Gestire il <<Nuovo Rwanda>> nato nel 1994?

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Sono due anni che il Fronte patriottico ruandese (F.P.R.) ha preso il potere a Kigali al termine di una delle pagine più scure della storia recente dell'umanità. Contrariamente a ciò che numerosi osservatori avevano sperato e che alcuni credono ancora, la vittoria del F.P.R. non ha portato né stabilità, né riconciliazione. Il complesso problema ruandese permane intero e il suo potenziale di nuova violenza é considerevole; la calma relativa non é che apparente. Questo breve articolo tenta di analizzare il percorso del nuovo potere e di delineare le prospettive d'avvenire del Rwanda e della regione dei Grandi laghi dell'Africa centrale.

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LA MESSA IN ATTO DELLE NUOVE ISTITUZIONI

La guerra tra le Forze armate ruandesi (F.A.R.) e l'armata del F.P.R., che era ripresa il 7 aprile 1994, ha fine il 18 luglio quando Gisenyi cade e il F.P.R. ha il controllo di tutto il territorio, fatta eccezione - provvisoriamente - della << zona umanitaria sicura >> creata nel Sud-ovest per l'operazione Turquoise condotta dalla Francia.

L'indomani, un nuovo governo presta giuramento a Kigali. Mentre la sua composizione sembra a prima vista tradurre la volontà di rispettare se non la lettera, almeno lo spirito dell'accordo di Arusha, una lettura più attenta dimostra il contrario. Infatti, corrispondono all'accordo gli elementi seguenti: l'integrazione di cinque (F.P.R., Movimento democratico repubblicano-M.D.R., Partito social-democratico-P.S.D., Partito liberale-P.L., Partito democratico cristiano-P.D.C.) dei sei partiti che dovevano partecipare al governo, essendo escluso il M.R.N.D., e il mantenimento di Faustin Twagiramungu (M.D.R.), previsto dall'accordo, come Primo Ministro. Ma le storture all'accordo sono rilevanti. Dei cinque seggi riservati al M.R.N.D., tre sono occupati dal F.P.R. e due sono attribuiti a degli indipendenti. Questo significa concretamente che il F.P.R. detiene solo la minoranza del blocco di un terzo più uno dei membri del governo, poiché possiede ormai otto dei ventuno portafogli (la legge fondamentale prevede che le decisioni del Consiglio dei ministri devono essere prese con una maggioranza dei due terzi. Si vedrà subito l'importanza di questa aritmetica. La presidenza della Repubblica, riservata dall'accordo al M.R.N.D., é affidata a Pasteur Bizimungu (F.P.R.) e viene creata una vice presidenza che é assunta dal generale Paul Kagame (F.P.R.) l'uomo forte del regime che diventa anche ministro della Difesa nazionale. Da cerimoniale, la presidenza diventa inoltre esecutiva, anzi anche dominante. Questo si nota a più livelli, ma é più visibile nella disposizione che stipula che se il governo é incapace di prendere una decisione, <<il presidente della Repubblica decide sovranamente>>. Poiché, come abbiamo visto, il F.P.R. é capace di bloccare la presa delle decisioni in seno al governo, può quindi controllare il processo decisionale se lo desidera.

Quando il 25 novembre 1994 viene installata una nuova Assemblea nazionale, osserviamo ancora una volta che l'accordo di Arusha é solo in parte rispettato e su alcuni punti importanti modificato.

Elemento di continuità, i (le ali dei) partiti << che non si sono lordati nel genocidio >> sono integrati nel parlamento: il F.P.R., il P.L., il M.D.R. e il P.S.D. ottengono tredici seggi ciascuno, il P.D.C. sei e tre piccoli partiti due ciascuno. Una novità importante consiste nell'inclusione di sei deputati rappresentanti l'esercito; questo non é un elemento di scarso valore, in quanto questi ultimi fanno pendere il piatto della bilancia in favore del F.P.R., assicurandogli una maggioranza che altrimenti non avrebbe avuto.

Riassumendo, constatiamo che tanto il potere esecutivo quanto il potere legislativo sono fermamente controllati dalla parte vincente del conflitto, ma che il carattere monolitico del potere é relativamente ben nascosto dalla semantica (<< governo di unione nazionale >>) e da un'abile ingegneria costituzionale. Questo non concerne d'altronde che gli aspetti giuridici dell'esercizio del potere; ma si osserverà più in là che il sistema funziona in un ambiente di sicurezza e militare molto coercitivo. Le costrizioni <<fisiche>> si riveleranno ben più pesanti delle regole costituzionali.

 

SEGNO DELLA DISILLUSIONE: LE DEFEZIONI

Numerosi politici, funzionari, magistrati e militari decidono sia di mettersi sotto la protezione del F.P.R. al momento della ripresa della guerra, sia di rientrare in Rwanda dopo la vittoria di quest'ultima. Se per alcuni la scelta é stata opportunistica, per altri é stata invece dettata dalla buona fede e dall'idealismo. Hanno creduto che il F.P.R. dicesse la verità quando nell'ottobre del 1990 prometteva di portare la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti dell'uomo e che grazie ad esso ci si sarebbe sbarazzati di un sistema dittatoriale. Decidono dunque di mettersi al servizio del paese e di ricostruirlo insieme col F.P.R.

 

L'illusione ha avuto breve durata. La disillusione di coloro che vi hanno creduto si esprime attraverso la lista impressionante delle personalità che dal luglio 1994 hanno deciso di lasciare il Rwanda e di scegliere la via dell'esilio. Tra le più importanti partenze, si nota quella di un Primo ministro (Twagiramungu), di tre ministri (Ndagijimana, Nkuliyingoma, Sendashonga), del procuratore della Repubblica di Kigali (Nsanzuwera), di alcuni dirigenti di associazioni per la promozione dei diritti dell'uomo (segnatamente Matata, Nyiribimbi e Katabarwa), del governatore (Niyitegeka) e del direttore-tesoriere (Ruberangeyo) della Banca nazionale, di due ufficiali superiori (Rusatira e Lizinde), di cui il secondo era anche deputato, di alcuni direttori di Gabinetto e di alti funzionari... Eccetto Katabarwa, tutte queste persone sono degli Hutu e, fatto particolarmente sorprendente, Sendashonga e Lizinde erano membri del F.P.R.

 

Dopo avere lasciato il paese essi rilasciano delle dichiarazioni analoghe: denunciano la concentrazione del potere, gli abusi dell'esercito e dei servizi di sicurezza, le violazioni dei diritti dell'uomo compreso il diritto alla vita, l'insicurezza che pesa su di loro e l'intimidazione di cui sono oggetto, la discriminazione contro gli hutu, e anche dagli stessi Tutsi scampati al genocidio... Queste accuse corrispondono sfortunatamente all'immagine che dà di sé il paese dalla seconda metà del 1994. La deriva é inquietante.

 

LA DERIVA

Quando il F.P.R. prende il potere, eredita un paese profondamente distrutto umanamente e materialmente: centinaia di migliaia, anche più di un milione di morti (il numero esatto non sarà forse mai conosciuto), due milioni di rifugiati all'esterno, più di un milione di sfollati all'interno, dei superstiti profondamente traumatizzati, centinaia di migliaia di vecchi profughi rientrati in modo caotico, infrastrutture distrutte, banche svaligiate, amministrazione e giustizia inesistenti... Chiaramente, bisognava concedere un termine di grazia e il beneficio del dubbio a un regime confrontato al compito titanico di rimettere in piedi il paese in circostanze tanto sfavorevoli. E quando le prime notizie parlavano di sviluppi inquietanti, era prematuro mettere in causa la buona fede e la volontà politica del nuovo potere.

Però, meno di un anno più tardi, dei dubbi sempre più rilevanti sono venuti ad imporsi. Alcuni comportamenti sembrano mostrare più assenza di volontà politica che mancanza di mezzi. Vediamo alcuni dei segni di quella che bisogna qualificare come una vera deriva.

 

GRAVI VIOLAZIONI DEI DIRITTI DELL'UOMO

Cominciamo col constatare un elevato numero di << sparizioni >>, di assassinii e anche di massacri in più o meno grande scala. Sempre più testimonianze venute dall'interno e dall'esterno del Rwanda, diffuse da Ruandesi e da espatriati, indicano che occorre seriamente esaminare la possibilità che - prima, durante e dopo la ripresa della guerra nell'aprile del 1994 - il F.P.R. ha ucciso delle decine di migliaia (da alcune fonti: delle centinaia di migliaia) di civili innocenti. Alcuni di questi <<incidenti>> sono abbastanza ben documentati, alcuni (Kibeho, Kanama, Muramba) hanno anche suscitato la disapprovazione internazionale. Ma la maggior parte sono rimasti sconosciuti o sottovalutati, circondati da una vera <<omertà>>, e ciò dal primo giorno del nuovo regime (si ricorderà che il rapporto di un consultatore dell'O.N.U., Robert Gersony, che parlava di trentamila vittime, é stato oggetto di un embargo totale).

 

Da una parte, questi massacri sembrano essere commessi in modo discreto e le inchieste sono rese difficili; cosç, i luoghi in cui essi sono commessi vengono subito dichiarati <<zone militari>>, i corpi delle vittime vengono trasportati verso altri posti, o ancora certe regioni (segnatamente il parco dell'Akagera) hanno divieto di accesso e di sorvolo (il dossier pubblicato il 27 aprile 1996 da LibÇration rivela molto a questo proposito). Dall'altra parte, gli osservatori hanno tutto l'interesse a tacere: dei testimoni di O.N.G. e di istituzioni internazionali temono l'espulsione, mentre i Ruandesi hanno paura di rappresaglie contro di loro e dei loro parenti.

 

Un'altra ragione di questa tacita complicità é il << credito-genocidio>> di cui beneficia l'attuale potere: esso ne trae una parte di legittimità e la sfrutta abilmente per sfuggire alla critica, un po' come certi estremisti in Israele hanno invocato l'olocausto per giustificare la violazione dei diritti dell'uomo dei Palestinesi. L'utilizzazione del genocidio come "atout" politico é stata agevolata dal fatto che quelli perpetrati dal vecchio esercito e dalle milizie Hutu sono stati dei massacri in <<diretta>>. Da allora l'opinione internazionale ha ragionato in termini di <<buoni>> e <<cattivi>>; poiché si conoscevano i <<cattivi>> (il vecchio regime), gli altri (il F.P.R.) dovevano per forza essere i <<buoni>>. Ciò permette anche al F.P.R. e ai suoi simpatizzanti di accusare di <<negazionismo>> o di <<revisionismo>> coloro che denunciano questi crimini, anche se queste persone sono le stesse che hanno denunciato con vigore il genocidio contro i Tutsi. Come se un genocidio potesse compensarne un altro... In realtà, una sorta di conformismo politico <<benpensante>> incoraggia un'altra forma di negazionismo altrettanto reale.

 

Altro motivo di inquietudine nel campo dei diritti fondamentali, il Rwanda é di fronte ad una vera crisi nelle prigioni, dove erano ammassati alla fine del 1995 più di 60.000 detenuti in condizioni disumane. Molti di questi prigionieri hanno dei fascicoli praticamente vuoti e sono le vittime di regolamenti di conto politici o personali, o di litigi terrieri, essendo state le loro proprietà accaparrate da simpatizzanti del F.P.R. Quasi due anni dopo l'arresto dei primi prigionieri, non si parla ancora di processo, principalmente perché il sistema giudiziario tarda a mettersi in moto. Nel frattempo, diverse migliaia di questi detenuti sono morti in situazioni atroci: un massacro politico a fuoco lento. Questa immagine desolante non tiene nemmeno conto delle numerose persone detenute in alcune installazioni ufficiose, sconosciute e nell'essenza illegali: campi militari e non, prigioni comunali, case private, brigate della gendarmeria, perfino, in dati momenti, contenitori.

 

La deriva é accompagnata dalla attuazione di un sistema di sicurezza da "performance" (non dimentichiamo che il generale Kagame fu il patron del servizio di informazioni militari ugandese). In questo che é bene qualificare uno Stato di polizia, la stampa e la società civile vengono zittite, l'attività dei partiti politici é di fatto vietata, la corrispondenza é aperta, le comunicazioni telefoniche intercettate, i movimenti, sia all'interno che verso l'esterno, sorvegliati. Tutti coloro che oggi sono in contatto con dei Ruandesi residenti all'estero avvertono l'atmosfera di terrore che vivono quelli costantemente minacciati d'imprigionamento, di <<scomparsa>> o di morte.

 

F.P.R.-IZZAZIONE E TUTSIFICAZIONE

Mentre ufficialmente il F.P.R. rifiuta la discriminazione etnica e il concetto stesso di etnia, conduce una politica di tutsificazione rapida a tutti i livelli, tranne che nel governo che costituisce il biglietto da visita di <<unità nazionale>>. La base, di questa politica é il rifiuto formale del fatto etnico, rifiuto che é un elemento essenziale della strategia egemonica di una Çlite tutsi, esattamente come durante gli anni '50 e come in Burundi dopo il 1965. Questo stato di cose é giustificato in modo paradossale: se, nell'una o nell'altra istituzione, gli Hutu sono maggioritari, si parla di <<discriminazione etnica>>; ma se sono i Tutsi ad essere maggioritari, di <<meritocrazia>>. O, come hanno fatto capire alcuni responsabili del nuovo regime ruandese ai loro ascoltatori sbalorditi nel corso di una conferenza scientifica ad Arusha nel settembre del 1995, <<la qualità premia la quantità>>. Ritorno quindi alla <<tesi hamitique>>, pur cosç screditata dai Tutsi... quando non detenevano il potere.

 

Questa tutsificazione, che é allo stesso tempo un tentativo di perpetuazione del dominio del F.P.R., é più spettacolare ai livelli meno visibili dello Stato che al governo: la maggioranza dei deputati all'Assemblea nazionale, quattro dei sei membri della Corte suprema, oltre l'80% dei borgomastri, la quasi totalità dei direttori generali dei ministeri, la stragrande maggioranza dei professori e degli studenti all'università, la quasi totalità dell'esercito e dei servizi di sicurezza dello Stato... sono Tutsi. Cosç, si corre dritti verso una situazione che il Burundi ha conosciuto e di cui si é visto in questo paese il potenziale di destabilizzazione. Osserviamo che la comunità internazionale contribuisce a creare questa "impasse": cosç, formando dei magistrati "seduti" e "in piedi" ed ispettori e ufficiali di polizia giudiziaria, senza porsi il minimo problema sulla selezione etnica dei beneficiari di questi programmi, essa é complice della messa in atto di un apparato giudiziario screditato agli occhi della maggior parte dei Ruandesi. Una cooperazione di questo genere diventa quindi una parte del problema e non della sua soluzione.

 

Questo fenomeno é amplificato e in qualche modo sostenuto da una realtà socio-politica, quella della tutsificazione del mondo urbano, che costituisce la base sociologica ed economica del F.P.R. Numerosi sono quelli dell'antica diaspora che si sono installati negli agglomerati dove sono diventati maggioritari e in cui occupano effettivamente il terreno, <<squattando>??> le case, i negozi e le imprese. Si converrà che questo fenomeno economico costituisce un ostacolo in più a un soluzione politica del problema ruandese.

 

Almeno in parte, questo radicalismo etnico é stato importato dagli antichi profughi rientrati dal Burundi. Ciò si spiega alla luce della vita di questi negli ultimi trent'anni: da un lato sono stati spesso le vittime degli sbalzi di tensioni etniche in Burundi; dall'altro, nel quadro delle loro strategie di sopravvivenza, alcuni di loro si sono alleati agli elementi più radicali della classe politico-militare al potere in Burundi. Quelli venuti dall'Uganda vivono meno questo complesso etnico: poiché i <<Banyarwanda>> ne hanno fatto oggetto di discriminazioni e di persecuzioni in quanto tali, Hutu e Tutsi indistintamente, essi hanno dovuto farvi fronte insieme. Tuttavia, il virus etnico sembra ugualmente raggiungere gli <<Ugandesi>> e gli <<Zairesi>>. Curiosamente non sono soltanto gli Hutu ad essere emarginati ma anche i Tutsi scampati al genocidio, spesso divenuti dei cittadini di seconda classe. Non solo molti di loro hanno perso i loro familiari e tutti i loro averi ma li si rimprovera quasi di essere sopravvissuti ai massacri. Già negli anni '60 i più radicali tra la diaspora tutsi consideravano quelli rimasti come dei traditori; oggi li si sospetta di essersi compromessi con l'anziano regime per salvarsi la vita. Cosç lo sfaldamento in Rwanda non é unicamente ciò che separa gli Hutu e i Tutsi, ma anche quello che distingue i <<vecchi>> dai <<nuovi>> abitanti.

 

ESCLUSIONE

La base ristretta del potere significa che la maggior parte dei Ruandesi interni ed esterni si sentono, ed effettivamente sono, esclusi dal potere, dall'avere e dal sapere. Basta essere in contatto con degli intellettuali hutu all'interno del paese per rendersi conto della misura della loro paura quotidiana; sono molti coloro che lascerebbero volentieri il paese se si presentasse l'occasione. Questo sentimento di esclusione é rafforzato da una globalizzazione consapevolmente mantenuta che fa di tutti gli Hutu, e in tutti i casi di coloro che esprimono il minimo disaccordo col F.P.R., degli <<esecutori di genocidi>>. Mentre il paese soffre di una mancanza di risorse umane, alcuni magistrati, funzionari e insegnanti hutu vengono esclusi dal mondo lavorativo, cosa che rinforza il loro senso di emarginazione. Nelle campagne, il sistema di sicurezza in atto e di cui si é parlato, permette di controllare rigorosamente le popolazioni rurali e di evitare che queste costituiscano dei focolai di contestazione.

 

Va da sé che l'esclusione di una cosç grande parte della popolazione non può essere mantenuta se non con l'aiuto di una gestione sempre più autoritaria. Ma questo non impedirà la destabilizzazione endemica, tanto più che numerosi esclusi si trovano oltre le frontiere e che vi sono fra loro le vecchie forze armate e dei miliziani che hanno avuto una formazione paramilitare. La presenza di quasi due milioni di rifugiati costituisce evidentemente un dato essenziale. Occorre osservare a questo proposito che, anche se dei rappresentanti del vecchio potere esercitano dei gradi diversi di intimidazione miranti a impedire il rientro in Rwanda, la ragione principale del fallimento del rimpatrio é la situazione all'interno stesso del paese. Ciò é ampiamente dimostrato dal fatto che i rifugiati residenti in Europa, dove non esiste intimidazione, non rientrano in Rwanda, mentre potrebbero farlo se lo desiderassero. Poiché i rifugiati non accetteranno la prospettiva dell'eterno esilio, tenteranno il loro rientro, con la forza se necessario. Quindi, l'esito sarà politico o militare, ma il mantenimento dello status quo sembra poco probabile.

 

PROSPETTIVE: ESITO POLITICO O MILITARE?

Da qui l'importanza di una soluzione negoziata. Il dialogo politico dovrebbe vertere sull'estensione della base del potere, in altri termini sulla spartizione del potere. Questo obbiettivo implica che coloro i quali non hanno commesso crimini contro l'umanità devono essere inclusi in questo processo, senza altre discriminazioni. Però, le prospettive di un dialogo politico sembrerebbero allontanarsi. Il F.P.R. ha indicato a più riprese che non é disposto a negoziare con nessuno, ed in effetti ha delle buone ragioni per temere una simile evoluzione. Da una parte, politicamente il F.P.R. sa benissimo che si dovrebbe confrontare in un processo politico competitivo e che alla fine di questo percorso sarebbe spogliato del potere strappato con la vittoria militare. Dall'altra parte, economicamente, qualunque soluzione che lasciasse intravedere il rientro dei nuovi profughi nei loro beni sarebbe contrastata dai nuovi occupanti, che, come abbiamo visto, costituiscono, soprattutto nel centro urbano, la base sociologica del F.P.R.

 

Se la porta del dialogo resta chiusa, un giorno o l'altro i nuovi profughi, e tra loro in particolare gli elementi militari, rientreranno armi alla mano. Anche se dovendosi fronteggiare con un esercito preparato e agguerrito é incerto per loro riportare una vittoria militare rapida, questa eventualità avrebbe delle conseguenze tragiche. Prima di tutto il paese sarebbe destabilizzato per un periodo che potrebbe essere anche lungo ed ogni speranza di ritorno alla normalità sarebbe compromessa. In seguito, proprio come i Tutsi, sospettati di simpatie per il F.P.R., sono stati oggetto di un genocidio <<profilattico>> nel 1994, gli Hutu dell'interno, sospettati di costituire una quinta colonna d'assalto rischierebbero di subire la stessa sorte. Vedendo come si é comportato il nuovo esercito Ruandese nei confronti dei bambini, delle donne e degli anziani, per esempio nel massacro del Kibeho, non occorre avere molta immaginazione per prevedere la sua reazione in caso di reale minaccia militare.

Inoltre, il rischio di una estensione della violenza nella regione, particolarmente al Burundi e al Kivu, é assolutamente reale. Bisogna infatti prevedere che in parte l'invasione si effettuerebbe attraverso il Nord e il Nord-Ovest del Burundi, regione in cui la guerriglia burundese é già molto presente, offrendo cosç un terreno favorevole a quelli che intendono attaccare il Rwanda. Data l'estrema fragilità del Burundi, ciò potrebbe benissimo costituire la proverbiale goccia che trascinerebbe questo paese nella guerra civile totale, se non é già successo. Cosç pure, per quanto concerne il Kivu, il governo ruandese ha già annunciato che non esiterebbe a portare la guerra allo Zaire, se il Rwanda venisse attaccato a partire da questo paese. Il presidente ugandese, dal canto suo, ha fatto capire che non resterebbe uno spettatore passivo in caso di attacco. Si vede bene la posta: in questo scenario, molto meno improbabile di quanto lo si pensi, venti milioni di persone sarebbero in pericolo e il mondo sarà, ancora una volta, messo di fronte ad un dramma umanitario di colossale proporzione.

 

Quindi, la comunità internazionale, che, bisogna riconoscere, é fantomatica e discreditata nella regione dei Grandi laghi africani, ha tutto l'interesse ad impegnarsi. Non soltanto, come fa da due anni, in campo umanitario, ma in campo politico, aiutando i diversi protagonisti a trovare la via per il tavolo dei negoziati, esercitando da una parte e dall'altra e nella misura in cui é necessaria, la pressione che occorre, e apportando il suo sostegno politico, logistico e finanziario all'esito di queste trattative e alla messa in pratica dei loro risultati.

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Filip Reyntjens

Filip Reyntjens é professore all'università d'Anvers, di Leuven e di Bruxelles.