CONSULENZA TECNICA DI PARTE PER IL TRIBUNALE ITALIANO CONTRO I CRIMINI DELLA NATO IN JUGOSLAVIA
GRUPPO DI LAVORO AD HOC PER LO STUDIO
DEL DU (URANIO IMPOVERITO) PROMOSSO DAL COMITATO
"SCIENZIATE E SCIENZIATI CONTRO LA GUERRA"
Pasquale Angeloni, medico legale, già Direttore del Centro Nazionale Trasfusione
Sangue, Roma
Mauro Cristaldi, naturalista, Dip. Biologia Animale e dell’Uomo, Univ. Roma
"La Sapienza"
Francesca Degrassi, biologa, Centro di Genetica Evoluzionistica CNR, Roma
Francesco Iannuzzelli, informatico, Associazione Peacelink - sez. Disarmo
Andrea Martocchia, fisico, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Luca Nencini, fisico, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Carlo Pona, fisico, Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra"
Silvana Salerno, medico del lavoro, Comitato "Scienziate e scienziati contro
la guerra"
Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare, Comitato "Scienziate e scienziati contro
la guerra"
Premessa
Il gruppo di lavoro ad hoc per lo studio dell’Uranio impoverito promosso dal Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra", per incarico conferito il 26.05.01 dal Tribunale Internazionale per i crimini della NATO in Jugoslavia (più noto come Tribunale Ramsey Clark), illustra nel presente documento, mediante una sintesi degli studi interdisciplinari finora messi a punto nell’ambito della Commissione scientifica del suddetto Tribunale, una elaborazione intermedia nelle conoscenze acquisite sui problemi relativi all’uso dei dispositivi ad Uranio impoverito (DU). Nel contempo il gruppo fa presente che continuerà a sostenere le iniziative proposte dal Tribunale Clark e che, in tale ambito, procederà all’aggiornamento del presente documento, alla discussione ed alla promozione di studi teorici e sperimentali, intervenendo laddove sarà ritenuto opportuno allo scopo di informare correttamente l’opinione pubblica e gli organi istituzionali preposti alla prevenzione ed al controllo dell’uso di tali dispositivi.
Nell’ambito dello sfruttamento di materiali pericolosi ad uso deliberatamente aggressivo trova posto un sottoprodotto dell’industria nucleare, l’Uranio impoverito (Depleted Uranium = DU). Sia a seguito dei processi di arricchimento per la preparazione del combustibile uranifero, sia a seguito del riprocessamento delle scorie uranifere esaurite a conclusione delle reazioni di fissione delle centrali nucleari, il DU, da ingombrante scoria, può essere invece riciclato come arma e come materiale metallico per usi civili, anche allo scopo di produrre profitti aggiuntivi a favore di alcune industrie belliche (cfr. Zajic, 1999), che approfittano del basso costo della materia per produrre dispositivi a nocività durevole e di uso illegale, soprattutto nel caso più comune e fraudolento in cui questi siano spacciati per armi di tipo convenzionale (Cristaldi et al., 2001).
Agli strateghi militari non poteva sicuramente sfuggire (Ebinger et al., 1996) la capacità dell’Uranio, non solo di bruciare facilmente raggiungendo temperature elevatissime, tali da fondere una corazzatura, ma anche di permanere a lungo nell’ambiente in forma di polvere e/o di frammenti, in conseguenza della sua scarsa penetrabilità nei terreni soprattutto argillosi (con rischi potenziali di contaminazione per le falde acquifere), della sua difficile determinabilità e confondibilità con l’Uranio naturale diffuso in natura, della sua alta reattività (grazie alle sue quattro valenze chimiche da 3 a 6) con formazione di diversi composti (WHO.INT, 2001), di cui uno solo abbastanza stabile e poco reattivo da consentirne l’inattivazione chimica in natura (Abdelouas et al., 2000), il biossido di Uranio (UO2). Né poteva sfuggire loro la capacità di utilizzarlo come sistema di ricatto a lungo termine sulla salute per intere popolazioni sottoposte all’azione cronica delle sue polveri in circolazione nell’ambiente (risollevamento da traffico veicolare e aereo, da ventosità naturale o provocata, da contaminazione manuale diretta). Per tale ragione la sua sperimentazione come arma di distruzione di massa, iniziata già dopo la seconda guerra mondiale in una isoletta giapponese presso Okinawa, fu riservata al vasto territorio irakeno (International Action Center, 1997), in quanto sabbioso, poco piovoso e ventoso (facendo quindi salve le caratteristiche di risospensione continua del particolato), in quanto scarsamente studiato nelle sue emergenze epidemiologiche pregresse ed in quanto dotato di presumibili e/o inducibili fattori di confondimento del rischio (petrolio combusto, fabbriche chimiche e farmaceutiche, impianti per la guerra batteriologica). Su questo territorio furono riversate circa 8-900 tonnellate di DU (soprattutto nel sud del paese), eseguendovi, a seguito dell’intervento dalle forze aeree anglo-americane, il più grosso esperimento bellico effettuato in vivo su popolazioni ed ecosistemi, di rilevanza comparabile alle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki, all’uso degli erbicidi in Vietnam ed al disastro di Chernobyl. A questo impiego - abbastanza riuscito per i fini sperimentali e di profitto a favore del mercato bellico per cui era stato concepito e di concerto con un’informazione intenzionalmente deviata riguardo alle forze politiche ed alla pubblica opinione (cfr. Barone et al. in Zucchetti, 2000; Valente in Zucchetti, 2000) - seguì l’ulteriore uso in Jugoslavia dei dispositivi ad Uranio impoverito con modifiche mirate soltanto a renderne minimale la pericolosità come agente contaminante esterno, soprattutto per quelle truppe statunitensi e britanniche che avevano già subito l’impatto "da fuoco amico" della guerra al DU in Iraq (US Army, 1995; The Society for Radiological Protection, 1998-2001; Hooper et al., 1999; McDiarmid et al., 2000; The Royal Society, 2001). L’uso di dispositivi al DU nelle recenti guerre in Somalia ed in Bosnia centrale e centro-orientale (soprattutto ampie aree intorno a Sarajevo), in Palestina ed in poligoni di tiro di competenza delle forze militari NATO, è ancora incompletamente documentato (Zajic, 1999; The Palestinian Council for Justice and Peace, 2001; Bastic, 2001; DPRSN, 2001). Il loro uso presumibilmente più limitato (Stato Maggiore dell’Esercito di Jugoslavia, 2001) in Vojvodina, in Serbia (aeroporto di Batajnica nei dintorni di Belgrado, valle di Presevo) ed in Montenegro (aeroporto di Podgorica, penisola di Lustica, località confinanti col Kosovo) ha probabilmente delle ragioni di tipo politico (e.g.: mantenimento parziale del consenso per l’"establishment" in Montenegro), ma soprattutto ragioni di tipo strategico militare. Si ricordi infatti che, dopo l’abbattimento in Serbia dell’aereo "invisibile" F-117° Nighthawk del costo unitario di 45 milioni di dollari (Altichieri, 1999), gli strateghi americani del Pentagono adottarono la tattica di effettuare incursioni aeree al disopra dei 5000 metri, considerati sicuri rispetto alla controffensiva della contaerea jugoslava. Si adottò di conseguenza la strategia della guerra altamente distruttiva sulle aree naturali protette e della guerra chimico-cancerogena perpetrata da alta quota contro quelle regioni e città della Jugoslavia (Novi Sad, Belgrado, Nis, Kraljevo, Pristina, Podgorica), dove non si prevedeva una reazione efficace di controffensiva agli attacchi aerei; quest'ultima fu attuata (cfr. Triolo et al. in Marenco, 1999; Cristaldi et al., 2000) con i bombardamenti mirati (cosiddetti "intelligenti") di serbatoi e impianti di lavorazione caratterizzati dalla massiva presenza di sostanze chimiche cancerogene (e.g. petrolchimici di Pancevo e Novi Sad, automobilistica Zastava in Kragujevac). Gli attacchi al DU contro il Kosovo - i più ampi e diffusi in tutta la guerra contro la Jugoslavia, per stessa ammissione NATO - prevedevano invece la distruzione di mezzi corazzati dell’esercito federale jugoslavo (spesso zimbelli nascosti come esche soprattutto in aree boscate) ed il terrore contro colonne di profughi di diversa etnia che si muovevano nel tentativo di fuggire alla guerra (FRY, 1999 a, b). Per la diffusione del DU in aree strategiche destinate a contaminazione furono utilizzati gli aerei A-10/0A-10 Thunderbolt II detti "Warthog", progettati appositamente per l’appoggio aereo ravvicinato alle truppe di terra, proprio in situazioni di aree di confine con l’Albania e la Macedonia, nelle quali si poteva senz’altro escludere l’intervento di efficaci contraeree. Questo tipo di aerei sono predisposti per l’uso dei cannoncini da 30 mm GAU-8/A Gatling nei quali possono essere usati la maggior parte dei proiettili al DU. Si presuppone che gran parte di questi proiettili non vadano a segno e si conficchino quindi profondamente nel terreno determinandone la difficile rilevabilità su campo, assieme ad un prevedibile effetto di contaminazione del suolo e delle acque (cfr. UNEP-Balkans, 2001). Gli esperti della campagna organizzata dall’UNEP ed altri gruppi di esperti (in genere militari) incaricati da paesi singoli, hanno cercato prevalentemente i penetratori al DU (e quindi i loro rivestimenti di alluminio) utilizzando rivelatori gamma e beta, per riuscire a localizzarne solo un basso numero e senza riuscire a trovare concentrazioni significative di DU disperso nell’ambiente, ad eccezione di licheni e muschi, raramente campionati, ma che funzionano rispettivamente come bioconcentratori di pulviscolo aereo e come sistema di filtraggio delle acque meteoriche e/o da dilavamento in microambienti umidi (UNEP-Balkans, 2001).
Nel complesso si può notare che la strategia bellica adottata dalla NATO presupponeva una contaminazione cronica di tipo chimico dell’area situata a sud-est di Novi Sad e dell’area situata a nord-ovest di Pancevo con interessamento di tutta l’area balcanica fino all’Ungheria a nord, alla Bosnia ad ovest, alla Romania ed alla Moldavia ad est, alla Grecia ed alla Macedonia a sud.
Per il Kosovo sembra invece che, prevalentemente, sia stato utilizzato il contaminante DU, meno distruttivo e rischioso nell’immediato, ma i cui effetti possono protrarsi per tempi più lunghi, dato l'enorme tempo di dimezzamento radioattivo dell'Uranio (pari all’età stimata per il pianeta Terra: 4 miliardi e mezzo di anni), le sue caratteristiche chimiche di metallo pesante e la relativamente scarsa profondità in cui penetra nei terreni allo stato micronizzato (circa 30 cm). L’assegnazione KFOR delle aree maggiormente contaminate da DU in Kosovo alla giurisdizione italiana e tedesca, se da una parte la dice lunga sui rapporti paritetici intercorrenti nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, d’altro lato potrebbe spiegare quella maggiore insorgenza di casi di tumore evidenziati nelle nostre truppe di stanza nei Balcani rispetto ad altri contingenti e segnalati dalla commissione Mandelli (2001), di cui si parlerà in seguito.
La dissoluzione di qualsiasi controllo pubblico e delle attività sanitarie e culturali durante l’occupazione militare KFOR del Kosovo-Methoija [=Kosmet, d’ora in poi chiamata Kosovo] - a parziale eccezione dell’intervento di ricerca UNEP-Balkans (2001) iniziato solo tardivamente nel Novembre 2000 - ha portato all’esclusione dai controlli e dall'informazione sulla pericolosità del DU disperso (da voci di popolo attribuita allora nientemeno che alla propaganda filo-serba!) di grosse fasce di popolazione (soprattutto kosovari albanesi reinsediati), di gruppi di volontari provenienti da altri paesi e di militari operanti in Kosovo. Questi gruppi a rischio - ignorando una poco pubblicizzata notifica del 16/8/1993 effettuata dal Dip. della US Army (che determinò rigide precauzioni per le truppe USA dopo la guerra del Golfo), fino alla notifica della potenziale pericolosità dell’esposizione a DU avvenuta con lettera firmata dal Col. O. Bizzarri il 22/11/1999 per le truppe italiane - avevano - nei circa 5 mesi intercorsi tra la fine dei bombardamenti contro la Jugoslavia e la suddetta notifica, ma senza adottare alcuna precauzione - rimosso carcasse metalliche, trasportato residuati metallici destinati alla vendita, accumulato materiali di risulta contaminati, respirato polveri in sospensione nei campi (coorte a rischio: contadini), nelle strade (coorte a rischio: addetti ai veicoli) e negli sterrati (coorte a rischio: bambini e fanciulli residenti dai 3 anni in su) e, secondariamente, portato indosso, trasportato e manipolato proiettili al DU e/o loro parti.
Nonostante le carenze conoscitive dovute ad insufficienza di ricerche mirate, le conoscenze essenziali finora validate a livello scientifico sono di seguito elencate in forma riassuntiva, per facilitare la percezione complessiva del problema:
Il gruppo di lavoro concorda sui sopracitati elementi di valutazione, che supportano serie perplessità suscitate da alcune dichiarazioni di innocuità, espresse durante ed a seguito della presentazione della prima bozza dei lavori della commissione Mandelli (2001), ricorda che l’uso bellico di questo elemento radioattivo è stato già precedentemente sottoposto a veto internazionale (Cristaldi et al., 2001) ed indica alcune metodologie di ricerca e di sperimentazione che sono ormai indilazionabili. Il dettaglio delle diverse proposte, per motivi di leggibilità e concisione, è necessariamente limitato. Gli scriventi sono tuttavia a disposizione per fornire su ogni iniziativa ulteriori dettagli.
Tempi previsti per i prelievi relativi a queste prime indagini (punti da 1 a 4): entro il primo triennio dall’ultima esposizione.
Tempi previsti per i tre ultimi tipi di indagine: un quarantennio.
La relazione in oggetto va considerata solo come un punto di partenza per il prosieguo delle indagini e per la creazione di un apposito osservatorio epidemiologico, che contribuisca ad attenuare i danni della presenza di frammenti e contaminazioni provenienti dall’uso del DU nei Balcani.
Devono essere tuttavia considerate alcune notevoli carenze ed omissioni che sono state rilevate nella metodologia utilizzata e dunque nelle conclusioni cui è pervenuta la Commissione.
Come ammesso dagli stessi estensori fin dalla stesura preliminare della relazione Mandelli, i casi presi in considerazione nello studio epidemiologico "provengono in parte da segnalazioni spontanee". Non vi è stata pertanto nessuna ricerca attiva dei "malati", ma solo i malati che hanno voluto/potuto hanno segnalato il loro caso.
Sono stati esclusi dal conteggio i casi senza una "diagnosi documentata". Ciò vuol dire che, se si attivassero indagini specifiche, alcuni tumori potrebbero raggiungere la documentazione necessaria per una diagnosi anche istologica accurata.
Se ne deduce che con la attivazione di uno studio specifico si potrebbero rilevare nuovi casi non segnalati e documentare casi con diagnosi imprecise.
Nella seconda versione vengono accertati 28 casi di tumore tra i militari, pressoché equamente divisi tra tumori ematici e tumori solidi; tra i primi, solo 3 avevano effettuato missioni soltanto in Kosovo (a Pec), mentre del secondo gruppo un solo militare proveniva da Dakovica (Kosovo); la rimanente settima parte dei colpiti da tumori aveva operato in almeno una missione (da 55 a 388 giorni) a Sarajevo (Bosnia) tra il 1996 ed il 1999 (l'unico tumore polmonare dell'unico cinquantenne operante a Sarajevo nel 2000 appare attribuibile ad altri fattori causali). Sorprende la rapida eziologia dei tumori in persone giovani (latenza apparente: da circa 5 mesi a 4 anni per i tumori ematici, da 10 mesi a 4 anni per quelli solidi), non solo per i linfomi di Hodgkin (5 dalla Bosnia, tre dal Kosovo ed uno da ambedue), ammettendo la connessione con l'esposizione in aree contaminate da DU, come recentemente sostenuto persino dagli organi della grande stampa statunitense (USATODAY, 2001).
La durata delle missioni non viene praticamente presa in considerazione, se non come dato cumulativo. Nessun criterio è stato preso in considerazione per valutare i diversi livelli di esposizione tra militari che hanno svolto missioni di un solo giorno (nessuno dei quali si è ammalato: il minimo riscontrato è 55 giorni di permanenza per un giovane malato di tumore cerebrale) e militari con tre anni di permanenza in Jugoslavia. Non viene affatto considerata la mansione svolta (se operativa o sedentaria, nemmeno per reparto) e le eventuali precauzioni e profilassi adottate. Tantomeno vengono considerate altre fonti di possibile contaminazione, anche per specifiche abitudini personali (e.g.: fumo). Manca l'anamnesi dettagliata sui malati per poter ricostruire i fattori causali implicati.
Nella relazione vengono presi in considerazione tra gli esposti anche i casi di militari mandati in missione in zone non contaminate (cfr. Tab. 4 relazione Mandelli).
Il problema della discriminazione fra aree bombardate dalla Nato e aree non bombardate non è nemmeno discusso. In assenza di indicazioni NATO sull’uso del DU in Bosnia, si è indotti a pensare che il DU non dovrebbe essere stato usato dalla NATO almeno nelle enclaves saldamente in mano ai musulmani, notoriamente appoggiati dalle truppe NATO.
Particolarmente improprie appaiono le inclusioni nella lista di militari che hanno svolto missioni a Mostar (798 missioni in tutto), mai bombardata con DU in quanto posta nella zona del conflitto tra croati e musulmani di Bosnia, a Strmica (24 missioni), a Zvornik (14 missioni) e in altre almeno 26 località (da 1 a 4 missioni ciascuna), nelle quali complessivamente (888 missioni), per ragioni di collocazione geo-politica (enclaves musulmane o croate della Bosnia, località della Croazia), si poteva senz’altro escludere l’avvenuto uso bellico del DU.
Dall’esame dei toponimi riferiti alle località di confronto, si nota una diffusa imprecisione lessicale di questi (dimostrata peraltro dalla incompleta sovrapponibilità dei dati della seconda relazione rispetto alla prima), l’inserimento confusionario (almeno 46 località con una sola o con pochissime missioni, tra le quali si annoverano una ventina dei sopracitati "siti impossibili") di località estranee sia alla Bosnia, sia al Kosovo. Inoltre si constata nella versione preliminare l’enumerazione di missioni in "Bosnia (varie località)" e in "Kosovo (varie località)" di rispettivamente 103 e 310 missioni effettuate dalla Marina (sic!), poi trasformate nella seconda versione in 103 missioni a Mostar (Bosnia), 98 missioni a Decani, 87 a Klina, 125 a Mitrovica (tutte e tre località del Kosovo), sempre attribuite alla Marina militare. I nomi delle località sono trascritti in maniera evidentemente superficiale, con evidenti errori di spelling (e.g.: Ottrid al posto di Ohrid), mischiando nomi di città con nomi di regioni, nomi di sobborghi con nomi di quartieri di grandi città, in maniera talvolta da considerare le stesse aree in più voci diverse o di rendere ardua o impossibile una qualsivoglia identificazione delle stesse (e.g.: Bukovac, Jakova, Vuota), fino ad includere 78 missioni in località dichiaratamente non precisate. Nelle relazioni non si fa alcun cenno sulle posizioni geografiche degli obiettivi colpiti effettivamente in Bosnia, nonostante il fatto che i raid aerei ivi effettuati siano partiti per la quasi totalità dalla base di Aviano; per ogni raid, infatti, il pilota, nel suo rapporto di operazione, deve specificare quali obiettivi ha eventualmente colpito, le loro coordinate geografiche, il tipo di colpi impiegati (Accame, com. pers.)
Appare del tutto scorretto accorpare, come ha proceduto la comm. Mandelli (2001), i presunti esposti in Bosnia (quindi dal 1995), ammontanti ad un numero deducibile di missioni pari a 30334, con gli esposti in Kosovo (dal 1999), pari a circa 24683 missioni, in quanto, almeno per i tumori degli elementi figurati del sangue (leucemie e linfomi) che rappresentano le prime evidenze tumorali, soltanto per la Bosnia i tempi di latenza accettati (dell'ordine dei cinque anni) possono corrispondere a quelli attesi (al confronto con i dati irakeni il picco massimo dovrebbe essersi verificato proprio nello scorso e nel presente anno), mentre per il Kosovo tali tempi di latenza sono da ritenere ancora insufficienti. Per correttezza metodologica, quindi, le valutazioni si sarebbero dovute effettuare solo per la prima coorte (esposti in Bosnia), mentre il rischio in Kosovo si sarebbe dovuto scorporare, per poi senz’altro monitorarlo e compararlo nel tempo, ma evitando momentaneamente di sottoporlo a valutazioni quantitative, soprattutto in aggiunta all’altra coorte della Bosnia esposta nei quattro anni precedenti. Tale artificio, assieme alle altre imprecisioni, sembra voler tendere a nascondere una qualche ragione orientata alla sottostima del rischio ed una latente propensione alla diluizione dei dati di confronto. La stessa proposta di modifica delle valutazioni statistiche formulata da Bartoli Barsotti (2001) e poi accettata (Mele, 2001) nella seconda versione della relazione Mandelli (2001), considerando come "poissoniana" la distribuzione dei dati statistici relativi alla probabilità di insorgenza dei linfomi di Hodgkin, tende a confermare quest’ultima deduzione; nelle conclusioni la commissione deve infatti ammettere: "Esiste un eccesso, statisticamente significativo, di casi di Linfoma di Hodgkin", che cerchiamo di spiegare nel paragrafo seguente.
I linfomi maligni (Hodgkin e non-Hodgkin) sono stati oggetto di numerosi studi epidemiologici ed associati a varie esposizioni ambientali, specialmente solventi (tra cui il benzene), legno, diossina ed erbicidi fenossiacidici (Persson et al., 1993; Pesatori et al., 1993). Alcuni studi rilevano la relazione tra linfoma di Hodgkin e presenza nell’ ambiente di lavoro di Uranio (Archer et al., 1973; Checkoway et al., 1985). Studi su lavoratori esposti a lavorazioni di processamento di Uranio in impianti nucleari statunitensi (Gilbert et al., 1993 a, 1993 b; McGheorgegan & Binks, 2000) mettono in luce la relazione tra esposizione e linfoma di Hodgkin, anche se per gli autori rimane dubbia l’interpretazione dei risultati (incompatibilità con i risultati ottenuti sugli esposti ad irraggiamento esterno di Hiroshima e Nagasaki, casualità statistica).
La relazione riscontrata tra uso massiccio del DU e cancerogenesi (soprattutto leucemie e linfomi di Hodgkin con picchi dopo un quinquennio dall’esposizione e l’insorgenza di gravi malformazioni nei concepiti) riscontrata nei militari irakeni, statunitensi e britannici della guerra del Golfo (Durakovic, 1999; Zaijc, 1999; Al-Jibouri, 2000; McDiarmid et al., 2000; The Royal Society, 2001), sembra non lasciar dubbi sulla cancerogenicità per via interna ed a basse dosi del DU. Questi risultati mettono anche in evidenza che i provvedimenti (compresa la ricerca mirata) di profilassi e cura da attuare sui soggetti colpiti da alcune forme di cancro (The Society for Radiological Protection, 1998-2001), ed in generale su tutti le popolazioni esposte a rischio da DU, raccomandati anche dalla commissione Mandelli (2001), devono essere assolutamente estesi anche ai concepiti dalle persone a rischio (familiari degli esposti). Dovranno essere previsti pertanto gli opportuni provvedimenti di spesa, che potrebbero ricadere sui responsabili politici delle contaminazioni territoriali procurate attraverso armi illegali (Cristaldi et al., 2001).
Il gruppo degli esposti impiegati nelle zone bombardate con armi al DU potrebbe sviluppare il cancro in maniera differenziata in relazione ai livelli di esposizione a DU e/o altri contaminanti e in virtù di una maggiore o minore suscettibilità individuale.
Il linfoma di Hodgkin è infatti una forma tumorale aspecifica che potrebbe essere presente in maniera statisticamente significativa tra i militari italiani per l’esposizione ad agenti mutageni in presenza di stress psico-fisico. Il sistema immunitario, esposto a più fattori stressanti contemporaneamente, tra cui l’esposizione al DU in condizioni di multiple e basse dosi, potrebbe aver reagito con queste forme tumorali tipiche dei giovani.
Una recente conferma di queste deduzioni proviene dai militari spagnoli (The Office of Soldier’s Defender in Spain, 2001), i quali, aggiungendo i volontari operanti in Kosovo, avrebbero sviluppato complessivamente 27 tumori, di cui 4 sono stati diagnosticati come linfomi di Hodgkin, che è la forma di tumore più frequente in questa coorte esposta in Kosovo.
RINGRAZIAMENTI: Gli AA. sono grati a Falco Accame, Angelo Baracca, Paolo Bartolomei, Mariella Cau, Chiara Cavallaro, Giorgio Cortellessa, Stefano De Angelis, Valerio Gennaro, Angelo Mastrandrea, Ivan Pavicevac, Paolo Pioppi, Francesco Polcaro, Alessandra Signorini, Antonella Signorini, Lucio Triolo, per il prezioso supporto critico ricevuto durante la raccolta della documentazione; tale ringraziamento va esteso a tutto il Comitato "Scienziate e scienziati contro la guerra" ed a tutto il gruppo di lavoro del Tribunale Clark per l’interesse ed il sostegno ottenuto nella realizzazione del presente rapporto.
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si articola in:
ALLEGATO 1 - Dati sull'uranio impoverito
ALLEGATO 2 - Usi dell'uranio impoverito
ALLEGATO 3 - Glossario di autoprotezione
ALLEGATO 4 - Modello per la stima delle conseguenze sulla popolazione balcanica
BIBLIOGRAFIA per gli allegati 1-4