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Giu' le mani dalla legge 185

Difendiamo la 185

Giù le mani dalla 185, la legge che regolamenta il commercio di armi.
Lo chiede un ampio cartello di associazioni (Amnesty International, Archivio Disarmo, Arci, Asal, Associazione per la Pace, Banca Popolare Etica, campagna Chiama l'Africa, Comunità di sant'Egidio, Ctm-Altromercato, Lega obiettori di coscienza, Missionari Comboniani di Padova, Movimondo, Nigrizia, Pax Christi, redazione C'era una volta-Rai3 e Tavola della Pace), insorte contro il disegno di legge n. 4431, presentato lo scorso 19 gennaio dal Governo D'Alema e non ancora passato all'esame delle commissioni competenti del Senato (Affari esteri e Difesa), che introduce delle modifiche alla legge in un'ottica di liberalizzazione del mercato degli armamenti.

"La 185, approvata il 9 luglio del 1990 in seguito ad una massiccia mobilitazione dell'opinione pubblica, è una buona legge - spiega Luigi Anderlini, già senatore della Sinistra Indipendente e ora presidente di Archivio Disarmo -; nei primi anni fu applicata in maniera rigorosa, tanto che l'Italia, che contendeva all'Inghilterra il quarto posto nella classifica mondiale dei Paesi esportatori di armi, scese al ventesimo. Poi, a partire dal 1994, anche per le pressioni delle industrie produttrici di armamenti, molte delle quali a partecipazione statale, vennero concesse molte deroghe, fino a svuotarla di significato. Oggi i produttori di armi, in nome della libertà di mercato, vorrebbero avere ancora meno restrizioni e chiedono che la legislazione italiana si adegui a quella, meno restrittiva, degli altri Stati europei. Invece dovrebbe avvenire il contrario".

La legge 185 stabilisce una serie di criteri che devono guidare il Governo nella concessione di autorizzazioni alle aziende armiere per esportare i propri prodotti. Il principio fondamentale (art. 1 comma 6) sancisce il divieto di vendere armamenti ai Paesi "in stato di conflitto armato", ai Paesi soggetti ad "embargo totale e parziale delle forniture belliche da parte delle nazioni Unite", ai Paesi che impiegano risorse eccessive per la difesa rispetto alle altre spese di bilancio ed ai "Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell'uomo".

La proposta di modifica interviene, direttamente e indirettamente, su quest'ultimo punto, prevedendo che le eventuali violazioni dei diritti umani debbano essere ufficialmente "accertate dai competenti organismi delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea o del Consiglio d'Europa"; il giudizio della sola commissione governativa, quindi, non è più sufficiente Inoltre, nell'istruttoria che precede la concessione delle autorizzazioni, viene ridimensionato il ruolo del ministero degli Esteri (a vantaggio di quello della Difesa) e viene del tutto eliminata la possibilità di consultare le organizzazioni non governative per reperire informazioni aggiuntive sul rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi importatori di armi. Le altre modifiche contestate riguardano l'opportunità di rilasciare, ad ogni singolo produttore, un "autorizzazione globale" che, evidentemente, abbassa notevolmente la soglia di controllo sia sul tipo di armamenti esportati, sia sulla loro destinazione finale; e soprattutto l'esclusione dall'applicazione della 185 degli armamenti "coprodotti" da Stati membri della Nato o dell'Unione Europea. "Quest'ultima proposta - scrivono le associazioni - è uno dei cambiamenti più preoccupanti. Nelle coproduzioni, infatti, si applica la legge dello Stato dove è completata la produzione dell'arma e ciò, oltre a dare adito a trasferimenti di armi "quasi finite" solo per sfuggire alla legge italiana e per ricadere così nella giurisdizione meno rigorosa degli altri partner Ue e Nato, consente anche di consegnare armi e tecnologie a Paesi che danno poche garanzie sul rispetto dei diritti umani (ad esempio la Turchia) o che potrebbero riesportarli ad altri Stati che tali diritti violano o sono in stato di conflitto".

"Le conseguenze dell'eventuale approvazione del Disegno di legge nei termini in cui è stato presentato - scrivono ancora le associazioni - aprirebbero la strada ad uno scenario davvero inquietante". E chiedono al Parlamento di respingere tutte le modifiche e di rafforzare la 185, in particolare estendendo la sua giurisdizione anche alle cosiddette armi leggere, per la cui commercializzazione non esiste alcun divieto specifico, che, in base alla definizione elaborata da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite (UN A/52/298 del 5/11/1997), "sono quelle che possono essere trasportate facilmente da una persona, da un gruppo di persone, a trazione animali o con veicoli leggeri". Tre le categorie individuate: armi di piccolo calibro (revolver, pistole, fucili, carabine, pistole mitragliatrici e mitra), armi leggere (mitragliatrici pesanti, lancia missili e lancia granate portatili, armi e mortai portatili antiaereo e antimissile con un calibro inferiore a 100 millimetri), munizioni ed esplosivi.

E di armi leggere l'Italia è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondiali. Fra i suoi clienti (in base ai dati forniti dall'Onu, dall'Istat, dalla Relazione annuale governativa sul commercio di armamenti, dalle riviste "Nigrizia", "Oscar Report", "Il mondo domani", "Panorama Difesa", "Famiglia Cristiana", "Rivista militare" e dai quotidiani "Il Messaggero", "il manifesto" e "Italia Oggi"; l'elenco completo è disponibile presso l'Archivio Disarmo di Roma)

  • l'Algeria (250 mila cartucce nel 1993, oltre 15 mila pistole fra il 1996 e il 1997),
  • Burkina Faso (pistole per oltre 110 mila dollari fra il 1997 e il 1998),
  • Burundi (1 milione e 800 mila munizioni nel 1993),
  • Congo Brazzaville (armi e munizioni per oltre 4 milioni di dollari fra il 1997 e il 1998),
  • Egitto (30 mila mine antiuomo nel 1994),
  • Etiopia (esplosivi per oltre 210 mila dollari nel 1999),
  • Marocco (oltre mille pistole fra il 1996 e il 1997),
  • Ruanda,
  • Sierra Leone,
  • Tunisia (oltre mille pistole nel 1993),
  • Somalia (720 fucili mitragliatori nel 1993),
  • Uganda (870 fucili e carabine da caccia nel 1996),
  • Zaire (150 chili di munizioni e proiettili nel 1995),
  • Brasile (9 tonnellate di munizioni nel 1997),
  • Colombia (862 pistole nel 1997),
  • Ecuador,
  • Guatemala (quasi 2 mila pistole fra il 1996 e il 1997),
  • Messico (oltre 5 mila pistole nel 1997),
  • Perù (6 mila e 300 pistole nel 1996),
  • Stati Uniti (la Beretta ha vinto commesse per la fornitura di oltre 100 mila pistole all'Esercito, alla Guardia Nazionale, alla Polizia di frontiera e del Servizio immigrazione e alla Marina),
  • Venezuela (600 chili di munizioni nel 1997),
  • Filippine (oltre 6 mila e 500 pistole fra il 1996 e il 1997),
  • Turchia (oltre 7 mila pistole e 16 tonnellate di munizioni fra il 1996 e il 1997; il consorzio turco Sursilmaz, nel 1998, ha acquistato la fabbrica Bernardelli di Garddone Val Trompia in stato fallimentare ma in possesso di brevetti per la produzione di armi leggere antisommossa),
  • Austria (250 mila cartucce nel 1993),
  • ex Yugoslavia,
  • Norvegia (800 mila bossoli nel 1993),
  • Portogallo
  • Regno Unito (20 tonnellate di munizioni nel 1996).
"In vista della Conferenza mondiale contro il traffico di armi leggere indetta dall'Onu per il 2001, segno di una sensibilità diffusa al problema, il nostro obiettivo - spiega ancora Anderlini - ed è quello di arrivare ad un trattato internazionale di regolamentazione delle armi leggere, così come è stato fatto per le mine antiuomo, benché non tutti l'abbiano firmato".

La mobilitazione ha già avuto inizio; fra i primi sostenitori, gli scrittori Dacia Maraini e Antonio Tabucchi che hanno lanciato la campagna con un articolo pubblicato dal "Corriere della Sera" sabato 29 aprile. "Interi continenti, come l'Africa, hanno abbastanza armi leggere per protrarre e moltiplicare i conflitti armati nei prossimi dieci anni - si legge nell'appello della Campagna sulle armi leggere -.

Se quindi la moratoria di esportazioni italiane ed europee di armi leggere è un primo passo urgente, il tempo così guadagnato andrebbe utilizzato per promuovere programmi di riconversione degli stabilimenti armieri italiani. Occorre convincere chi vi lavora che la riconversione non è solo una scelta etica, ma un necessario passaggio verso un'economia sana. Non molti sanno infatti che l'industria militare è uno dei settori che più pesano sulle tasche dei contribuenti: larga parte delle transazioni di armi non potrebbe avvenire senza le garanzie finanziarie governative. Se aggiungiamo che chi si indebita per comprare armi è nella maggio parte dei casi un Paese povero, abbiamo chiaro il ciclo della violenza in loco e la criminalità. Il conseguente deterioramento dei rapporti sociali rende sempre più difficile prevenire nuovi conflitti armati, dove poi si rendono necessari appositi interventi di pace".