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Legislazione
Difendiamo la 185 Giù le mani dalla 185, la legge che regolamenta il commercio di armi.
"La 185, approvata il 9 luglio del 1990 in seguito ad una massiccia mobilitazione dell'opinione pubblica, è una buona legge - spiega Luigi Anderlini, già senatore della Sinistra Indipendente e ora presidente di Archivio Disarmo -; nei primi anni fu applicata in maniera rigorosa, tanto che l'Italia, che contendeva all'Inghilterra il quarto posto nella classifica mondiale dei Paesi esportatori di armi, scese al ventesimo. Poi, a partire dal 1994, anche per le pressioni delle industrie produttrici di armamenti, molte delle quali a partecipazione statale, vennero concesse molte deroghe, fino a svuotarla di significato. Oggi i produttori di armi, in nome della libertà di mercato, vorrebbero avere ancora meno restrizioni e chiedono che la legislazione italiana si adegui a quella, meno restrittiva, degli altri Stati europei. Invece dovrebbe avvenire il contrario". La legge 185 stabilisce una serie di criteri che devono guidare il Governo nella concessione di autorizzazioni alle aziende armiere per esportare i propri prodotti. Il principio fondamentale (art. 1 comma 6) sancisce il divieto di vendere armamenti ai Paesi "in stato di conflitto armato", ai Paesi soggetti ad "embargo totale e parziale delle forniture belliche da parte delle nazioni Unite", ai Paesi che impiegano risorse eccessive per la difesa rispetto alle altre spese di bilancio ed ai "Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell'uomo". La proposta di modifica interviene, direttamente e indirettamente, su quest'ultimo punto, prevedendo che le eventuali violazioni dei diritti umani debbano essere ufficialmente "accertate dai competenti organismi delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea o del Consiglio d'Europa"; il giudizio della sola commissione governativa, quindi, non è più sufficiente Inoltre, nell'istruttoria che precede la concessione delle autorizzazioni, viene ridimensionato il ruolo del ministero degli Esteri (a vantaggio di quello della Difesa) e viene del tutto eliminata la possibilità di consultare le organizzazioni non governative per reperire informazioni aggiuntive sul rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi importatori di armi. Le altre modifiche contestate riguardano l'opportunità di rilasciare, ad ogni singolo produttore, un "autorizzazione globale" che, evidentemente, abbassa notevolmente la soglia di controllo sia sul tipo di armamenti esportati, sia sulla loro destinazione finale; e soprattutto l'esclusione dall'applicazione della 185 degli armamenti "coprodotti" da Stati membri della Nato o dell'Unione Europea. "Quest'ultima proposta - scrivono le associazioni - è uno dei cambiamenti più preoccupanti. Nelle coproduzioni, infatti, si applica la legge dello Stato dove è completata la produzione dell'arma e ciò, oltre a dare adito a trasferimenti di armi "quasi finite" solo per sfuggire alla legge italiana e per ricadere così nella giurisdizione meno rigorosa degli altri partner Ue e Nato, consente anche di consegnare armi e tecnologie a Paesi che danno poche garanzie sul rispetto dei diritti umani (ad esempio la Turchia) o che potrebbero riesportarli ad altri Stati che tali diritti violano o sono in stato di conflitto". "Le conseguenze dell'eventuale approvazione del Disegno di legge nei termini in cui è stato presentato - scrivono ancora le associazioni - aprirebbero la strada ad uno scenario davvero inquietante". E chiedono al Parlamento di respingere tutte le modifiche e di rafforzare la 185, in particolare estendendo la sua giurisdizione anche alle cosiddette armi leggere, per la cui commercializzazione non esiste alcun divieto specifico, che, in base alla definizione elaborata da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite (UN A/52/298 del 5/11/1997), "sono quelle che possono essere trasportate facilmente da una persona, da un gruppo di persone, a trazione animali o con veicoli leggeri". Tre le categorie individuate: armi di piccolo calibro (revolver, pistole, fucili, carabine, pistole mitragliatrici e mitra), armi leggere (mitragliatrici pesanti, lancia missili e lancia granate portatili, armi e mortai portatili antiaereo e antimissile con un calibro inferiore a 100 millimetri), munizioni ed esplosivi. E di armi leggere l'Italia è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondiali. Fra i suoi clienti (in base ai dati forniti dall'Onu, dall'Istat, dalla Relazione annuale governativa sul commercio di armamenti, dalle riviste "Nigrizia", "Oscar Report", "Il mondo domani", "Panorama Difesa", "Famiglia Cristiana", "Rivista militare" e dai quotidiani "Il Messaggero", "il manifesto" e "Italia Oggi"; l'elenco completo è disponibile presso l'Archivio Disarmo di Roma)
La mobilitazione ha già avuto inizio; fra i primi sostenitori, gli scrittori Dacia Maraini e Antonio Tabucchi che hanno lanciato la campagna con un articolo pubblicato dal "Corriere della Sera" sabato 29 aprile. "Interi continenti, come l'Africa, hanno abbastanza armi leggere per protrarre e moltiplicare i conflitti armati nei prossimi dieci anni - si legge nell'appello della Campagna sulle armi leggere -. Se quindi la moratoria di esportazioni italiane ed europee di armi leggere è un primo passo urgente, il tempo così guadagnato andrebbe utilizzato per promuovere programmi di riconversione degli stabilimenti armieri italiani. Occorre convincere chi vi lavora che la riconversione non è solo una scelta etica, ma un necessario passaggio verso un'economia sana. Non molti sanno infatti che l'industria militare è uno dei settori che più pesano sulle tasche dei contribuenti: larga parte delle transazioni di armi non potrebbe avvenire senza le garanzie finanziarie governative. Se aggiungiamo che chi si indebita per comprare armi è nella maggio parte dei casi un Paese povero, abbiamo chiaro il ciclo della violenza in loco e la criminalità. Il conseguente deterioramento dei rapporti sociali rende sempre più difficile prevenire nuovi conflitti armati, dove poi si rendono necessari appositi interventi di pace".
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