armi continuano negli USA, tanto che l’USAF ha stanziato a questo fine 110 milioni di dollari per ricerche su queste armi nel 1996 (Pasternak, 1997).
3.3 Armi a bassa frequenza
Una radiazione elettromagnetica a bassa frequenza può stimolare l’emissione di istamina da parte delle cellule cerebrali e quindi indurre sonnolenza od anche un sonno profondo. E’ noto che studi di un’arma basata su questo effetto furono condotti dal Corpo dei Marines agli inizi degli anni ’80, ma non ne sono noti gli sviluppi.
4. I problemi delle armi da guerra non letali
Come abbiamo visto nell’introduzione, lo sviluppo di armi da guerra non letali sarebbe estremamente conveniente per la nazione che controlla l’attuale situazione mondiale, sicché non vengono risparmiate risorse economiche ed umane per questi progetti. Abbiamo però anche visto come questo obiettivo sia difficile da realizzare.
Le armi sviluppate sino ad ora sono ingombranti, scarsamente maneggevoli, efficaci solo a breve distanza. Inoltre, tutti i progetti che sono attualmente noti hanno prodotto prototipi di armi che non mettono in grado chi le usi di difendersi da un avversario armato di armi da fuoco tradizionali più potenti di una pistola.
Infine, le "armi non letali" possono essere più inumane delle armi convenzionali, esponendo chi le impieghi alla reazione della stessa opinione pubblica del proprio paese. Quindi, come è stato recentemente mostrato da Hertog (1998), che pure è favorevole allo sviluppo di questi strumenti bellici, le armi non letali pongono problemi politici, legali ed etici che debbono essere risolti prima che esse possano essere considerate operative, indipendentemente dalla soluzione dei problemi tecnici tuttora irrisolti.
Esse potranno quindi forse evolversi fino a fornire nuovi dispositivi antitumulto ma, a differenza del caso delle operazioni di ordine pubblico su scala locale, le cosiddette "operazioni di polizia internazionale" debbono affrontare eserciti dotati di armamenti spesso di tutto rispetto (anche se certamente non paragonabili come potenza a quelli che possono mettere in campo gli USA o la NATO), di addestramento a livello altamente professionale, oltre che di una motivazione ovviamente superiore a quello degli aggressori.
5. Le armi di distruzione di massa "convenzionali"
Per quanto abbiamo esposto in precedenza, per ora, e probabilmente per un lunghissimo periodo, le operazioni di polizia internazionale saranno condotte con il tradizionale fine di ogni guerra : uccidere il maggior numero possibile di "nemici". Tuttavia, una operazione di "peace keeping", per poter continuare ad apparire giustificata agli occhi della propria opinione pubblica e rimanere compatibile con i vincoli di bilancio che l’economia moderna impone ad ogni amministrazione pubblica, deve potersi concludere rapidamente con una indiscutibile vittoria, con scarse perdite nelle proprie truppe, e non trasformarsi in una interminabile guerra "a bassa intensità", come la guerra nel Vietnam. Il problema non è quindi solo quello di uccidere moltissimi (o anche tutti i) soldati dell’esercito nemico : questo era possibile già dagli inizi dell’epoca storica, con una adeguata potenza militare disponibile. Il problema è ora di riuscire a farlo abbastanza in fretta ed economicamente.
E’ quindi necessario colpire lo "stato terrorista" con la massima violenza possibile, con l’obiettivo teorico di infliggere un singolo "primo colpo disarmante".
A parte la mistificazione delle "armi intelligenti" (Polcaro, 1999), è chiaro che lo strumento tecnicamente più adatto a questo scopo rimane l’uso di un arma nucleare tattica, più o meno della potenza della bomba di Hiroshima (20 kton). Tuttavia, la situazione politica internazionale non permette ancora questa soluzione ottimale del problema del "peace keeping" (Polcaro, 2000).
Tuttavia, alcuni sistemi d’arma "convenzionali", cioè non compresi nelle categorie delle armi atomiche, biologiche e chimiche, impiegati negli ultimi conflitti (Guerra del Golfo, Somalia, Balcani) hanno capacità letali che dovrebbero, a parere di chi scrive, farli considerare tra le "armi di distruzione di massa".
Se ne descriveranno nel seguito alcuni tipi già operativi.
Questo tipo di armamento aereo di caduta si basa sul principio delle "bomba Molotov" : una miscela stechiometrica di combustibile liquido ed aria, innescata in un contenitore ermetico con spessore adeguato, detona con una potenza esplosiva molte volte superiore a quella del tritolo. Questo tipo di esplosivo fu inventato nella Repubblica Federale Tedesca, verso l’inizio degli anni ’70, ed arma bombe da 2 t in dotazione all’USAF. Anche se mancano dati ufficiali precisi, la potenza di questi ordigni si stima in 2 kton, corrispondenti ad una bomba nucleare "da teatro". Sono state impiegate contro le colonne di blindati irakeni in ritirata dal Kuwait. L’ingombro ne limita l’uso, che è possibile solo con il bombardiere strategico B 52. Data la vulnerabilità del vettore, sono impiegabili solo contro avversari con scarse capacità antiaeree.
Si tratta di un velivolo da trasporto C 130 "Hercules", modificato aprendo 4 portelli su ciascun lato della fusoliera. Da ognuno di essi, opera un cannoncino "Vulcan" da 30 mm a canne rotanti, con rapidità di tiro di 2000 colpi al minuto. Si stima che, intervenendo da una quota di 500 m su di un assembramento, sia in grado di uccidere 10000 persone in 5 minuti. E’ stato impiegato dall’USAF durante la campagna "Restore Hope" in Somalia nel 1995. Data la bassa velocità, la vulnerabilità e la bassa quota operativa, è impiegabile solo contro avversari completamente privi di copertura antiaerea.
Si tratta di contenitori da caduta, lanciabili da praticamente tutti i tipi di bombardieri, caccia-bombardieri e velivoli d’assalto. Dopo una breve discesa libera, la caduta del contenitore viene rallentata da un paracadute. A questo punto, il contenitore, al comando di un dispositivo barometrico, si apre, liberando un numero variabile da qualche decina a diverse centinaia di mine di varia potenza e tecnologia, che discendono a loro volta frenate da piccoli paracadute, disseminandosi su di una vasta area. In dotazione alla maggior parte delle aviazioni militari del mondo, ne è documentato l’uso da parte della RAF durante la Guerra delle Malvine del 1982 e di diverse aviazioni di paesi NATO durante la Guerra dei Balcani del 1999. Non vi sono problemi tecnici di tipo particolare al loro impiego. La capacità di distruzione di massa dell’ordigno non deriva dal singolo intervento, ma dal suo uso estensivo che produce ad ogni effetto un risultato analogo a quello delle mine anti-uomo, ormai vietate da una convenzione internazionale, disseminando il territorio nemico di milioni di mine che permangono letali, prevalentemente per la popolazione civile, anche molti anni dopo la fine del conflitto.
La fine della "Guerra Fredda" e la dissoluzione del Blocco Orientale, al contrario di quanto avevano sperato molti pacifisti, non ha affatto posto termine alla violenza ed alla guerra. Anzi, i milioni di "morti virtuali" dell’epoca dell’equilibrio del terrore tra le due superpotenze sono stati sostituiti dalle centinaia di migliaia di morti reali nelle guerre che si sono verificate nell’ultimo decennio, perché la possibilità concreta di una parte di imporre il proprio dominio economico e politico sull’intero pianeta, anche ricorrendo all’uso della forza, resa prima impossibile dal rischio di una guerra nucleare non poteva e non potrà portare ad un mondo pacifico.
E’ dovere della comunità scientifica e delle persone di cultura contribuire a far divenire coscienza comune l’idea che la pace nasce solo dalla prevenzione dei conflitti, tramite accordi che risultino accettabili ad entrambe le parti, non dalla vittoria di una parte o dal possesso di armi che possano imporre la pace : il sogno di Nobel ed Einstein dell’ "arma che ponga fine alle guerre" si è dimostrato irrealizzabile.
Bibliografia
IL TRATTATO ABM E LE DIFESE ANTIMISSILISTICHE
Mario Vadacchino
Politecnico di Torino
Il trattato sulla limitazione dei sistemi contro i missili balistici o, come è chiamato, trattato ABM, è stato firmato a Mosca il 26 Maggio 1972 da R. Nixon, Presidente degli USA e da L. Brezhnev, Segretario Generale del PCUS, ed è entrato in vigore il 3.10.1972; un protocollo aggiuntivo, firmato il 3.7.1974 è entrato in vigore il 24.5.1976.
La concezione che sta alla base del trattato ABM è ancora alla base delle strategie nucleari: ogni modifica unilaterale del trattato ABM, come peraltro di tutti i trattati di disarmo, aumenta il rischio di guerra nucleare o almeno di uso di armi nucleari.
Conviene, prima di illustrare il contenuto del trattato, descrivere brevemente quale era, alla fine degli anni ’50, la concezione strategica americana dell’uso delle armi nucleari; si parlava a quel tempo di rappresaglia massiccia. Da un lato infatti i vettori delle testate nucleari non erano tanto precisi da permettere la scelta degli obbiettivi, dall’altro c’era la coscienza da parte americana, questa volta ben giustificata, che l’URSS aveva ormai colmato tutto il suo svantaggio iniziale nella capacità militare degli armamenti nucleari.
Nel 1961, quando inizia la presidenza Kennedy, si verificano due gravi crisi internazionali, che rappresentano il momento di massima tensione tra USA ed URSS: la crisi di Berlino, con la costruzione del Muro, e la crisi dei missili a Cuba. Per quanto riguarda quest’ultima, in particolare, tutti gli analisti concordano nello stimare che sabato 27.10.1962, quando Kennedy impose a Krusciov un ultimatum per lo smantellamento dei missili nucleari sovietici installati a Cuba, si sia verificato il massimo rischio di scatenamento di una guerra nucleare dal giorno di Nagasaki ad oggi.
Robert McNamara, ministro americano della difesa dal 1961 al 1968, ha influenzato in modo decisivo le teorie strategiche nucleari; egli si rese conto della necessità di definire meglio le modalità di uso delle armi nucleari: si rese conto in particolare dell’impossibilità di definire una soglia oltre la quale dovesse scattare la rappresaglia massiccia. La natura delle armi nucleari ed il loro carattere assolutamente unico e rivoluzionario erano alla base del problema.
McNamara affidò lo studio della strategia ai civili, che provenivano dalla Rand Corporation; bloccò il finanziamento ai militari che era dedicato essenzialmente all’aumento del numero delle testate nucleari, ed era giustificato soltanto su valutazioni esagerate della potenzialità delle forze sovietiche; lo studio delle strategie nucleari fu effettuato applicando la Ricerca Operativa e la teoria dei giochi. Di fatto, il numero delle testate nucleari americane rimase costante fino al 1980.
Il primo passo verso una teoria della gestione politica di una guerra nucleare produsse l’introduzione di nuovi concetti e quindi nuovi termini quali risposta flessibile o guerra limitata; termini tutti basati sull’ipotesi che fosse possibile gestire e quindi vincere una guerra nucleare. Alla fine degli anni ’60 McNamara si rese conto dell’irrealizzabilità di queste teorie e quindi dell’impossibilità di vincere una guerra nucleare. Da un punto di vista pratico il problema non era più quello di mantenere una preponderanza strategica sull’URSS, conseguenza inevitabile dell’ipotesi di scatenare una guerra nucleare ed ovviamente vincerla, ma di accettare una sostanziale parità, nel senso che entrambe le potenze devono essere in grado di infliggere all’altra un danno irreparabile. Il problema diventa quindi quello di garantire la stabilità di questo equilibrio strategico.
Il miglioramento delle tecniche missilistiche e nucleari permetteva, proprio in quegli anni, di aumentare molto la precisione con la quale potevano essere colpiti i diversi tipi di obbiettivi. Semplificando drasticamente un tema molto complicato, si possono distinguere due tipi diversi di obbiettivi: quelli cosiddetti di valore e quelli di forza: i primi sono le strutture civili, quali le città, i secondi gli apparati militari, per esempio i siti missilistici.
Non è ragionevole ipotizzare che due potenze che lasciano indifesi i propri obbiettivi civili, per esempio le città, e difendono in appositi bunker i propri missili strategici facendo si che essi siano pronti ad essere lanciati dietro allarme, possano pensare di effettuare per prime un attacco nucleare senza subire una rappresaglia: decidendo di effettuare un primo colpo dovrebbero ovviamente tentare di disarmare l’avversario, ma colpirebbero silos prevalentemente vuoti ed esporrebbero le proprie città alla rappresaglia dell’avversario. La massima stabilità dell’equilibrio nucleare si ha quindi se ciascuna potenza punta i propri missili sulle città dell’altra potenza e lascia le proprie città indifese.
Questo approccio paradossale ai problemi della difesa, conseguenza del carattere unico delle armi nucleari, fu enunciato per la prima volta da Herbert York e Jerome Wiesner nel 1964, in un articolo in realtà dedicato al bando degli esperimenti nucleari. In questo articolo essi sostenevano la tesi, valida ancora oggi, che le relazioni di sicurezza tra USA e URSS sono basate su di una serie di forze strategiche nucleari invulnerabili ed entrambi i lati si dissuadono reciprocamente dall’effettuare un primo colpo, perché un tale attacco indurrebbe una rappresaglia devastante. La stabilità di quelle relazioni dipende dall’efficacia con la quale entrambi i lati sono in grado di conservare l’invulnerabilità delle forze di rappresaglia e di controllare le crisi; richiede inoltre un’efficacia garantita delle forze di rappresaglia. Se una parte non può essere certa che le sue forze siano in grado di raggiungere il loro obbiettivo nella rappresaglia, questo lato perde fiducia nella sua capacità di dissuadere l’altro lato da un primo colpo. L’invulnerabilità delle proprie forze e la vulnerabilità delle proprie città delle due parti garantiscono entrambe sul fatto che l’altra non attaccherà. Si comprende quindi come una situazione di particolare instabilità si verifichi quando una delle due parti enuncia il proposito di modificare questi termini dell’equilibrio, per esempio progettando una difesa delle proprie città, e riducendo quindi le capacità di rappresaglia dell’altra parte. Quest’ultima infatti, di fronte alla prospettiva di essere, entro un certo tempo, di fatto disarmata, deve contemplare realisticamente l’ipotesi di effettuare un primo colpo preventivo.
È questa la concezione sulla quale si basa il trattato ABM ed è la concezione che gli attuali progetti americani di National Missile Defense (NMD) mettono in discussione.
Il trattato ABM, il cui testo è allegato in appendice, impone alle due parti firmatarie, nell’articolo I, di non intraprendere lo spiegamento di sistemi ABM per la difesa del proprio territorio. Nell’articolo II, dovendo definire che cosa si intenda per sistema ABM, si specificano le caratteristiche tecniche di questi sistemi; è questa una zona grigia del trattato che fu già utilizzata da Reagan per giustificare la sua SDI. Si fa infatti riferimento alle tecnologie appropriate per attività ABM, e quindi proibite dal trattato, usando l’avverbio currently e citando solo missili intercettatori e non citando invece le armi laser o a fascio di particelle. Secondo i sostenitori della SDI questo avverbio proibirebbe solo la tecnologia disponibile nel 1972, secondo i difensori del trattato ABM si tratta invece semplicemente di una esemplificazione. La versione in russo del trattato sembra rafforzare la prima delle due tesi: ciò conferma una ipotesi fatta da molti analisti che hanno studiato l’impostazione strategica sovietica, ipotesi secondo la quale le maggiori resistenze alla stipulazione del trattato provenivano proprio dalla parte sovietica.
Gli attuali progetti dell’amministrazione Bush, sarebbero gli sviluppi e la realizzazione di una iniziativa presa da Clinton con il suo Missile Defense Act. Clinton aveva nominato una commissione guidata da Rumsfeld, attuale ministro della difesa, che aveva individuato alcuni Stati, definiti canaglia, i quali sarebbero in grado, entro 5 anni dopo averlo deciso, di dotarsi di missili balistici in grado di colpire gli Stati Uniti, portando una testata armata da una bomba nucleare o chimica o batteriologica. Queste nazioni sarebbero la Corea del Nord, l’Iran e l’Iraq (per l’Iraq gli anni sarebbero 10); di fatto solo la Corea del Nord sarebbe attualmente in possesso di qualche missile intercontinentale, sulla cui efficienza esistono però parecchi dubbi. Questi tempi, apparentemente lunghi, vanno confrontati con quelli che si stima necessari per dotarsi di una difesa antimissilistica, che sono stimati dell’ordine di 20 anni. Nel Missile Defense Act si sostiene che è politica degli USA schierare, appena tecnologicamente possibile, un NMD efficace in grado di difendere gli USA da un attacco limitato con missili balistici; Clinton ha posto in evidenza che questa decisione non è ancora quella di installare il sistema, ma semplicemente di valutare il problema.
L’amministrazione Bush ha difeso il progetto NMD, sostenendo che esso verrebbe progettato in modo da essere in grado di sostenere solo un attacco con pochi missili e che quindi la capacità di rappresaglia della Russia e della Cina rimarrebbero intatte; molti commentatori non sono in accordo su questo punto per vari motivi.
La Russia schiera attualmente circa 6000 testate su missili strategici, che sono permanentemente pronte al lancio, cioè montate sui missili forniti di combustibile. L’iniziativa americana, per quanto ridotta, può fare ragionevolmente pensare alla Russia che la sua capacità di rappresaglia venga in qualche modo anch’essa ridotta. Inoltre anche un sistema ridotto potrebbe in futuro servire come base per un sistema completo, perlomeno attraverso l’esperienza acquisita nella sua installazione. La Russia non può neppure facilmente accettare una forzatura od anche una discussione sui principi del trattato ABM, perché questo potrebbe voler implicare futuri cedimenti anche più rilevanti su questo punto. Esiste inoltre, e questo non è mai stato irrilevante per quanto riguarda lo sviluppo degli armamenti, un problema di immagine: la Russia non può accettare di apparire non eguale agli Stati Uniti. Tutte queste considerazioni fanno pensare che la Russia sarebbe come minimo obbligata ad una costosissima rincorsa agli Stati Uniti.
Per quanto riguarda la Cina le conseguenze del progetto NMD appaiono per certi aspetti ancora più inquietanti. La Cina possiede attualmente alcune centinaia di testate non pronte per il lancio, cioè non installate sui missili e questi ultimi sono mantenuti nei silos ma senza carburante. Il ridotto numero di testate possedute potrebbe fare pensare alla Cina che il sistema antimissile ridotto possa ridurre significativamente la sua capacità di rappresaglia; e paradossalmente questa preoccupazione pare condivisa dagli ambienti governativi americani, i quali hanno fatto capire che non sarebbero contrari a permettere alla Cina una ripresa degli esperimenti, per permetterle di adeguare il suo arsenale nucleare alla nuova situazione creata dall’installazione del sistema NMD.
Tenendo conto che lo sviluppo di un armamento nucleare da parte dell’India, per quanto dichiarato rivolto a controbattere la minaccia del Pakistan, era in realtà diretto contro la Cina, si comprende come le prospettive di una nuova corsa al riarmo da parte cinese sia destinato a rendere ancora più difficile ed instabile il quadro strategico di una regione che, come mostrano gli eventi delle ultime settimane, è al centro di preoccupanti livelli di tensione.
SITI UTILI
Molta documentazione sui problemi degli armamenti nucleari ed in particolare sul trattato ABM può essere trovata nei seguenti siti:
www.fas.org www.cia.org www.whitehouse.org www.state.gov www.ucsusa.org
ATTIVITà DI PRODUZIONE E RICERCA IN AMBITO MILITARE IN ALENIA
Francesco Bonavita
RSU - Alenia Spazio (Torino)
1. Introduzione
Alenia è una grossa realtà produttiva in campo aeronautico ed aerospaziale in Italia.
Questa relazione vuole fornire, nella sua parte iniziale, un semplice riassunto, basato su numeri e fatti, delle attività di produzione e ricerca in ambito militare in Alenia.
Successivamente ci soffermeremo sul caso del Centro di Ipertermia, emblematico dell’orientamento e delle scelte di certa industria nell’ambito civile e militare, davanti al problema della "riconversione".
Concluderemo con alcune riflessioni ed osservazioni.
2. Attività Alenia in ambito militare
In Piemonte, in questo momento, ci sono due siti lavorativi:
Per quanto riguarda Alenia Spazio, i lavoratori sono 1089, dei quali 78 operai; il rimanente è costituito da impiegati, quasi tutti di alto profilo professionale. Ad essi vanno sommati i circa 60 interinali suddivisi tra operai ed impiegati.
Le lavorazioni sono tutte a carattere satellitare, e riguardano sia "lanciatori" (cioè vettori spaziali, o, per dirla con un termine meno tecnico, "missili") che "moduli spaziali" (ovverosia i satelliti veri e propri); il carattere di queste lavorazioni si può identificare come al 50% civile e al 50 % militare.
Gli ordini - per quanto riguarda il 2000 - sono stati di 1098 mld; le principali acquisizioni di commesse hanno riguardato: telecomunicazioni, telerilevamento, navigazione, infrastrutture, satelliti scientifici.
I ricavi di produzione hanno raggiunto i 1036 mld.
Concludiamo su Alenia Spazio con alcune osservazioni:
Passando ora ad Alenia Aeronautica, i lavoratori in essa sono 3019, così suddivisi:
Torino: 1482 impiegati e 365 operai
Caselle: 556 impiegati e 616 operai
Ad essi vanno sommati i circa 126 lavoratori interinali (in prevalenza impiegati).
I programmi in prevalenza sono di carattere militare, ed in particolare:
L’unico aereo civile è il "Falcon": su di esso vi sono impegnati non più di 100 lavoratori.
Passiamo infine ad un cenno su Alenia Marconi System.
In essa, i lavoratori sono 311 e vi sono anche circa una decina di lavoratori interinali.
Si effettuano lavorazioni su sistemi di puntamento e missilistica; qui - chiaramente - le lavorazioni sono interamente militari.
3. Il Centro di Ipertermia e la riconversione
Nel corso degli anni 80/90, intorno al problema della pace e del disarmo, si e sviluppata una crescente sensibilità sul problema dell’industria bellica, che in molti paesi - tra i quali il nostro - ha dimensioni significative per le migliaia di lavoratori coinvolti nella produzione .
Si è cominciato a riflettere sulla possibile riconversione di queste industrie per un diverso utilizzo delle capacità produttive e della professionalità, di alto contenuto, presenti in esse. Tra queste, Alenia rappresenta un caso tipico.
Il mercato degli armamenti è un mercato speciale, con molte commesse pubbliche, ed è per questo che nelle ipotesi di riconversione ci si è sempre orientati verso produzioni che potessero essere stimolate dall’azione pubblica.
E’ in questo contesto che è nata l’esperienza della produzione di macchinari per curare i tumori attraverso l’ipertermia da parte dell’Alenia; questa produzione è avvenuta in stretta collaborazione con l’università di Torino e con un ruolo di stimolo verso le amministrazioni pubbliche .
Si vuole portare al lettore alcuni dati, utili per evidenziare come il progetto abbia avuto risultati tutt’altro che teorici, ma invece incoraggianti dal punto di vista della cura dei tumori. L’ipertermia è infatti la cura del tumore mediante il calore. Al contrario di altri metodi di cura – quali le radiazioni o i medicinali chemioterapici – che provocano ben noti effetti collaterali, l’ipertermia sfrutta la maggior labilità al calore delle cellule tumorali rispetto alle cellule sane, evitando l’utilizzo di radiazioni ionizzanti o medicinali.
Sul piano internazionale, l’ipertermia è di interesse industriale per la produzione di macchinari biomedici. Il campo è fortemente sviluppato in Svezia , USA, Giappone Germania. In questi paesi sono stati curati circa 200.000 casi.
Si pensi che il centro di ipertermia di Torino, messo a punto negli anni ’80, tra il 1983 e il giugno del 1996 ha curato 1009 casi di tumore conseguendo il 40% di scomparsa di lesioni e il 40 % di buona regressione.
Torino, di fatto, ha esercitato un ruolo di capofila per circa 30 centri italiani.
Purtroppo l’Alenia non ha voluto più investire su questo settore perché lo ritiene non strategico. Il ruolo di capofila è stato messo in forte difficoltà dopo la chiusura del centro per mancanza di fondi.
Si stima sarebbero bastati circa 1,5mld per mantenere in vita il centro.
Quali sono state le ragioni che hanno portato alla chiusura di una attività che ha dimostrato di ottenere buoni risultati? Questo caso ci torna utile per effettuare alcune riflessioni.
Occorre non nascondersi che, nella decisione di non investire più risorse, hanno pesato i vertici militari, non interessati a dimostrare che è possibile una riconversione.
Per contro, ad essa dobbiamo puntare, quando le varie commesse militari andranno ad esaurimento, se non vogliamo trovarci a discutere, tra qualche anno, di nuovi esuberi di personale in questo settore.
Sia il governo che le varie amministrazioni pubbliche non fanno nulla per mantenere in vita questa e altre attività di possibile riconversione di industrie belliche.
Se esistesse davvero un problema di economicità delle produzioni, perché si continua a finanziare terribili armi belliche o la nostra disgraziata avventura di guerra insieme con gli USA? Sono queste lavorazioni belliche "economiche"? Rende di più la fabbrica della morte che non della vita?
E chiaro che per il sindacato e i lavoratori queste produzioni belliche danno occupazione: solo così si spiegano i compromessi dolorosi e le contraddizioni che lo scrivente stesso vive all’interno della sua realtà produttiva.
Ma siamo convinti che altre prospettive si possono aprire: dobbiamo smettere – alivello di vertice - di parlare di diversificazione, quando non si sostengono iniziative e ricerche sulla telemedicina, la sorveglianza ambientale e la produzione eolica.
Il bilancio della difesa in Italia, per l’anno 2000, è stato di 32000 mld, pari al 2% del PIL, con un aumento del 6,4% rispetto al 1999.
Il nostro è un popolo pacifico, che non vede nemici a 360 gradi del suo orizzonte e ha tratto una salutare lezione da quello che è accaduto nella seconda guerra mondiale.
C’è perfetta coincidenza tra gli interessi nazionali e lo stato d’animo della stragrande maggioranza dei cittadini, che chiedono una generosa e attenta politica di pace e di condanna tutti gli atti terroristici, che vanno combattuti con l’intervento dell’ONU.
Forse sta per cominciare una nuova corsa al riarmo, ma tutti noi dobbiamo impegnarci perché questo non accada, per cui ognuno di noi deve dare, nel suo piccolo, un contributo.
Industria degli armamenti, nuove tecnologie e questione delle alternative
Marco Sassano
L’obiettivo, teorico, di questo intervento dovrebbe essere quello di dimostrare che tra disarmo e lavoro non vi è contraddizione, che l’opposizione allo scudo spaziale ed a altri programmi per nuovi armamenti può accompagnarsi alla proposta di produzioni alternative per i lavoratori delle aziende interessate alle commesse militari.
In altri termini, ritornano qui le questioni, un tempo molto dibattute, della diversificazione e della riconversione dell’industria bellica nei loro molteplici aspetti (dal problema del rapporto tra spese militari ed economia, a quello degli effetti sul sistema della ricerca degli investimenti in tecnologie militari alle tematiche relative all’attuazione di progetti di riconversione nelle singole unità produttive ed altro ancora).
È opportuno avvertire fin dall’inizio che gli obiettivi reali di questo intervento saranno molto più modesti, non si troveranno proposte relative ad alternative produttive realizzabili in tempi brevi o a politiche di settore o territoriali da rivendicare. Per fare questo occorrerebbero competenze pluridisciplinari, bisognerebbe poi mobilitare poi soggetti con ruoli sociali e esperienze molto diversi (in grado di esprimersi sulla praticabilità tecnologica delle singole proposte o sugli spazi che il sistema delle relazioni industriali concede per discutere di esse e così via); dovrebbero essere a disposizione dati e ricerche sulla situazione italiana che purtroppo non ci sono, in questo paese l’attenzione per questi temi è limitata e intermittente (per fare solo un esempio, l’Italia non figura tra i paesi partecipanti al programma europeo COST A 10, che dal 1996 opera per mettere in collegamento ricercatori di diversi paesi sul tema della riconversione).
Quello che con queste note si cercherà di fare sarà di fornire una prima introduzione problematica sulle questioni fin qui richiamate, emergeranno soprattutto le difficoltà nel formulare progetti e nel definire percorsi che portino alla loro realizzazione, nel contempo, però si cercherà di dimostrare la necessità di continuare a discutere il tema delle alternative alla produzione bellica.
Per quanto possa sembrare ovvio, occorre ribadire che parlare di questi problemi dopo l’undici settembre è ancora più difficile, non solo si registrano continui annunci relativi ad aumenti delle spese militari sul piano internazionale (negli USA la spesa prevista per l’anno fiscale 2001-2002 supera i 340 miliardi, un livello inferiore di 100 miliardi in valori costanti rispetto al livello più alto raggiunto, quello del 1986, molto simile al livello degli anni della guerra del Vietnam) ma si deve anche prendere atto della crisi in atto nel comparto dell’aviazione civile, che offriva una delle alternative più facilmente praticabili per l’industria aerospaziale (la più importante nel campo della produzione bellica, sia dal punto di vista economico che da quello tecnologico); la Boeing ha annunciato a settembre 30.000 licenziamenti e l’abbandono del Sonic cruiser, il suo progetto più ambizioso in campo civile, mentre si fanno insistenti le voci sulle difficoltà di Airbus impegnata nel finanziamento del suo costoso programma civile l’A 380, mentre anche in Italia si discute di probabili esuberi di personale negli stabilimenti del sud.
Va precisato, però, che la tendenza verso spese militari più elevate ed una ripresa delle commesse e della produzione militari erano già emerse prima dell’11 settembre. Da almeno due anni si segnala, da parte di organismi internazionali come il Sipri di Stoccolma, la crescita delle spese militari, particolarmente dinamica sarebbe la spesa per nuovi armamenti; gli aumenti più alti, in percentuale, si sarebbero verificati in Russia, in Africa e nell’Asia meridionale.
Anche un altro organismo che si occupa dei problemi del disarmo, il centro internazionale per la conversione di Bonn (Bicc), nel suo rapporto annuale, pubblicato a luglio, abbandonava il suo pur cauto ottimismo per rilevare come l’anno 2000 rappresenti una svolta rispetto al decennio precedente, con l’avvio di veri e propri processi di riarmo e con la contrazione delle iniziative di diversificazione e riconversione.
Tornando alle spese militari si nota che, per quanto riguarda il volume della spesa, essa rimane molto concentrata, il 37% delle risorse sono controllate dagli USA, l’insieme dei paesi della NATO spende più del 60% del totale; tale concentrazione è ancora più accentuata se si prendono in considerazione le spese in Ricerca&Sviluppo militare, che consentono di realizzare armamenti sempre più sofisticati e distruttivi, in questo campo la supremazia statunitense (il 70% della spesa nell’ambito OCSE) è indiscussa e la tendenza nei prossimi anni sarà quella di aumentare gli investimenti in questo campo.
Se partendo da questi dati più recenti estendiamo l’analisi all’intero periodo del dopo-guerra fredda allo scopo di ricavarne una valutazione più complessiva (pur con le approssimazioni inevitabili), constatiamo come non si sia verificato quello che molti si attendevano e auspicavano, ovvero l’integrazione tra lo sviluppo di accordi relativi al controllo degli armamenti, l’avvio di significativi processi di disarmo e la liberazione di risorse, prima destinate alla corsa agli armamenti, da indirizzare verso lo sviluppo economico e sociale (quello che è stato chiamato "dividendo di pace"). Per quanto attiene ai problemi di cui ci occupiamo in questo intervento, quello che si è verificato, soprattutto nei paesi della NATO, è una riorganizzazione degli apparati militari, ancora in corso, per renderli più flessibili ed in grado di affrontare nuovi compiti, e, nel contempo, una ristrutturazione dell’industria bellica. Certamente nel medio periodo c’è stata una diminuzione delle spese militari, che appare più significativa se si guarda al rapporto tra la spesa ed il prodotto interno lordo, se si guarda però alle somme spese espresse in valori costanti allora il quadro si fa più complesso, gli Stati Uniti hanno ridotto le spese rispetto al periodo reaganiano, quando venne raggiunto il livello più alto dalla seconda guerra mondiale, ma le risorse impiegate dopo l’89 sono su un livello non molto dissimile da quello della media degli anni della guerra fredda (circa il 15% in meno). Nei paesi europei della NATO la riduzione è stata, in media, meno pronunciata e dal 1995 la spesa ha ricominciato a crescere. Anche in Italia la riduzione è stata molto contenuta, peraltro nel nostro paese una valutazione più precisa è difficile a causa di una minore trasparenza dei dati, molte risorse impiegate in attività militari, per le operazioni all’estero o per il finanziamento della ricerca e di attività industriali, non sono comprese nel bilancio della difesa (per i temi di cui ci occupiamo particolarmente importanti sono state le risorse erogate con la legge 808 del 1985 per l’industria aeronautica).
Prima di affrontare nel merito le trasformazioni intervenute nell’industria bellica è opportuno richiamare qui alcune caratteristiche peculiari di questo comparto. I cicli produttivi sono estremamente complessi e si estendono in realtà oltre la consegna del prodotto finito, comprendendo anche attività di servizio, manutenzione e aggiornamento dei sistemi, essi coinvolgono le aziende capocommessa e quelle fornitrici di sottosistemi e componenti che vanno a formare un sottosistema plurisettoriale dove diversi soggetti sono collegati tra loro da relazioni di mercato, tecnologiche e altre ancora, particolarmente importanti sono quelle finanziarie che legano insieme le varie aziende con il sistema delle partecipazioni azionarie e la rete di joint ventures, accordi e società comuni, in crescita sostenuta negli ultimi anni. Ma la produzione di armi non è solo un fatto economico e industriale ma è anche il prolungamento sul terreno economico di funzioni politiche e militari; da lungo tempo, ormai, l’industria degli armamenti viene considerata uno degli elementi dell’autonomia dei singoli stati sullo scenario internazionale, poiché contribuisce a quello che è considerato uno degli attributi della sovranità, la facoltà di ricorrere alla guerra, anche se questo in realtà presupporrebbe una reale autosufficienza in campo produttivo che ormai neanche gli USA sono in grado di avere e in ogni caso le scelte in materia di industria degli armamenti devono misurarsi, soprattutto per i paesi europei membri della NATO e dell’Unione europea con le scelte operate da organismi sovranazionali.
Quella trama di rapporti che collega insieme imprese industriali, apparati militari e stati, che si è tentato di descrivere, spiega la forza, la capacità di resistenza e di autoriproduzione di questo sottosistema, certe sue peculiarità dal punto di vista economico come la scarsa attenzione ai costi e alla produttività, che hanno fatto a lungo discutere sulla separatezza di questo ambito da resto dell’economia.
Nel corso degli ultimi anni in questo quadro sono intervenuti alcuni mutamenti, di cui non è facile fare un bilancio dato il loro carattere contraddittorio; la riduzione dei bilanci della difesa, sia pure con i limiti di cui si è detto, la necessità di mettere sotto controllo la tendenza a costi sempre maggiori per i nuovi armamenti hanno indotto le aziende ed i governi ad avviare processi di razionalizzazione. Particolare importanza ha avuto il processo di concentrazione delle imprese in pochi grandi gruppi, realizzato con il contributo decisivo dei governi; il processo si è dapprima sviluppato negli USA dove da 15-20 grandi imprese si è arrivati, negli anni tra il 1993 ed il 1997 a 4 gruppi principali (Boeing, Lockheed, Raytheon e Northrop-Grunman). In Europa si sono sviluppate, dapprima, privatizzazioni e concentrazioni su scala nazionale, mentre, contemporaneamente, su alcune specializzazioni produttive si realizzavano accordi su scala europea, infine nel 1999 si è determinata una svolta con la nascita di due colossi, la Bae Systems inglese (ma con partecipazioni azionarie significative anche in altri paesi) e l’EADS franco-tedesca, uno dei rari casi di imprese sia nel civile, sia nel militare, transeuropea e, perdipiù, con dimensioni mondiali (si colloca al terzo posto nel mondo tra le società aerospaziali). Nel corso degli ultimi anni, deve essere ricordato, è emersa sempre più chiaramente l’intenzione da parte degli USA di avviare un processo d’integrazione della produzione militare su scala transatlantica, ovviamente sotto l’egemonia delle sue imprese, mentre contemporaneamente si manifestavano le resistenze franco-tedesche a questo progetto. Occorre ricordare che recentemente l’industria aerospaziale europea, anche se non ha ancora realizzato una vera integrazione su scala continentale, ha ottenuto importanti risultati soprattutto nelle produzioni civili (airbus e spazio) che hanno sfidato la tradizionale supremazia statunitense; ovviamente la ripresa delle commesse militari si spiega anche con l’interesse a sostenere con questo strumento la propria industria aerospaziale e a mantenere così un controllo complessivo sul settore.
L’industria italiana, in questo contesto, non ha ancora operato delle scelte chiare, da un lato pesa una lunga storia di collaborazione subalterna con l’industria statunitense, ancora oggi operante nel campo, soprattutto, delle produzioni civili, d’altra parte, in campo militare, la cooperazione con i partners europei data da anni, inoltre negli ultimi anni le imprese italiane, in particolare la Finmeccanica, hanno aderito a alcune delle principali società comuni costituite a livello europeo (ad esempio nella missilistica e nell’avionica), non si è ancora sciolto però il nodo di un eventuale accordo della Finmeccanica con l’EADS; nel complesso, quindi, l’industria italiana non ha ancora definito un suo equilibrio e questo è sicuramente un elemento di debolezza destinato a pesare a breve.
I processi di concentrazione e le privatizzazioni hanno indotto, nel complesso, a stringere rapporti più stretti con il sistema finanziario ed i nuovi soggetti ed i nuovi strumenti di esso; in particolare nei paesi anglosassoni si assiste ad un ruolo crescente dei fondi d’investimento e dei fondi pensione nell’industria degli armamenti, mentre grandi banche d’affari e grandi società finanziarie internazionali si mobilitano per sostenere le operazioni di acquisizione e di fusione, anche con la costituzione di consorzi ad hoc.
Questo spinge le imprese a comportamenti più aggressivi sul mercato interno e su quello estero, per acquisire commesse che possono a loro volta indurre il sistema finanziario a indirizzare verso le società più intraprendenti gli investimenti.
Più difficile è valutare i risultati conseguiti dai processi di ristrutturazione per quanto riguarda l’efficienza produttiva, qui alcune caratteristiche classiche della produzione d’armamenti, prima richiamate sommariamente, sembrano permanere; è vero, però, che il sistema ha sperimentato e poi applicato con crescente estensione il decentramento all’esterno di produzioni e funzioni e che ha introdotto forme di flessibilità nell’impiego della forza lavoro che hanno complessivamente peggiorato le condizioni dei lavoratori, che peraltro non possono più contare, a differenza dal passato, su una relativa stabilità dell’occupazione, anche questa industria si dimostra capace di produrre di più impiegando meno lavoratori.
Nel complesso, i processi di ristrutturazione che fino ad ora si è cercato di descrivere, hanno avuto come risultato quello di ribadire il carattere gerarchicizzato della produzione di armamenti, essa si svolge in una rete che collega stati, imprese, strutture finanziarie e della ricerca e che fa circolare saperi, conoscenze, tecnologie e prodotti consolidando, nel contempo, le posizioni dei soggetti più forti; la riorganizzazione dell’industria bellica, inoltre, deve essere messa in relazione con i processi più generali di trasformazione dell’economia mondiale (del resto qualche concreto punto d’incontro ci pare sia emerso nella ricostruzione fatta finora) e con la cosiddetta "globalizzazione", avere apparati militari potenti e rinnovati evidentemente consente di avere una capacità di condizionamento sulle scelte politiche e economiche che vengono fatte sul piano internazionale.
Mutamenti nel corso del periodo successivo alla guerra fredda si sono verificati anche nel campo delle attività di Ricerca&sviluppo militare. Tra i responsabili politici e militari si constatava che lo sviluppo delle tecnologie civili era più rapido di quelle militari, in molti campi, in particolare nelle tecnologie dell’informazione, questo induceva a orientare parte delle attività degli organismi della ricerca militare verso l’inseguimento di quella civile e l’adattamento dei suoi risultati nel campo delle tecnologie per la difesa, contemporaneamente si cercava di dare avvio a nuovi programmi di ricerca che fin dall’inizio prevedevano applicazioni "dual use", cioè sia civili che militari, malgrado il grande successo della formula del "dual use"nel dibattito su Ricerca&Sviluppo militare e sulla produzione di armamenti vi sono dei dubbi sui reali risultati conseguiti da quei programmi.
Per quanto riguarda i futuri sviluppi nel campo delle produzioni e delle tecnologie militari, crediamo possa essere utile un cenno all’evoluzione in corso nel dibattito strategico, in particolare negli USA, ai problemi che in esso sono emersi (si tratta delle tematiche che ruotano attorno ai concetti di "rivoluzione negli affari militari", "conflitto asimmetrico" e "guerra di quarta generazione").
In molti documenti ufficiali ed in interventi significativi della letteratura strategica USA si sostiene che la globalizzazione e la crescente interconnessione delle società e delle economie che ne è derivata hanno aumentato i rischi e le vulnerabilità. L’arena dei possibili conflitti diventa un’area estesa e "grigia", dove i confini tra interno e esterno, tra pace e guerra, tra azione di guerra e azione di polizia si assottigliano fino a scomparire. Affrontare un quadro così incerto e imprevedibile, controllarlo, esercitare un’egemonia su un contesto internazionale in continuo movimento e caratterizzato dall’emergere di attori nuovi implica un profondo mutamento degli apparati militari. Occorre svilupparne le capacità di rapida disclocazione su grande distanza, investire in sistemi di controllo, comunicazione, comando, ricognizione, trattamento dei dati e aumentare l’integrazione tra i momenti della raccolta delle informazioni, la loro elaborazione, il processo decisionale e le forze direttamente operative. Le esigenze di maggiore integrazione investono, però, anche la produzione, la logistica e la ricerca, in questo caso per avere a disposizione in tempi brevi quanto di più aggiornato viene realizzato sia nel campo militare che in quello civile. D’altra parte il crescente carattere a doppio uso di molte innovazioni spinge ad una "securitizzazione" della ricerca, a mettere sotto sorveglianza i luoghi ed i circuiti della sua realizzazione. Per quanto riguarda più direttamente il nostro tema, queste tendenze potrebbero portare ad uno spostamento del centro di gravità della produzione di armamenti dalla realizzazione delle grandi piattaforme (aerei, navi e carri armati) a quella di grandi sistemi (qualcuno parla di "metasistemi") che integrano i classici sistemi d’arma con apparati di comando, controllo e comunicazione.
Nel quadro che abbiamo tentato di definire fino ad adesso crediamo debba essere inserita la valutazione sulle esperienze di diversificazione e riconversione dell’industria bellica tentate nel corso dell’ultimo decennio.
Crediamo sia utile iniziare con una precisazione terminologica, noi riteniamo ancora utile distinguere tra riconversione e diversificazione, quest’ultima si riferisce solitamente ad una riduzione del fatturato militare in un’azienda, che può avvenire sia in termini assoluti sia relativi, vi può benissimo essere il caso di un’azienda che decide di affiancare le sue produzioni militari con altre civili, senza ridurre le prime, semplicemente ricorrendo a capacità produttive non utilizzate; le motivazioni che spingono alla diversificazione sono spesso di natura economica, cioè si vuole ridurre la dipendenza dal solo mercato militare, tuttavia il processo può avere risultati positivi su più piani perché abitua a confrontarsi con i mercati civili e può creare delle condizioni favorevoli a successive riduzioni della produzione militare. Tuttavia la diversificazione non basta a risolvere i problemi a cui rimanda il dibattito sulla riconversione (o anche conversione). Occorre subito precisare che i problemi principali non sono di natura tecnica ma politica.
Nel corso degli anni settanta e ottanta le ipotesi ed il dibattito sulla riconversione delle aziende impegnate nella produzione bellica si sono intrecciati con ipotesi e proposte più generali relative alla demilitarizzazione dell’economia, alla necessità di collegare il disarmo con un altro tipo di sviluppo, all’opportunità di esercitare un controllo collettivo sugli investimenti e le politiche industriali.
Nell’ambito delle singole unità produttive la riconversione implicava un abbandono duraturo della produzione bellica e delle pratiche organizzative che la caratterizzavano, un certo protagonismo era riconosciuto anche ai lavoratori, del resto in molti casi, in Europa, si formarono comitati di lavoratori per studiare il problema ed elaborare alternative (il caso più celebre fu quello dei dipendenti della Lucas Aerospace, che negli anni settanta, in Gran Bretagna, con la collaborazione di ricercatori del politecnico arrivarono a realizzare alcuni prototipi di prodotti alternativi). In generale si riconosceva che il passaggio alla produzione civile doveva effettuarsi con il mantenimento degli organici e della struttura esistente delle qualifiche.
Se si guarda al dibattito attuale è evidente l’atteggiamento di disillusione permanente, alcuni studiosi tendono ormai a non ritenere più valida la distinzione tra riconversione e diversificazione, poiché l’unica opzione realistica sarebbe quest’ultima, che spesso viene interpretata in chiave restrittiva, come strumento per indurre le aziende produttrici d’armi a razionalizzarsi. Tuttavia occorre interrogarsi sul perché le aspettative relative alla riconversione non si siano realizzate; senza voler semplificare una questione complessa è indubbio che è mancata la volontà politica, negli USA le risorse destinate esplicitamente alla riconversione sono state ridottissime rispetto a quelle destinate a favorire i processi di concentrazione nell’industria militare, inoltre il programma avviato nel 1993 è stato bloccato nel 1994 dal Congresso. In Europa gli interventi degli stati in materia sono stati molto limitati, il problema è stato affidato essenzialmente alle regioni, che se pure hanno potuto godere dei finanziamenti del progetto europeo Konver, certamente non erano in grado di contrastare, se pure l’avessero voluto, le iniziative degli stati per consolidare e ristrutturare l’industria degli armamenti (ad esempio mantenendo in vita programmi militari pensati durante la guerra fredda).
Tuttavia, malgrado le considerazioni poco confortanti che abbiamo svolto finora, riteniamo che la questione delle alternative alla produzione d’armamenti continui a rimanere un tema meritevole di essere discusso e che deve suscitare proposte e progetti. Occorre che si costruiscano percorsi che a livello territoriale facciano convergere sul tema quelle competenze e quelle esperienze diverse di cui si parlava in apertura, non farlo significherebbe rinunciare a pronunciarsi su quel complesso di interessi che sulle commesse militari si è costituito in passato e che oggi va ridefinendosi con nuovi soggetti, vorrebbe anche dire sottovalutare il fatto che se nuove commesse sono garantite non lo è più necessariamente il lavoro per i lavoratori e che, infine, quell’articolazione multisettoriale piegata alle necessità della produzione di armamenti potrebbe essere indirizzata ai fini di un diverso sviluppo.
Una breve nota bibliografica
Autori Vari, Post-cold War Conversion in Europe, Rapport de recherche du Grip n° 3, 1999 (disponibile presso il sito http:// www. grip.org).
Eugen Gholz, Harvey M. Sapolsky, Recstructuring the U.S. Defense Industry, in International Security, n°3, Winter 1999-2000.
Claude Serfati, Les systems militaro-industriels à l’ére de la mondialisation, paper presentato alla Journée d’étude dell’Université de Versailles St. Quentin-en-Yvelines, "Regards criques sur les enjeux de la mondialisation", del 26 ottobre 2001 ( disponibile presso il sito http: // www. c3ed. usvq.fr).
Ufficio studi della Cgil lombarda, L’industria aeronautica. Stato e strategie del settore. Febbraio 2000 (disponibile presso il sito http:// www. lomb.cgil.it/segnali/aereo.htm).
Manuele Pesenti, Roberto Ghisu
A nome degli Studenti del Politecnico di Torino
Di ISF – Ingegneria senza Frontiere
L'occasione per questo articolo è stato l'incontro-dibattito organizzato dal "Comitato Scienziate e Scienziati Contro la Guerra" tenuto il 24 Settembre 2001 presso l'aula Consiglio di Facoltà del Politecnico di Torino dal titolo "Scudo Spaziale, Industria Bellica, Tecnologie Militari: quale utilità, quali interessi in campo?".
Abbiamo deciso di intervenire alla conferenza date le attinenze riscontrate tra i temi proposti e le attività che Ingegneria Senza Frontiere si sforza di portare avanti.
Il collegamento è indiretto ma molto forte. ISF si occupa di progetti e collaborazioni, ma soprattutto tesi, in paesi in via di sviluppo che sono nella maggior parte guidati da governi autoritari che spesso si reggono in piedi attraverso l'uso delle armi, rendendo estremamente lento lo sviluppo culturale del paese e molto difficile il lavoro di chi, come noi, vorrebbe portare attraverso la propria competenza, un aiuto in quelle zone.
Come cittadini Italiani ci siamo sentiti toccati da questo argomento dato che la legge 185/90, che vieta di fatto l'esportazione di armi a paesi con forte instabilità politica o in cui sia accertata la violazione di diritti umani, è di fatto scavalcata nella stesura dei bilanci in cui non vengono conteggiate le armi classificate come "civili", non impedendo la vendita per esempio di esplosivi da cava o di fucili da caccia. Attraverso questi espedienti sono stati alimentati i conflitti in Sierra Leone e in ex Jugoslavia nonostante gli embarghi delle Nazioni Unite.
La tendenza evolutiva in ambito legislativo non va poi nella direzione da noi auspicata, data la volontà espressa dal disegno di legge proposto il 29 dicembre 1999 di sottrarre dall’applicazione della 185/9 le coproduzioni industriali di materiali di armamento con Paesi membri dell’UE, dell’Unione dell’Europa occidentale e della NATO, che verrebbero regolati esclusivamente da specifici accordi intergovernativi. I vari pezzi e componenti d’arma fabbricati in Italia sarebbero quindi esportabili sotto la responsabilità dei partner che li hanno assemblati, in assenza di una regolamentazione internazionale adeguata e con il solo ausilio di un Codice di Condotta Europeo non vincolante, lacunoso in molti aspetti e più debole rispetto alla disciplina della 185.
Come studenti di discipline tecniche ci sentiamo coinvolti, vista la stretta connessione tra ingegneria ed industria bellica, e l'effettiva possibilità che il nostro lavoro possa avere a che fare con essa, data la presenza proprio qui a Torino di prestigiose sedi come l'ALENIA.
In questo contesto, ci chiediamo se sia giusto un atteggiamento critico nei confronti del proprio lavoro, oppure per un qualche tacito comandamento è vietato porsi la domanda "perché"? E’ lecito che studenti e ricercatori, nonché l’ateneo stesso, alzino lo sguardo dalle proprie (sudate) carte e guardino un po’ più avanti, là dove il proprio lavoro e la propria ricerca va a finire? E si chiedano anche quali possano essere le ricadute possibili, gli scopi o gli effetti secondari? Una scienza e una tecnologia che siano al servizio dell’umanità devono interrogarsi su quali siano ora le esigenze dell’umanità stessa?
Ad esempio abbiamo chiesto se fosse plausibile l'ipotesi di istituire di un corso di studi sull'impatto ambientale, sociale e culturale di filoni di ricerca e, infine, se i soldi spesi in ricerca dal Politecnico di Torino possano essere spesi in un'ottica di maggior beneficio di una comunità il più ampia possibile e perché no anche secondo etica.
Abbiamo scelto di fare domande e non di dare risposte a sottolineare l'importanza che il dubbio ricopre come innesco del ragionare stesso, facendo appello ad una "moralità" che lo stesso Einstein definiva come "un punto di vista dal quale ogni questione che sorga nella vita umana potrebbe e dovrebbe essere giudicata", come "un compito mai concluso", e "qualche cosa che è sempre presente a guidare il nostro discernimento e a ispirare la nostra condotta", unendoci al suo pensiero anche nella convinzione che "porsi questi problemi significa risolverli!".
Giovanni Salio
Centro Studi Sereno Regis – Torino
Quando è iniziata l’avventura del nucleare? Possiamo dividere il secolo scorso in due periodi: il primo ha inizio il 14 dicembre 1900 con il lavoro di Max Planck sullo spettro del corpo nero, che getta le basi della nascita della meccanica quantistica, attraverso l’ipotesi della quantizzazione dell’energia, e lo si può far terminare nel 1939 con la scoperta della fissione nucleare. Questo è il periodo in cui si sviluppa lo studio scientifico della meccanica quantistica, senza alcuna immediata applicazione tecnologica. Dopo, nel secondo periodo, il secolo diventa "nucleare" secondo l’accezione comune di questo termine, associata alle tecnologie, soprattutto a quella militare. Nel primo periodo, gli scienziati che hanno contribuito allo sviluppo della meccanica quantistica sono, tra gli altri, Albert Einstein, Niels Bohr e Werner Heisenberg. Ma tutto il secolo vede un continuo fiorire di studi che cercano di esplorare e spiegare i "misteri quantistici": un mondo che sfida il pensiero comune e affascina gli studiosi. (Si veda: Max Tegmark e John Archibald Wheeler, 100 Years of Quantum Mysteries, "Scientific American", febbraio 2001, pp. 54-61.)
1. Il progetto Manhattan
Dopo la scoperta della fissione nucleare, i fisici si rendono immediatamente conto delle possibili applicazioni militari e, nel contesto internazionale deteriorato che porterà alla seconda guerra mondiale, si innesca una corsa sfrenata per arrivare primi alla costruzione della bomba. Heisenberg collabora dapprima al progetto tedesco, anche se in un secondo tempo, come ha dichiarato in seguito, cercherà di frenarlo, mentre gli altri scienziati sosterranno il progetto che man mano prende corpo negli Stati Uniti. Si avvia così quel processo che porta, a cominciare dal '43, alla nascita del "progetto Manhattan". È il primo grande coinvolgimento, come mai era avvenuto precedentemente, di un'intera comunità scientifica in un progetto finalizzato in modo esplicito a scopi militari. Anche in altri momenti della storia gli scienziati erano stati coinvolti, ma mai in una tale misura e soprattutto non nell’ambito di un progetto in cui fosse loro imposto di sottostare alle regole del segreto militare e di vivere in una cittadella costruita appositamente a Los Alamos. Una situazione analoga si verificherà negli anni seguenti nell'Unione Sovietica, dove furono costruite alcune città segrete, su cui soltanto di recente si sono avute delle testimonianze dirette. Vigono delle norme di sicurezza che nessuno avrebbe accettato nella vita civile, e che non appartengono alla normale dinamica del mondo accademico. Oppenheimer è il direttore di ricerca del laboratorio, mentre il generale Robert Groves è il responsabile dal
punto di vista militare.
Nasce una nuova figura nella comunità scientifica, quella dello scienziato militare, che si perpetuerà nel tempo. Non esisteva prima in modo così specifico. Hans Bethe, uno dei padri della fisica nucleare che, pur avendo collaborato all’impresa militare ha mantenuto sempre molto spirito critico e lucidità, ha scritto un resoconto, che risale al 1954 ma è stato declassificato solo nel 1980 (Observations on the Development of the H-Bomb, www.fas.org/nuke/guide/usa/nuclear/bethe-54,htm), nel quale descrive il coinvolgimento degli scienziati alla costruzione della bomba H, un progetto ancora più controverso di quello che ha portato alle prime armi nucleari, e mette in evidenza come questo rapporto sia diventato continuativo e non soltanto episodico in un periodo di emergenza. Il suo contributo è importante per capire questa continuità, che in quello stesso anno Eisenhower denuncia in un discorso rivolto al pubblico americano, quando lascia la presidenza degli Stati Uniti, mettendo in guardia dal pericolo del nascente complesso militare-industriale-scientifico, che mina le basi stesse della democrazia su cui si reggono gli Stati Uniti. Detto da un generale in una posizione autorevole come la sua è un fatto significativo, che in seguito verrà assunto quasi come paradigma interpretativo di ciò che è avvenuto: la nascita di un complesso di interessi talmente intrecciato tra militari, industriali e scienziati da contribuire a produrre il fenomeno dell'"autismo" (la causa interna) della corsa agli armamenti. Essa infatti si autoalimenta indipendentemente dalla presenza di un nemico esterno, come nel periodo del confronto Est/Ovest con l'Unione Sovietica.
La pesante eredità delle armi nucleari è ambigua da molti punti di vista. Da un lato c’è chi dice che le armi nucleari non si possono dimenticare, ovvero non dimenticheremo le conoscenze necessarie alla loro costruzione e pertanto dovremo convivere per sempre con il rischio e il pericolo da esse generato. Se questo è vero dal punto di vista teorico, d'altro canto è anche vero che gli arsenali militari richiedono la presenza continua di numerosi esperti altamente qualificati, che debbono essere forniti dall'Università. Terminata la seconda guerra mondiale, il laboratorio di Los Alamos non fu smantellato, ma molti scienziati ritornarono alla vita civile, e si venne ben presto a creare una carenza di tecnici e ricercatori. Questa situazione fu percepita come un pericolo e si cercò di rinnovare il "parco di scienziati" disposti a collaborare. Di preferenza, essi debbono essere giovani, molto preparati, creativi. Occorre quindi un notevole impegno del mondo accademico per soddisfare questa esigenza e si rafforza pertanto il legame tra il complesso militare e il mondo della ricerca scientifica, tanto da renderlo strutturale e permanente. L'establishment politico-militare è ben consapevole della necessità di un flusso continuo di energie intellettuali nuove, in particolare di tipo scientifico, per non perdere sia la capacità di controllo del complesso meccanismo militare, sia l’elevato livello di competizione per conseguire gli obiettivi posti dalle scelte strategiche individuate dal punto di vista politico, militare ed economico. Pertanto, parlare di nascita dello "scienziato militare" non è soltanto attribuire un'etichetta, uno slogan, ma segnalare un vero e proprio cambiamento in profondità che modifica l'ethos degli scienziati (ammesso che sia mai esistito) che secondo Robert Merton si basava sul disinteresse, l’universalità, la libertà e la ricerca della verità, qualità che contrastano con i vincoli e gli scopi della ricerca militare che si svolge all’insegna del segreto per perseguire scopi di parte.
Il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki costituisce il punto nodale, cardine, di tutta la storia del nucleare. Non si può ricordare il secolo passato soltanto come il secolo di Auschwitz perché il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki fu un enorme crimine contro l'umanità, anche se non è mai stato considerato tale per l’ovvia ragione che i processi li fanno i vincitori. Non c'erano giustificazioni plausibili. A partire da questo evento, possiamo leggere il secolo scorso, il secolo nucleare, attraverso un certo numero di controversie. Una è proprio quella relativa alla giustificazione, o meno, del lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Ancora di recente, in gran parte dei libri di storia questo bombardamento viene giustificato sostenendo che si sarebbe reso necessario per salvare 500.000 vite umane americane, quanto sarebbero costate le battaglie per occupare il Giappone con lo sbarco via mare e con i combattimenti a terra. Ma il lavoro dello storico John Bernstein, che negli anni Ottanta ha consultato fonti d’archivio da poco declassificate, ha permesso di smontare questo falso mito rivelando che le stime delle perdite fatte dai militari erano enormemente inferiori. (B. J. Bernstein, A Postwar Myth: 500.000 U.S. Lives Saved, "Bulletin of Atomic Scientists", giugno-luglio 1986, pp.38-40). Truman accennò genericamente a questa cifra che venne poi di fatto accettata come giustificazione a posteriori del lancio delle bombe. Estrapolando questa stessa modalità argomentativa, altri sono giunti a sostenere che le armi nucleari, avendo impedito la guerra nucleare fra Est e Ovest, hanno salvato 230 milioni di persone. Questa è, in effetti, la seconda controversia, che esamineremo più avanti, e cioè se le armi nucleari abbiano effettivamente svolto un ruolo di dissuasione oppure no.
La vicenda di Hiroshima e Nagasaki è molto complessa e interessante da vari punti di vista. È stato un gigantesco "esperimento" sulla popolazione civile. I dati sulle conseguenze della radioattività sono stati studiati per più decenni da equipe internazionali di medici e di scienziati, le quali sono giunte, negli anni ’80, a una drastica conclusione: non esistono soglie inferiori per il danno provocato dall'esposizione all’inquinamento radioattivo, contrariamente a quanto alcuni ancora affermano. Non esiste quindi una dose minima al di sotto della quale l'esposizione alla radioattività non sia nociva.
È inoltre importante ricordare che il numero delle vittime, stimato solitamente nell'ordine di un paio di centinaia di migliaia, supera invece, tenuto conto delle morti differite, le cinquecentomila. Una cifra quindi di gran lunga superiore, dietro la quale si cela l’enorme sofferenza degli hibakusha, i sopravvissuti contaminati dalla radioattività e considerati reietti dai loro stessi concittadini.
4. Guerra fredda e corsa agli armamenti
Dal punto di vista militare, che è sicuramente uno degli aspetti con i quali si è soliti rappresentare il secolo scorso quando lo si voglia definire il secolo nucleare, una periodizzazione che bisogna introdurre è la seguente: i primi anni, dal '39 al '45, sono quelli della corsa alla costruzione della bomba da parte degli Stati Uniti, con l'appoggio iniziale della Gran Bretagna, che poi arriverà più tardi a costruirla per sé; dal '45 al '53 si sviluppa la corsa alla costruzione della bomba H, o bomba termonucleare, che utilizzando il fenomeno della fusione nucleare invece della fissione permette di costruire bombe di potenza praticamente illimitata, e comunque di gran lunga maggiore rispetto a quelle a fissione. La costruzione della bomba H è caratterizzata dall’intricata vicenda della contrapposizione tra Edward Teller, principale sostenitore del progetto, e Robert Oppenheimer che si oppose e fu inquisito proprio con l’accusa essere in contatto con il nemico comunista.
Sull’interpretazione storica di questi eventi che hanno caratterizzato i primi anni della corsa agli armamenti si apre una seconda grande controversia. Secondo la cosiddetta scuola revisionista, di cui Alperovitz è stato uno dei più influenti esponenti, il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki fu il primo atto della guerra fredda. Secondo questa interpretazione, la guerra fredda comincia in quegli anni e non nel 1917-18, come sostengono altri storici. Il compito principale del bombardamento su Hiroshima e Nagasaki sarebbe stato quindi quello di impedire che l'Unione Sovietica invadesse il Giappone. L'invasione era infatti prevista per il 9 agosto, lo stesso giorno in cui venne lanciata la bomba su Nagasaki.
La corsa agli armamenti assume ritmi febbrili e l’Unione Sovietica riesce a costruire la sua prima bomba atomica nel '49, pochi anni dopo gli Stati Uniti. Il processo sfugge di mano a ogni tentativo di istituire un controllo internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite: tutti i progetti che vengono proposti falliscono e il processo continua ininterrottamente fino al 1987, con vicende alterne. La semplice costruzione delle armi nucleari non era sufficiente, occorreva costruire i vettori di lancio. Si apre in questo modo una seconda fase: la corsa al controllo dello spazio con il lancio dei primi satelliti. L'Unione Sovietica giunge per prima al lancio dello Sputnik e questo fatto getta nell'angoscia gli Stati Uniti, che investono un'enorme quantità di risorse, anche sul piano propriamente educativo, per cercare di recuperare terreno (ammesso che fossero realmente in ritardo). Questo exploit dell'Unione Sovietica è stato importante soprattutto sul piano dimostrativo, ma molto meno su quello di una reale tecnologica.
La corsa agli armamenti procede alimentata da due fattori principali. Il primo è un fattore esterno, di azione e reazione: gli uni costruiscono una certa tecnologia e gli altri rispondono con la stessa oppure con una tecnologia più avanzata. Il secondo fattore, al quale abbiamo già accennato, è quello interno, dell'"autismo".
Una controversia ancora aperta è se effettivamente le armi nucleari abbiano avuto un effetto di dissuasione. La tesi di alcuni studiosi, tra cui Johan Galtung, è che non ci sia stata dissuasione perché non c'era nessuna intenzione da parte dell'Unione Sovietica di usare armi nucleari nei confronti dell'Occidente. Si è trattato di mera propaganda. Quest'affermazione, che può sembrare lapidaria, è sostenuta dal fatto che tutte le ricerche d’archivio rese possibili dopo la caduta dell'Unione Sovietica non hanno portato a scoprire alcun documento, alcuna traccia di una volontà precisa di impiegare le armi nucleari nei confronti dell'Occidente. Su questo punto è probabile che si misureranno ancora in futuro gli storici. La dissuasione nucleare non avrebbe dunque svolto un’autentica funzione di dissuasione, ma ciò non toglie che essa sia stata la dottrina militare per eccellenza sulla quale si è costruito tutto il pensiero strategico, il cui acronimo, MAD, oltre che Distruzione Mutua Assicurata significa anche, in inglese, follia.
Il 1987 è l’anno che segna una svolta, ponendo momentaneamente fine alla corsa agli armamenti, che in realtà aveva già cominciato a segnare un’inversione di tendenza un paio d’anni prima, con l'elezione di Gorbaciov a primo ministro dell’URSS. Nell'87 viene siglato il trattato sullo smantellamento dei missili a raggio intermedio in Europa. L’installazione degli euromissili aveva avviato l'ultima fase della guerra fredda, un inasprimento cominciato nel 1978-79, quando l'Unione Sovietica installò una nuova generazione di missili SS20 e la NATO rispose con i Pershing e i Cruise. Queste nuove minacce susciteranno una grande mobilitazione dell'opinione pubblica mondiale, che si tradurrà in "una nuova ondata" del movimento per la pace antinucleare, culminato nei primi anni Ottanta. Dopo il 1987 e dopo l'89-'91, con la caduta dei governi nei paesi dell'Est europeo e con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, si apre un periodo che prosegue tuttora, caratterizzato da grandi punti interrogativi e incertezze. Uno dei punti in questione è se si stia o meno aprendo una nuova guerra fredda che, secondo la tesi di molti studiosi, vedrebbe gli USA contrapposti all'Eurasia. Infatti, secondo la tesi dominante nel pensiero strategico USA, per dominare il mondo bisogna controllare l'Eurasia, costituita dall'Europa, dalla Russia, dalla Cina e dall'India: la grande piattaforma continentale che contiene tre quarti dell'umanità. Negli anni immediatamente successivi al crollo dell’Unione Sovietica questa strategia si è tradotta nell’allargamento della Nato verso l'Est e nel rafforzamento dell'alleanza strategica tra Giappone e Stati Uniti, l’ANPO, un’alleanza equivalente a quella della Nato nel Pacifico. Questo piano viene percepito e visto dai paesi dell'Eurasia, in particolare Russia, Cina e India, come un prodromo di una nuova fase della guerra fredda di cui altri eventi apparentemente accidentali e banali potrebbero dare una qualche conferma.
5. Atomi per la pace
Vediamo adesso alcuni altri aspetti che riguardano le questioni tecnologiche. Nel 1954 Eisenhower lancia il programma "atomi per la pace", cioè cerca di promuovere l'applicazione civile del nucleare attraverso le centrali elettronucleari, vale a dire la produzione di elettricità mediante l’energia nucleare. Questo programma, che viene lanciato con grande enfasi a livello internazionale, subirà un arresto progressivo in seguito a gravi incidenti, in particolare dopo quello di Cernobyl.
Ma c’è un altro aspetto tecnologico importante, che raramente viene messo in evidenza: è il contributo che la meccanica quantistica, cioè il nucleare inteso non nel senso mitico della bomba e dell'energia, ma in quello originario, come cultura scientifica, ha dato dal punto di vista tecnologico. Si stima che il 30% dell'economia degli Stati Uniti si basi su applicazioni della meccanica quantistica. Quali? Le tecnologie informatiche utilizzano componenti il cui funzionamento si basa sui principi della meccanica quantistica. I laser sono un altro importante esempio di applicazione della meccanica quantistica e vengono impiegati in campi disparati, dalla robotica ai normali CD, alla optoelettronica, ai satelliti, alla medicina. Un’altra notevole applicazione in campo medico è quella della risonanza magnetica. Questi esempi sono importanti perché permettono di non limitare il nucleare alle tecnologie energetiche e militari, anzi contribuiscono a dare un più autentico valore alla ricerca scientifica, liberandola dai condizionamenti militari, che assai spesso hanno avuto ricadute negative. Per esempio, secondo Rubbia, una delle ragioni del fallimento del nucleare civile, indipendente dal fatto che non è in grado di risolvere pienamente e soddisfacentemente il problema energetico, è dovuta al fatto che sin dall’inizio è stata scelta una filiera, un tipo di reattore, non adatta, sbagliata. I primi reattori sono stati costruiti essenzialmente per produrre i materiali necessari alla costruzione della bomba, e in seguito si è cercato di riciclarli per scopi civili. Ma la società civile aveva altre esigenze, altri standard di sicurezza che quel tipo di reattore non garantiva. Si è continuato in quella stessa direzione, con un clamoroso fallimento. Questo esempio smentisce alcune banalità che spesso si sentono dire a proposito delle ricadute positive della ricerca militare. Tranne pochi casi, in genere è vero l'opposto: sono gli scienziati che operano nel campo civile che sovente anticipano possibili applicazioni militari.
6. Secolo nucleare o secolo del petrolio?
Dal punto di vista energetico il secolo scorso è stato il secolo del petrolio, non il secolo del nucleare, come è tuttora e lo sarà ancora all’incirca per altri trent'anni il secolo XXI. Perché il secolo del petrolio? Perché non c'è bombardiere, non c'è nave, tranne pochissime o tranne i sottomarini nucleari, non c'è carro armato, non c'è esercito che funzioni se non mediante il petrolio. Non ci sono automobili, non ci sono aerei che funzionino senza il petrolio. Noi non ce ne rendiamo conto, continuiamo a far finta che questo non sia vero, ma è il vero nodo cruciale che abbiamo di fronte nei prossimi anni. Tra il 2005 e il 2010, a seconda delle stime, avverrà quello che si chiama tecnicamente il picco di produzione geofisica del petrolio, cioè il massimo della capacità produttiva geofisica del pianeta, indipendentemente da tutti i tentativi disperati che Bush fa nelle aree protette dell'Alaska per aumentare il petrolio disponibile. Dopo di che inizierà il declino, che si prevede raggiungerà il momento cruciale nell'arco di trent'anni. Alcuni sono un pochino più ottimisti, ma lo scenario non cambia di molto. Il vero problema tecnologico-scientifico è dunque questo: quale alternativa energetica al petrolio, ammesso che ci sia? (Per approfondire si veda: www.dieoff.com).
Negli anni Ottanta si è verificato un passaggio ulteriore nella dinamica della cultura tecnica e scientifica: la nascita della tecnoscienza. Non si parla più tanto di scienza e tecnologia come qualcosa di separato, ma molti propongono il termine tecnoscienza per mettere in evidenza il rapporto quasi inestricabile che esiste tra queste due aree. Ed è nata un’altra figura: il tecnoscienziato, che qualcuno preferisce chiamare "scienziato imprenditore". Da scienziato libero, accademico, a scienziato militare, nella prima metà del secolo, e nella seconda metà si consuma il passo successivo, che porta allo scienziato imprenditore. Uno degli obiettivi che vediamo imporsi prepotentemente e con continuità nel campo delle nuove tecnologie (informatica, biotecnologie, ecc) è l'immediata corsa al brevetto della proprietà intellettuale. Questa corsa snatura ulteriormente alcune delle caratteristiche di quell'ethos immaginario della scienza e dello scienziato di mertoniana memoria. È un nodo cruciale che caratterizza il modo con cui si fa scienza oggi.
7. Guardie e ladri: corsa agli armamenti e corsa al disarmo
Se da un lato gli scienziati, a partire dal '43, sono coinvolti direttamente nei progetti militari, d’altro canto, negli anni immediatamente successivi, a partire dal '45, nascono le prime organizzazioni internazionali di scienziati preoccupati, di scienziati responsabili. Viene fondato il "Bulletin of Atomic Scientists", la rivista più prestigiosa, che continua tuttora a pubblicare e a criticare con competenza le questioni nucleari e nel 1954 nasce il movimento Pugwash, che qualche anno fa ha ricevuto il premio Nobel per il lavoro svolto nel campo del controllo degli armamenti, del disarmo e del dialogo Est-Ovest. Uno dei problemi sollevati attualmente, di cruciale importanza, riguarda la possibilità di eliminare totalmente le armi nucleari. Questi movimenti, insieme ad altri presenti nella società civile, sono promossi spesso da grandi intellettuali e scienziati come Bertrand Russell e Albert Einstein, i quali con il manifesto degli scienziati pubblicato nel '54, si impegnarono strenuamente per avviare quella che potremmo chiamare, parallelamente alla corsa agli armamenti, la corsa al disarmo. La corsa al disarmo ha portato ad alcuni risultati parziali, ma che vanno segnalati e che commenteremo brevemente.
Il primo, il bando dei test in atmosfera, fu raggiunto nel 1963. Visto col senno di poi, c'è qualche cosa di folle nella leggerezza con cui vennero fatti per vent’anni gli esperimenti nucleari in atmosfera. Le stime del numero di vittime provocate dal fall-out radioattivo prodotto dai test nucleari effettuati in tutto il periodo dei test in atmosfera (anni ‘45-‘60) sono incredibilmente elevate, sia nei valori minimi sia in quelli massimi. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il fall-out ha provocato oltre un milione di morti premature nei bambini. Ovviamente le controversie su queste tematiche sono quanto mai aperte, ma particolarmente interessanti e istruttive. Il bando dei test in atmosfera è stato importante proprio perché ha messo fine a una gigantesca follia determinata, tra le altre cose, dalla profonda ignoranza in cui versavano gli stessi scienziati circa il fenomeno della radioattività.
Il secondo risultato importante viene cinque anni dopo, nel '68, con il Trattato di non proliferazione. La non proliferazione era un sogno, in parte raggiunto, in parte no. Il cosiddetto "club nucleare" si è costituito più o meno negli anni Sessanta e comprende le cinque grandi potenze del Consiglio di Sicurezza, ma si è presto esteso ad altri che non sono stati dichiarati paesi nucleari, come Israele, anche se si sa ovviamente che questo stato possiede centinaia di testate nucleari. Da ultimo il secolo si chiude con i test nucleari del 1998 di India e Pakistan, quindi con un pericoloso ampliamento e una ulteriore fase della proliferazione.
Nel '72 viene siglato il trattato ABM, allo scopo di limitare i sistemi antibalistici, per impedire che si possano abbattere i missili intercontinentali. Per quale ragione? Perché la teoria della dissuasione, o della mutua distruzione assicurata, stabilisce che ciascuna delle parti possa colpire l'altra, quanto meno con una ritorsione che comporti un prezzo ritenuto inaccettabile. Se una delle parti possedesse invece uno scudo che impedisse all'altra di reagire, verrebbe meno tale principio, perché ci si renderebbe invulnerabili.
Nell''87 viene firmato il trattato INF, importante perché per la prima volta è previsto lo smantellamento fisico, cioè la distruzione, di strumenti nucleari, sia i vettori di lancio, sia le testate nucleari che vengono smantellate e rese inoperanti, recuperando il materiale radioattivo. Nel periodo successivo, le due superpotenze, rendendosi ovviamente conto dell’enorme numero di testate nucleari accumulate, varie decine di migliaia, che non hanno nessuna ragione d'essere, se non quella autistica, voluta dal complesso militare-industriale, cercano delle vie per liberarsene. Si pensi che negli anni più duri della corsa agli armamenti venivano costruite circa dieci testate nucleari al giorno, una vera e propria industria. Tra il '91 e il '96 vengono avviati i trattati Start 1, Start 2 e Start 3. START è la sigla che sta per "trattato di riduzione delle armi strategiche", di smantellamento, che prevede man mano proprio la distruzione fisica. Viene ratificato solo lo Start 1, che porta a una prima effettiva riduzione. Lo Start 2 non è operativo, lo Start 3 neppure.
In ultimo, è da segnalare l’importante trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari, compresi quelli sottoterra, che avrebbe il compito di bloccare in modo quasi definitivo la possibilità che la corsa agli armamenti continui. Questo trattato non è stato siglato dagli Stati Uniti, il cui parlamento ha espresso parere negativo verso la fine del 1999. Quindi, proprio allo scadere del secolo, una delle possibilità che si presentava per arrivare a dei risultati definitivi è venuta meno a causa di argomenti speciosi, che gli scienziati del Pugwash hanno ampiamente dimostrato essere infondati. A differenza del passato, quando i test sotterranei, che provocano dei micro terremoti, non riuscivano a essere monitorati se l'esplosione aveva un'intensità inferiore ai 20 kiloton, oggi c'è la possibilità di monitorarli sino a esplosioni inferiori a un 1 kiloton, cioè inferiori a una soglia che rende praticamente impossibile la sperimentazione di armi nucleari. Questo trattato non favorirebbe né la proliferazione né la continuazione o il perfezionamento di armi nucleari da parte delle grandi superpotenze. Le ragioni principali che stanno dietro a questa scelta sono almeno due. Da un lato il peso enorme che il complesso militare ha in tutte le vicende degli Stati Uniti, dall'altro la tentazione, forse ben più che una tentazione ma una vera e propria filosofia fatta propria da una parte consistente dell'establishment, di utilizzare questo periodo a loro favorevole (perché la Russia non è in grado letteralmente di mantenere economicamente il complesso militare-industriale che aveva costruito, e neppure di controllare l'affidabilità delle armi nucleari, e perciò la scelta migliore dal suo punto di vista è la drastica diminuzione e lo smantellamento) per avere la massima capacità di controllo rispetto al nemico storico e a quelli futuri, reali o immaginari.
8. Il ruolo degli scienziati
Per concludere, è bene ritornare ancora sul ruolo degli scienziati in tutta questa problematica. Il dibattito su questo aspetto cruciale della cultura del secolo scorso, e degli anni che stiamo vivendo, si estende più in generale al ruolo che la cultura tecnico-scientifica assume nella società contemporanea. Un articolo pubblicato l'anno scorso sulla rivista "Wired" (ben nota, perché specializzata in tecnologie informatiche) da Bill Joy, grande esperto di informatica che ha contribuito a creare il linguaggio Giava oltre ad altri risultati, è particolarmente allarmante. Joy afferma, quasi provocatoriamente, che "il futuro non avrà bisogno di noi". Questo è il titolo del suo articolo che ha suscitato un ampio dibattito pro e contro.(www.wired.com/wired/archive/8.04/joy_pr.html ) Egli sostiene che se le armi di massa del secolo passato, chimiche, batteriologiche e nucleari, ci hanno spaventato, quelle che sono possibili nell'arco di pochi decenni saranno enormemente più pericolose. Queste armi saranno rese possibili dall'impiego di tre tipi di tecnologie, che sono tutte e tre conseguenze della applicazione dei principi della meccanica quantistica: nanotecnologie, biotecnologie e robotica. Le nanotecnologie permettono di intervenire a livello di una singola molecola e consentono di costruire macchine apparentemente fantascientifiche, in cui si possono coniugare attività tradizionali della macchina intesa nel senso meccanico del termine con quelle dei robot e delle macchine autoreplicanti, che in qualche misura riducono il confine tra il vivente e il non vivente. L'insieme di queste tre tecnologie può portare facilmente chiunque a costruire armi letali - soprattutto persone che per ragioni diverse, accanto a una certa capacità intellettuale, abbiano delle tare mentali che sono spesso associate alla genialità - alla produzione, alla costruzione di macchine o oggetti o virus o robot (una vasta letteratura fantascientifica può essere portata a sostegno di queste tesi). Si possono immaginare macchine che da un lato riusciranno a dominare l'intelligenza umana, perché hanno una capacità di intelligenza, almeno nel senso della capacità di gestione dell'informazione, milioni di volte superiore a quella della mente umana, e dall'altro possono distruggere l'ecosistema. È stato coniato il termine "ecofagia" per le macchine autoreplicanti che si nutrono di biomassa distruggendola totalmente. Sono stati fatti dei calcoli per vedere in quanto tempo è possibile accorgersi che questo fenomeno sta avvenendo e provare a intervenire per bloccarlo. Se qualcuno può pensare che questa sia solo fantascienza, ricordo che due fenomeni recenti, l'esplosione dell'epidemia dell'AIDS e quella dell’afta epizootica in Gran Bretagna, non si esclude che siano conseguenze di virus sfuggiti da laboratori di ricerca militare. Sono tutte notizie che occorre prendere con buon senso, perché difficili da verificare. Siamo però in situazioni molto strane. Proprio alla fine del secolo XX e all'inizio del XXI non è più il nucleare, nel senso tradizionale del termine, a farla da leone, ma altre tecnologie prodotte dalla crescita della nostra conoscenza nell’infinitamente piccolo, mediante la meccanica quantistica.
In altre parole, abbiamo costruito una società che il noto sociologo tedesco Ulrich Beck, già quindici anni fa, ha proposto di chiamare la "società del rischio". Questo è un concetto fondamentale che possiamo applicare a tutte le principali tecnologie che stiamo sviluppando in questi anni.
La questione è peraltro ben nota da tempo a coloro che si occupano di problemi scienza-tecnologia-società (STS). Quando applichiamo le nostre conoscenze al dominio sociale, facciamo degli esperimenti che non sono quelli tradizionali di laboratorio, ma esperimenti compiuti sulla società e sul pianeta intero. In queste situazioni agiamo in condizione di ignoranza e viene meno la nostra capacità previsionale. Allora l'unica strategia razionale è quella che ci consente di apprendere dagli errori e di tornare indietro. Alcune metafore ci permettono di capire meglio la situazione. Man mano che cresce la conoscenza scientifica, cresce in misura maggiore l'ignoranza. Questo è profondamente vero, non è solo la saggezza degli antichi, è un dato che possiamo toccare con mano. Il numero di problemi che si aprono, di domande senza risposta che si presentano nei vari domini della ricerca scientifica è semplicemente impressionante. È soltanto nella vulgata, nella cattiva divulgazione che si presenta la cultura scientifica come cultura di certezze e non invece di domande, importantissime peraltro, sulle quali vale la pena di riflettere. La seconda immagine è quella del rischio. Noi andiamo sempre più in alto, ma siamo come l'alpinista che sale su una cresta molto stretta ed esposta: da una parte e dall'altra c'è uno strapiombo e man mano che cerchiamo di arrivare in vetta aumenta il pericolo. La terza metafora è ancora alpinistica: non dobbiamo rimanere incrodati, ma essere sempre in grado di tornare indietro. Contrariamente a ciò che qualcuno sostiene, se è necessario si deve tornare indietro, bisogna trovare altre strade se quella imboccata si rivela sbagliata. La scadenza che prima ricordavo è una di queste. Ritengo, con una dovizia di dati che sono disponibili in varie fonti, che noi avremo di fronte non più di tre decenni per progettare un uso diverso delle nostre conoscenze, più intelligente, che richiede molta più creatività e soprattutto richiede di individuare alcuni obiettivi precisi. Altrimenti la previsione è che ci sia un'implosione catastrofica del sistema. Le previsioni fatte trent’anni fa dal Club di Roma, che fu apparentemente smentito dai petrolieri, tornano di grande attualità. Anche questo aspetto ha a che fare con la questione che abbiamo esaminato perché si trattava di un consesso autorevole di scienziati che si è trovato di fronte a una delle emergenze che andava verificandosi sotto gli occhi di tutti e che altri avevano trascurato. Oltre alle figure dello scienziato militare e di quello imprenditore, è nata anche la figura dello scienziato negazionista. In condizioni di ignoranza, come si trova l’intera umanità, meglio essere catastrofisti che negazionisti: si può sempre imparare dagli errori e tornare sui nostri passi.
DIFESA ANTIMISSILISTICA E STRATEGIE IMPERIALI
Angelo Baracca
Dipartimento di Fisica, Università di Firenze
1. Uno dei progetti militari più megalomani degli Stati Uniti è la realizzazione di una difesa antimissilistica: esso si inquadra chiaramente nell’ambizione di dominio assoluto del mondo, poichè, mentre gli USA affinano sempre più il proprio potenziale offensivo, si pone l’obiettivo di rendere il suolo americano invulnerabile da attacchi missilistici e nucleari. Da tempo molti critici denunciano il fatto che i maggiori pericoli per il paese non vengono da attacchi di questo tipo, ma piuttosto da attacchi terroristici, previsione che è stata drammaticamente confermata l’11 settembre del 2001: è evidente l’assoluta inutilità di una difesa antimissilistica nei confronti di questi pericoli.
Nei mesi successivi a quell’attacco, questo progetto sembra essere entrato un po’ nell’ombra: ma non è il caso di illudersi su un suo affossamento, semplicemente le priorità al momento sono altre. Da un lato, troppi sono i faraonici interessi del sistema militare-industriale coagulati attorno al progetto, che si lega agli sforzi giganteschi di ammodernare l’arsenale nucleare. Ma le priorità non si escludono a vicenda, anzi! La strategia americana è molto articolata, ed intreccia metodi "pacifici" e "violenti": il progetto dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), per sottomettere e monopolizzare le economie dell’intera regione (dopo che il NAFTA lo ha fatto per Messico e Canada), non esclude il "Plan Colombia".
Nell’ultimo decennio al progetto egemonico si è aggiunto un problema vitale di sopravvivenza: la previsione di un non lontano esaurimento delle risorse energetiche del pianeta - aggravato dall’incalzare delle varie crisi ambientali - ha infatti scatenato una guerra senza quartiere per il controllo delle aree strategiche. Dopo le guerre del Golfo e dei Balcani, il terrorismo offre un ulteriore pretesto - ampiamente prevedibile e previsto - per ampliare l’area controllata dagli USA che, se avrà successo l’intervento in Afganistan, andrà dal centro del Mediterraneo fino al confine con la Cina.
Gli attentati dell’11 settembre sembrano, da questo punto di vista, un capolavoro di strategia, dato che hanno offerto l’occasione unica per compiere questa operazione con l’appoggio incondizionato dell’opinione pubblica americana e dei governi di tutto il mondo (con pochissime eccezioni isolate)! Basta vedere l’incredibile resa della Russia, che ha addirittura regalato a Washington il controllo delle ex-Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, illudendosi forse proprio di una revisione dei progetti anti-missilistici. Ma se questa è semplicemente un’ulteriore mossa nella grande partita per il controllo del pianeta, le risorse offensive e la difesa antimissilistica rimangono a mio parere componenti essenziali di questa srategia per il futuro.
2. Il problema della difesa antimissilistica è nato con la realizzazione dei missili balistici, ma ha assunto la massima popolarità quando Reagan nel 1983 lanciò il progetto delle "Guerre Stellari", chiamato SDI (Strategic Defense Initiative). Il problema è estremamente complesso e non può essere esaminato in modo esauriente in questa sede: forniremo solo una panoramica e le prospettive più recenti.
Attualmente il progetto più noto è la NMD (National Missile Defense), su cui si concentra l’attenzione politica e dei mezzi d’informazione: essa è costituita da un sistema di allarme precoce consistente in radar e satelliti e da missili basati a terra, i quali devono lanciare i "veicoli-killer" che dovrebbero distruggere con l’impatto (hit-to-kill) le testate nella fase di rientro nell’atmosfera, distinguendole da "esche" o finte testate. Tale sistema, pur essendo "figlio" delle "guerre stellari", ne differisce in modo sostanziale, poiché quello prevedeva invece l’installazione di armi nello spazio attorno alla Terra (tra le quali armi a fasci di particelle e laser a raggi X, che dovevano essere azionati da un’esplosione nucleare).
In realtà, però, i progetti che si stanno sperimentando sono molteplici e l’amministrazione li sta promuovendo tutti: essi riprendono praticamente tutti i principali componenti del progetto SDI, costituendo una pericolosa escalation della militarizzazione dello spazio. Il progetto generale configura infatti una difesa a strati (layered defense), consistente in molti tipi di sistemi anti-missile, in modo da attaccare un missile in molti modi diversi.
Per capire questa articolazione è essenziale ricordare in primo luogo che il volo di un missile balistico è composto di tre fasi distinte: una prima fase di spinta (boost phase), di durata 2-7 minuti, che si svolge nell’atmosfera e durante la quale i motori sono accesi; una fase balistica, di circa 20 minuti per un missile intercontinentale, in cui esso è soggetto alla sola forza gravitazionale, al di fuori dell’atmosfera; infine la fase di rientro nell’atmosfera, di circa 5 minuti. Il modo più efficace di intercettare un missile balistico sarebbe nella boost phase, quando i motori sono accesi, il missile è più lento, si trova ancora sul territorio avversario, ed è più problematico che rilasci delle "esche": ma questa intercettazione risulta estremamente difficile, poiché i tempi sono molto ridotti ed occorre che il sistema anti-missile si trovi in prossimità del territorio avversario.
Occorre poi ricordare ancora la distinzione tra missili balistici (o testate) strategici, che sono in grado di colpire direttamente il territorio avversario, e quelli tattici, o di teatro; a cui si sono aggiunti i missili da crociera (cruise), che volano vicini al suolo, per sfuggire ai radar, ma sono più lenti. Oltre alla difesa dai missili strategici, si pongono quindi anche i problemi di Difesa di Teatro (Theater Missile Defense, TMD) e del campo di battaglia, e la difesa dai missili cruise.
In effetti, i militari americani lavorano su non meno di 20 programmi di difesa missilistica: la NMD è solo uno di almeno otto programmi principali che si stanno sperimentando.
L’occhio vitale del sistema è costituito dal System-Low-the missile-warning e dai satelliti a raggi infrarossi per inseguire la traiettoria. La Marina ha due progetti: il Navy Area Theater Ballistic Missile Defense, e il Navy Theater Wide. Anche l’Esrcito ha due progetti: il THAAD (Theater High Altitude Area Defense: un sistema basato a terra che dovrebbe proteggere le truppe dislocate oltremare da missili di teatro), e il sistema Patriot PAC-3. Vi sono poi due progetti di laser dell’Aviazione: l’Airborne Laser (portato da un Boeing 747-400, dovrebbe distruggere i missili durante la salita, ad una distanza di non più di 400 km) e lo Space Based Laser (basato invece nello spazio).
I costi complessivi (probabilmente sottostimati, in particolare per le spese durante il ciclo di vita dei sistemi, valutato in circa 20 anni) superano la cifra astronomica di 115 miliardi di $, v. la Tabella.
Tabella
Programma |
Acquisition (mld di $) |
Life cycle (mld di $) |
NMD |
24,4 |
43,2 |
System-Low-the missile |
8,2 |
10,6 |
Navy Area |
7,3 |
? |
Navy Theater Wide |
5,5 |
? |
THAAD |
16,8 |
23 |
Patriot-3 |
10,1 |
? |
Space Based Laser |
3 |
? |
Airborne Laser |
6,4 |
11 |
La Balistic Missile Defense Organization (BMDO) prevede la ricerca simultanea nelle varie aree. Secondo le notizie che si avevano prima dell’11 settembre del 2001, l’amministrazione spinge per accelerare i progetti, in modo che alcuni possano divenire operativi prima della fine del mandato di Bush (2004), chiedendo al Congresso finanziamenti addizionali (7,9 miliardi di $ per il 2002, 2,2 miliardi in più della cifra che era prevista). Il programma di difesa tattica della Marina Navy Area ha incontrato difficoltà tecniche e se ne prevede lo spiegamento con 20 mesi di ritardo rispetto alla data prevista del dicembre 2003. La THAAD è prevista per il 2007, ma potrebbe venire anticipata di un anno o due. L’Airborne Laser è previsto per il 2008, ma potrebbe essere dispiegato nel 2003; 5 o 10 intercettori della NMD potrebbero esserlo nel 2004 (sebbene fonti del Dipartimento di Stato denuncino ritardi), sistemi basati in mare nel 2005. La sperimentazione dello Space Based Laser è prevista nel 2012 e dovrebbe costare 4 miliardi di $.
Non mancano peraltro rapporti ufficiali critici, o contrari al sistema di difesa: vi è stata anche una polemica per un rapporto che l’amministrazione aveva occultato.
Ma i progetti non finiscono qui. Ve ne sono infatti altri dell’Esercito, il Tactical High Energy Laser, la protezione mobile per le truppe Medium Extended Air Defense; poi ancora due programmi sviluppati per Israele, il programma Arrow di difesa di teatro (testato nelle manovre militari congiunte USA, Israele, Turchia del 17 giugno 2001), ed il laser anti-razzo. Poi vi sono ancora il sistema di satelliti di allarme SBIRS-High (solo per ricerca e sviluppo si prevedono 8,2 miliardi di $, più 2,4 miliardi di $ di supporto), la rete della Marina di gestione del campo Cooperative Engagement Capability, e diversi altri progetti collaterali.
Se questi sono i progetti di difesa dai missili balistici, i militari denunciano la mancanza di difese dai missili cruise (che, dicono, in futuro incorporeranno capacità stealth): ma si stanno sperimentando sistemi con questo scopo.
3. Tanto la Russia, come la Cina non hanno nascosto in passato la loro preoccupazione per i progetti statunitensi.
Vi è chi sostiene che la Russia sia più preparata di quanto si creda per superare le difese anti-missile, ma potrebbe prendere altre misure. Poiché, infatti, il trattato ABM del 1972 verrebbe violato, Mosca ha dichiarato che non riconoscerebbe più neppure i trattati START; la misura più economica sarebbe allora montare nuovamente testate multiple (MIRV) sui suoi missili. Attualmente ha iniziato a dispiegare un missile balistico intercontinentale di nuova concezione, il Topol-M (SS-27), che può essere dotato di testate multiple e dovrebbe addirittura essere capace di superare le difese antimissile! Per ora dispiega 10 nuovi missili Topol-M all’anno, ma potrebbe accelerarne la produzione e disporre così di 600-800 testate per il 2010; inoltre potrebbe non eliminare 90 dei vecchi missili SS-18 ed avere così altre 900 testate operative. Recentemente, poi, la Russia ha condotto un test di un nuovo missile balistico intercontinentale (SS-25) composto di tre stadi più un veicolo post-boost contenente la testata, costituito da un missile da crociera ad alta velocità che vola all’interno dell’atmosfera, per superare le difese antimissilistiche. Infine, vi sono notizie che anche la Russia stia sperimentando sistemi anti-missili.
Sembra comunque che la posizione della Russia si sia notevolmente indebolita dopo l’intervento americano in Afghanistan. E’ possibile che Putin abbia commesso gravi errori (mentre, d’altro lato, questo conferma ulteriormente quanto gli attentati dell’11 settembre 2001 e la crociata contro il terrorismo quadrino perfettamente con la strategia imperiale): basti pensare che gli Stati Uniti hanno colto l’occasione per uscire unilateralmente dal trattato ABM, e per mettere piede stabilmente nelle ex-repubbliche sovietiche dell’asia centrale, scalzando un tradizionale caposaldo dell’influenza russa, e ponendo un’ipoteca molto seria sul futuro della federazione degli stati indipendenti.
La Cina ha già sperimentato il missile balistico DF-31, mobile, a propellente solido di gittata 8.000 km, e sta mettendo a punto il DF-41, pure a propellente solido con gittata 12.000 km e una nuova classe di sommergibili nucleari.
Lascia attoniti piuttosto la posizione passiva e subalterna dell’Europa, la quale ha tutto da perdere dall’installazione dei sistemi antimissili americani. In primo luogo le basi radar di rivelazione del lancio dei missili sono collocate in Europa, ed essa costituirebbe quindi il bersaglio preferenziale di un attacco che si proponesse di "accecare" il sistema. Se poi venissero realizzati sistemi antimissili nella fase di spinta, l’Europa sarebbe sottoposta al rischio della caduta delle testate colpite! (Cfr. nota 7)
Quali saranno, infine, gli effetti prevedibili del dispiegamento di questo sistema di difesa? Il punto fondamentale da tenere presente è che qualsiasi sistema anti-missile ha una capacità limitata di distruzione delle testate attaccanti, e può venire contrastato efficacemente da una serie di contromisure: la reazione più efficace a questo sistema di difesa consiste quindi nel saturarlo, e questo si ottiene aumentando il numero di missili e di testate di un attacco nucleare. Per questo la difesa anti-missili scatenerà un’ulteriore corsa agli armamenti.