Da: "Nello Margiotta" A: Oggetto: Dopo l'Argentina puo' toccare al Venezuela e alla Colombia Data: sabato 19 gennaio 2002 18.14 (IL Manifesto) Sudamerica, un virus di nome Tango Il crack dell'Argentina era atteso da un anno e la tesi ufficiale è "tranquilli, Buenos Aires non è contagiosa". Ma almeno due paesi sudamericani sono sul punto di esplodere. In Venezuela, il presidente Chavez è ai ferri corti con Washington e si parla di golpe (o autogolpe). In Colombia, Usa ed esercito spingono il presidente Pastrana alla guerra con le Farc, l'ultimatum scade domani. Dopo 15 anni di democrazia formale, se saltano Bogotà e Caracas salta l'intero modello dell'America latina MAURIZIO MATTEUZZI Dopo l'Argentina, il cui crack era atteso da almeno un anno, ci sono altri due anelli deboli nella catena latino-americana che saranno - o potrebbero essere - i prossimi a saltare. Il Venezuela e la Colombia. Se uno dei due salterà sarà difficile continuare a sostenere la tesi ufficiale di "tranquilli, l'Argentina non è contagiosa". Perché se è vero che si tratta nei tre casi, come sempre, di situazioni differenti e non immediatamente comparabili, altrettanto evidente è che il precipitare della crisi in tre paesi così diversi in tempi così stretti sarebbe la riprova di una instabilità nuova e inquietante in una regione che dopo 15 anni di neo-liberalismo economico più o meno assoluto e di democrazia politica formale sembrava pacificata - o rassegnata - sotto il "consenso di Washington". Nel senso di Casa bianca e Fondo monetario. Fatte salve le singole specificità, risulterebbe chiaro che il modello proposto (imposto) non funziona. Il Venezuela è quello che presenta più analogie con il caso argentino. Perché se in Argentina c'è la grande paura che il governo Duhalde torni al vecchio populismo, corredato dai suoi due aggettivi specificativi: nazionalista e protezionista, il presidente Hugo Chàvez populista, nazionalista e protezionista lo è per definizione. Solo che, finora, da quando ha vinto a valanga le elezioni del dicembre '98 e si insediato nel palazzo presidenziale di Miraflores di Caracas nel febbraio '99, la "rivoluzione bolivariana" si era limitata più che altro a incendiari proclami retorici - contro le élite "corrotte e cleptocratiche" dei due partiti storici, contro i "pescecani" dell'oligarchia economica, contro "la disumanità" del mercato e delle ricette neo-liberiste, contro "le imposizioni" prepotenti degli Stati uniti e del Fondo monetario. Eccessi verbali che gli venivano perdonati - come l'eccessiva amicizia per Fidel Castro - con qualche sorriso di sufficienza, anche in nome del fatto che il Venezuela è il secondo fornitore di greggio degli Usa e che le sue riserve vengono solo dopo quelle dell'Arabia saudita e del Mar Caspio (che poi sono la vera ragione delle guerra americana "al terrorismo"). Ma ora che il prezzo del petrolio è di nuovo crollato, che la sua popolarità è in caduta verticale (dal 90 al 19%), che la povertà angosciosa in cui si dibatte incredibilmente l'80% della popolazione dell'Eldorado venezuelano non accenna a diminuire, che ha deciso di dare un giro di vite in materia economica con 49 decreti presidenziali che toccano la proprietà della terra, le royalities petrolifere e i diritti di pesca, evidentemente ha passato il segno e nulla gli viene più perdonato. L'oligarchia politica, economica, sindacale e sociale, annientata dall'ondata chavista in sei o sette elezioni in due anni, ha ripreso fiato. Il 10 dicembre una inedita coalizione fra Federcamaras (l'organo del padronato locale) e Ctv (il sindacato tradizionalmente legato al vecchio duopolio social-democratico/social-cristiano che ha (s)governato per quasi 40 anni) ha proclamato un "paro", a La Carlota e negli altri barrios di lusso di Caracas sono cominciati i cacerolazos, l'ex presidente socialdemocratico Carlos Andres Perez (cacciato a suo tempo per corruzione) dal rifugio di Santo Domingo ha fatto sapere di essere pronto a tornare per assumere la guida di "un governo provvisorio". L'11 settembre è stato un punto di svolta anche per il Venezuela. La minaccia di Bush "o con noi o contro di noi" ha cominciato a macinare Chavez. Le sue dichiarazioni contro il "Plan Colombia", contro l'Alca - l'Accordo di libero commercio delle Americhe proposto/imposto da Bush ai 34 paesi "democratici" dell'America latina a partire dal 2005 - e in favore del rilancio del Mercosud, al quale il Venezuela "bolivariano" vorrebbe aderire al più presto, avevano già fatto scattare l'allarme a Washington, come pure i suoi sforzi come membro influente dell'Opec per tagliare la produzione e tentare di risollevare il prezzo del greggio. Ma sono state le sue dure critiche dei bombardamenti americani sulla popolazione civile afghana - equiparati al "terrorismo" di Osama bin Laden - la classica goccia che ha portato a una prima rottura, con il richiamo a Washington "per consultazioni" dell'ambasciatore Usa. La signora Donna Hrinak è poi tornata, dopo qualche giorno, a Caracas, ma ormai il count-down è cominciato. Ai primi di gennaio, l'ambasciatore Hrinak andata di persona a recare conforto alla redazione di El Nacional, uno dei grandi giornali venezuelani, attaccato prima da Chavez per "il suo terrorismo mediatico" e poi da una folla di sostenitori chavisti. L'ex-gauchista peruviano Mario Vargas Llosa ha messo ancora una volta la sua penna al servizio del "libero mercato" scrivendo sui giornali di mezzo mondo le sue considerazioni su Chavez - "un demagogo, un inetto, un ignorante" - e sul suo "delirio populista". Chavez ha risposto con il solito furore ai critici di dentro e di fuori. Se prima diceva che la "rivoluzione bolivariana" è "pacifica", adesso ricorda che "questa è una rivoluzione armata" e che se "l'oligarchia ha le pentole, il popolo ha i caccia F-16, i missili e i cannoni. E dopo il crack argentino ha girato il coltello nella piaga affermando che "solo fino a pochi anni fa l'Argentina ci era presentata come un modello da seguire: neo-liberalismo, mercato, privatizzazioni, modernità... Noi abbiamo portato il Venezuela fuori da quella strada". In Venezuela sono sempre più frequenti le voci di un golpe. Che potrebbe assumere anche le forme di un auto-golpe. L'11 settembre del "con noi o contro di noi" è stato decisivo anche per la Colombia. I tre anni di negoziati fra il governo del conservatore Andres Pastrana e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, sono stati dichiarati falliti dal governo domenica 13 gennaio. Che accusava del fallimento le Farc: che rifiutavano ostinatamente di recedere dalla richiesta che cessassero l'accerchiamento delle forze armate e i voli spia americani sull' "area di distensione" concessa alla guerriglia nel novembre '98 - "Farclandia", nel sud colombiano, 42 mila chilometri quadrati, grande come la Svizzera -; che avevano approfittato dei tre anni di negoziati per riarmarsi e addestrarsi in nuove tattiche terroriste; che avevano incrementato il narco-traffico; ma, soprattutto, che respingevano le pressioni per dichiarare un cessate il fuoco immediato sospendendo la pratica dei sequestri di persona e degli attacchi alle infrastrutture. Le Farc di Manuel "Tirofijo" Marulanda, ribattevano che la sospensione del fuoco doveva essere il risultato e non il preambolo dei negoziati e che erano disponibili a continuare i negoziati, che la decisione di rompere era del governo e Pastrana si era piegato ai voleri di Bush. Pastrana aveva dato 48 ore di tempo alle Farc per sgombrare "Farclandia", poi l'esercito avrebbe avuto mano libera. L'ultimatum scadeva alle 21.30 di domenica 13 poi rinviato di 24 ore per dare tempo ai tentativi di mediazione dell'ultimo minuto. Lunedì 14, dopo un'intera giornata di negoziati, l'inviato dell'Onu, l'americano James LeMoyne, vescovi cattolici e gli ambasciatori del gruppo dei 10 "paesi amici", costituitosi nel febbraio 2001 e fra cui ci sono Svizzera e Italia, riusciva a convincere le Farc ad accettare in via di principio la principale richiesta di Pastrana: "Ci impegnamo a negoziare un cessate il fuoco". Lunedì notte il presidente colombiano è apparso in tv per annunciare che i negoziati riprendevano ma ha concesso solo sei giorni alle Farc per fissare "il calendiario di un accordo" che deve portare "alla cessazione delle ostilità", completa, ossia comprendente "la sospensione di sequestri, sabotaggi e attacchi alla popolazione civile". Il nuovo ultimatum scade domani, domenica 20 gennaio. Ma è quanto mai improbabile che si possa arrivare a una soluzione con una guerriglia in attività da 40 anni e che controlla il 40% del territorio. Ed è lo stesso quanto mai improbabile che le principali richieste contenute nell'agenda in 14 punti consegnata dalle Farc al momento dell'avvio dei negoziati - fra cui la sospensione del pagamento del debito estero, la riforma agraria e forti misure per la redistribuzione del reddito - possano essere accettate da un'anatra zoppa quale è Pastrana (le elezioni presidenziali sono fissate per maggio) e soprattutto dagli americani. In questi tre anni non solo le Farc si sono rafforzate militarmente ma anche le forze armate, che addestrate dai berretti verdi Usa (ce ne sono come minimo già 500 in attività nel paese andino) hanno più che raddoppiato i loro effettivi (da 20 a 50 mila), hanno messo in piedi forze di rapido intervento e brigate anti-guerriglia, hanno avviato un piano di fumigazione indiscriminata delle colture di coca, e soprattutto hanno - nonostante le critiche internazionali - rafforzato in numero e capacità operative i paramilitari di estrema destra delle Auc (Autodefensas unidas colombianas), da sempre usati come forza di complemento anti-guerriglia per i lavori sporchi. Il Plan Colombia, votato dall'amministrazione Clinton nel giugno 2000, è stato il punto di svolta: 1.3 miliardi di dollari di aiuti militari per la guerra al "narco-traffico", che per gli americani vuol dire "narco-guerriglia". Tanto più dopo l'11 settembre, quando il dipartimento di stato ha messo nel listone di "gruppi terroristi" le Farc e l'Eln (il secondo principale movimento guerrigliero, impegnato in negoziati di pace cominciati venerdì 11 gennaio all'Avana, con la mediazione del solito gruppo di "paesi amici"). Ai primi di gennaio la signora Anne Patterson, ambasciatrice Usa a Bogotà, ha consegnato a Pastrana 16 elicotteri da combattimento Black Hawks, presto arriveranno altri 30 elicotteri Huey. I margini di manovra politica sono sempre più stretti, mentre Amnesty International lancia invano l'allarme sull'"impatto disastroso" che la rottura del processo di pace avrebbe sulla popolazione civile di Farclandia, 120 mila campesinos destinati a diventare le vittime sacrificali delle rappresaglie incrociate dei militari, dei paramilitari e della guerriglia. Il modello dei negoziati-mentre-si spara non è più praticabile. Ma nessun altro modello è alla vista, in una situazione come quella in cui si trovano la Colombia e gli Stati uniti. Una guerra strisciante che non ha soluzione militare e che ha già fatto 40 mila morti rischia da un momento all'altro di esplodere in una guerra "sempre più civile e meno militare - come dice Augusto Ramirez Ocampo, ex ministro degli esteri ed ex negoziatore con le Farc - in cui qui continuerà a morire più gente che in Kosovo e in Afghanistan". Nello change the world before the world changes you www.peacelink.it/tematiche/latina/latina.htm