UN PESANTE PASSATO, UN PRESENTE DRAMMATICO, UN OSCURO AVVENIRE
LE CRISI POLITICHE IN BURUNDI E IN RWANDA
Delle rotture politiche inevitabili per ricostruire la pace civile
Con tutta l'umiltà che impongono questi straordinari fallimenti collettivi (su scala territoriale, regionale e a livello internazionale), e se nessuno sa veramente oggi come riannodare i fili della pace, tre rotture ci sembrano inevitabili per spezzare la molla della violenza politica. Queste riguardano prima di tutto l'etnicismo come vettore della mobilitazione politica collettiva, poi la <<sensibilizzazione>> statale come mezzo per imporre o <<rivelare>> ai cittadini atomizzati i messaggi, i valori e le parole d'ordine <<giuste>> alle quali dovranno aderire e sottomettersi, infine la <<cultura dell'impunità>> che, privando i cittadini della possibilità di ricorsi formalizzati e praticabili per tutti, di fronte all'arbitrio, trasforma ogni periodo di rilassamento dell'ordine in occasione per regolare tutti i contenziosi accumulati in seno alle famiglie, tra vicini (25) e gruppi.
L'uso politico dell'etnicismo
In Burundi, il ritorno all'etnicismo, come fattore decisivo di mobilitazione nella lotta politica, si è avuto dal 1993 attraverso un duplice movimento. Da un lato in seno all'attuale (mouvance)seguito presidenziale, si assiste a due fasi: la prima corrisponde al periodo elettorale dove nel complesso il FRODEBU si astiene dal ricorrere al <<popolo hutu>>, certo perchè la legge vieta l'etnicismo, ma soprattutto perchè questo argomento non è necessario alla sua lotta: l'aspirazione al cambiamento basta e il riferimento etnico, sinonimo di guerra civile, non corrisponde alla sua strategia. Ciò nonostante, esso non lo sconfessa che a fior di labbra, perchè il PALIPEHUTU fa la sua campagna e aderisce alla sua strategia. Giunto al potere, e malgrado le svolte omicide antitutsi di ottobre e di novembre, che solo parzialmente non sono opera sua, esso conferma questa linea e persegue il suo scopo (cf. infra, Documents p.545 sqs). Questo sarà raggiunto nell'aprile del 1994, dopo la morte del presidente Ntaryamira quand'anche la guerra civile ruandese e la riprovazione che suscitano i massacri sono utilizzati contro lui e il governo in un amalgama regionale oltranzista. In posizione di grande debolezza sullo stretto piano del rapporto di forza immediato, il FRODEBU, dotato di una direzione politica omogenea dopo avere escluso in aprile-maggio i suoi elementi radicali, si considera detentore duraturo della leggittimità democratica all'interno e di fronte alla comunità internazionale. Senza dei veri mezzi per contrastare la loro offensiva, lascia ormai le forze d'opposizione inoltrarsi <<troppo in là>> nel loro eventuale intento di <<colpo di Stato strisciante>>.
Dall'altro lato, in seno alle forze d'opposizione, il discorso <<politico>> unitario e nazionalista, che serviva da comodo paravento agli interessi e alle logiche etniche dell'<<ordine tutsi>> durante la campagna elettorale, appariva sempre più squartato. Tra coloro che, Hutu e Tutsi, denunciano gli abusi e le illustri inettitudini del potere FRODEBU (da cui la dimissione incontestabile di una larga parte dei suoi quadri al tempo dei "crimini etnici" che hanno seguito la sommossa di ottobre) e si dichiarano parallelamente rispettosi dei risultati delle urne (cf. infra, A. Sibomana, p.57326), e i Tutsi <<della sicurezza>> che demonizzano nel suo complesso il FRODEBU in nome del <<duplice>> genocidio burundese e ruandese, la divergenza diventa sempre più grande. L'UPRONA, nel corso del mese di giugno del 1994, si è data una nuova direzione di <<lotta>> la cui maggior parte dei portavoce <<moderati>> non lo sono o non dicono di esserlo che nella misura in cui lo <<sporco lavoro>> è fatto da altri (operazione <<città morta>>, estorsioni, assassinii,etc.). Adesso che i <<rifugiati tutsi ruandesi>>, sempre incolpati dei misfatti locali (molto spesso a giusto titolo), sono ormai all'opera sul loro suolo nazionale, bisognerà riconoscere che l'estremismo tutsi... burundese esiste bello e buono. Così pure, se alcuni <<diavoli>> hutu infieriscono certamente in Burundi, occorre l'enfasi del tenore dell'UPRONA, del RADDES e di altri partiti per concedere al PALIPEHUTU l'onnipresenza e l'influsso popolare che le milizie del MRND e della CDR avevano acquisito in Rwanda.
Dall'inizio degli anni 60, il Rwanda è servito da modello o da contrasto per le forze politiche di Bujumbura. Oggi, in una situazione politica capovolta, il nuovo modello ruandese fa sognare molti leaders di partiti d'opposizione che gridano al lupo di fronte ai <<contadini in armi>> o alla <<dittatura FRODEBU>> e hanno bisogno delle milizie hutu estremiste per potere proseguire fino alla fine nella loro strategia oltranzista di riconquista. Così, dopo averci messo vent'anni per denunciare -politicamente e scientificamente- le devastazioni dell'etnismo <<popolare>> (hutu!) e analizzate le proprie prese di potere sulle posizioni sociali e economiche dominanti come il risultato dei meccanismi socio-politici propri a <<tutte le società moderne>>, le elites dirigenti tutsi sconfessate dalle urne non <<pensano più che a questo>>. Cosa che paradossalmente li mette, a livello delle propagande, in completa opposizione con i proclami e la strategia dei loro colleghi ruandesi. Verità al di qua della Kanyaru, errore al di là dell'Akanyaru...
In Burundi, nessuna concessione delle autorità legali è sufficente apparentemente a soddisfare le esigenze di sicurezza delle <<minoranze etniche o sociali>> di fronte al <<colpo di Stato etnico-democratico istituzionalizzato>> o, detto più crudemente, <<la dittatura della democrazia>>. Nè la Costituzione, nè le istituzioni di uno Stato di diritto -che essi credevano inizialmente costruito su misura per servirli- possono <<proteggerli>>: così, oltre al controllo esclusivo o appena scalfito sui centri di potere decisivi (esercito, polizia, giustizia), lo sdoppiamento di tutti gli altri poteri (neutralizzazione del presidente e dell'Assemblea) è stato imposto in nome dei <<diritti della minoranza>> (cf. infra, i vari documenti, accordi e convenzioni di governo firmati dall'inizio dei negoziati tra i partiti politici, p.580)27. In Rwanda al contrario, la conquista del potere da parte dei rifugiati tutsi è accompagnata da una denuncia virulenta -e giustificata- dei riferimenti etnici (e regionali) considerati come i mali maggiori della società ruandese, quello che sono effettivamente. Ciò nonostante, nella situazione attuale contrassegnata dal controllo militare e politico quasi totale di un gruppo etnico-politico minoritario sul potere, una tale posizione politica ricorda sotto molti aspetti la procedura seguita dal regime Bagaza e dai suoi ideologi che consisteva nel corso della seconda Repubblica nel <<negare>> il problema etnico o il peso delle appartenenze regionali pur non disponendo -o non dandoseli- dei mezzi per fare allontanare l'etnicizzazione realissima dai rapporti sociali. Una cosa è mobilitare gli <<acquisti>> della scienza storica, decriptare le ideologie razziali (quelle di fronte in genere!), un'altra è analizzare i contesti socio-politici e le ideologie concrete, compreso, e in questo caso forse in primo luogo, quelle che le elites colte pretendono di imporre. Come l'esperienza burundese ha ampiamente dimostrato, decretare che le <<etnie non esistono>> non è che una forma, delle più perverse, di etnismo travestito. Accettarlo equivale, nella regione, a fare arretrare il dibattito scientifico e politico di una mezza dozzina di anni quando era stato finalmente ammesso -e tradotto nei fatti- che i tabù, i fantasmi e le paure dovevano essere affrontati come delle realtà costruite molto tangibili e assunte collettivamente. Vedere sostenere oggi da alcuni strateghi soprattutto presi da preoccupazioni di sicurezza che i partigiani di questa linea sono i responsabili delle recenti disgrazie non è serio.
La "migliore offerta" praticata dall'agosto 1994 dai principali dirigenti ruandesi in materia di rispetto dei diritti dell'uomo di fronte agli Occidentali, che dividono i Ruandesi e pretendono arricchire i diritti formali del <<cittadino>> in nome del diritto delle <<minoranze>> e delle <<maggioranze>>, non può che inquietare (cf. infra, per esempio, P. Bizimungo, p.729). Insomma, sarebbero gli <<stranieri>>, P. Kagame lo ha ancora ripetuto il 2 ottobre a Kigali durante la festa di commemorazione del quarto anniversario dell'inizio della guerra civile (!), che <<dividono il Rwanda>> e continuerebbero a sovrimporre le appartenenze etniche. Cosa che giustifica a posteriori il titanico lavaggio di cervello collettivo programmato per annientare l'etnismo...
Per isolare e neutralizzare effettivamente il fanatismo etnico, bisogna anche avere il coraggio politico di denunciare e, possibilmente, di sottomettere i suoi propagandisti, i suoi sfruttatori e i suoi assassini, e di non lasciare in "maggese" gli autentici oppositori politici, leaders hutu o tutsi, che hanno acquisito una statura e una leggittimità sufficienti per dare credibilità, agli occhi delle popolazioni, ai messaggi di unità nazionale. La possibilità esiste di realizzare, su basi chiare e durature, le alleanze puramente politiche associando tutte le forze che hanno effettivamente pagato molto cara la loro opposizione al fanatismo etnico che ha sommerso il regime Habyarimana.
L'inquadramento ideologico delle popolazioni
L'inquadramento delle <<masse>> e la propaganda nella versione democratico-cristiana, autoritaria e moralizzatrice, che (i coloni e) <<evoluti>> hanno imposto nel Burundi <<tutsi>> e nel Rwanda <<hutu>> (<<sensibilizzazione>> o <<animazione>> politica delle autorità, dominio ideologico-morale attraverso i <<sermoni>> dei chierici e, molto spesso, dei quadri del movimento associativo) possono essere retrospettivamente descritti, vedendo i <<risultati>>, come dei fenomenali fallimenti o, al contrario, come dei mostruosi successi. Nello stesso modo in cui <<la massa rurale>>, sottomessa e "infantilizzata", si è vista costretta ad assimilare senza discussioni e a furia di punizioni e di ricatti il <<pacchetto tecnologico>> della volgarizzazione agricola, i lavori obbligatori, i criteri ufficiali dell'igiene fisica e morale, essa ha assimilato e poi obbedito, con più o meno convinzione a seconda dei comuni e delle regioni, alle parole d'ordine di <<autodifesa>>, di odio o di vendetta consegnate dalle autorità. Riuniti in brigate o terrorizzati, tempestati di direttive, di consigli e di discorsi edificanti, la stragrande maggioranza dei contadini superstiti non aspira fondamentalmente che ad una sola cosa: che li si lasci in pace in ogni senso della parola, cioè che li si lasci rientrare nel loro paese, ricostruirsi un tetto e coltivare.
Ricostruire la pace civile, ristabilire la fiducia nel futuro e liberare le energie produttive non esonera dalla <<rieducazione>> o da una qualunque contro-propaganda statale. Se gli educatori istituzionali hanno saputo preparare e fare la guerra, hanno loro delle competenze da esibire in materia di apprendistato individuale e collettivo della pace e della giustizia? In realtà, la debole strutturazione della società civile nell'ambiente rurale, l'assenza di mediatori sociali leggittimi e nati dai popoli stessi, non sono il risultato di un individualismo specifico di questa regione africana dall'habitat disperso, ma la conseguenza diretta dell'onnipresenza e dell'attivismo dello Stato <<moderno>> e dei chierici. Associati o concorrenti, questi si sono storicamente impegnati a recuperare a loro profitto o a stroncare tutte le forme di relazioni sociali <<tradizionali>>28 e di strutturazioni indipendenti di individui come produttori, utenti, etc.
Preconizzare oggi un alleggerimento istituzionale radicale della tutela sulla <<massa rurale>> presuppone certamente qualche eroismo: la coniugazione delle preoccupazioni di sicurezza, reali o mantenute, che accompagnano il ritorno dei profughi e la dipendenza praticamente totale, durevole ed inevitabile dei produttori dagli aiuti esterni (attrezzature, semenze, etc.) non aprono certo la strada. Non si tratta però di voti teorici(soltanto di buoni propositi): la responsabilità degli apparati d'inquadramento politico, il fallimento delle <<istanze di socializzazione>> e dei loro <<educatori>>, e soprattutto l'assenza di apprendistato delle elites o le loro mostruose indifferenze, malgrado le catastrofi, impongono di <<ricostruire alla base>>. Ciò che hanno fatto per esempio con un certo successo le associazioni del Nord-Kivu nello Zaire dopo i massacri inter-etnici in una situazione di squalificazione delle autorità legali, i loro colleghi del Sud-kivu di fronte alla decadenza dello Stato o ancora la maggior parte dei contadini burundesi abbandonati alla loro sorte dallo Stato dopo ottobre-novembre 1993.
Largamente contrapposta su questo punto ai discorsi sulla <<ripresa in mano>> e la <<rimessa al lavoro>> delle popolazioni, che si sentono dagli esperti in riabilitazione e ricostruzione nominati a Bujumbura e a Kigali, una tale scelta iniziale impegna durevolmente l'avvenire. Le modalità della riabilitazione materiale ed economica del quadro istituzionale e politico a breve e medio termine prefigurano ed anticipano la costruzione del <<nuovo Burundi>> o del <<Rwanda unitario>> liberati dalle loro paure e passioni funeste. Allo stato attuale di debole operazionalità dello Stato, sarà comunque impensabile immaginare di ricostruire dei paesi pacifici e indipendenti dagli aiuti internazionali, senza riconoscere le capacità di auto-organizzazione, senza sollecitare la responsabilità sociale anzi, almeno per difetto, riconoscere il diritto all'emancipazione politica delle <<masse rurali>>. In quest'ottica, le diatribe tenute nel settembre scorso a La Haye da J. Bihozagara, ministro della Riabilitazione e maggiore portavoce del FPR, sul popolo <<immaturo>>, <<auto-intossicato>> che <<dovrà essere rieducato nel tempo che occorrerà>>, <<cinque anni, dieci o più se occorre, fino a che capisca finalmente l'unicità del popolo ruandese>> lasciano mal sperare sul ritorno ad una pace civile minimale e all'espressione delle capacità creatrici dei cittadini e dei produttori. Oltretutto, questi hanno dei bruttissimi ricordi delle esperienze con altri <<grandi educatori>>.
La cultura dell'impunità e il volontarismo(giustizialismo) punitivo(???)
Nella regione, l'impunità totale è la regola dalle indipendenze in poi, in particolare per il 1959 e il 1972, per non citare che le date dei grandi massacri: dai profittatori, generalmente confermati nelle loro acquisizioni illegali, agli istigatori perfettamente identificati, non soltanto nessuna seria procedura giudiziaria è stata organizzata e portata a termine, ma spesso i colpevoli sono diventati quasi degli eroi nazionali. Ecco perchè il volontarismo(giustizialismo) proclamato oggi in materia di punizione dei colpevoli tanto in Burundi quanto in Rwanda senza che quelli che sono teoricamente in carica del problema siano in grado di fornire indicazioni precise e pratiche sugli obiettivi, la procedura, il calendario e i mezzi fa contrasto e sconcerta.
In Burundi, le velleità di perseguire i colpevoli sospettati della rivolta e dei vari massacri che ne seguirono sembrano impregnati di malafede, i calcoli pragmatici della controparte, veramente delle lente riabilitazioni differite. Il modo in cui è stato accolto a luglio il rapporto della Commissione internazionale d'inchiesta è di per se rivelatore. (Nel)Lavoro di professionisti (giuristi o esperti dei diritti dell'uomo), volontari per l'occasione, che lavorano per mancanza di mezzi come dei dilettanti, le ambizioni di prammatica, anzi d'<<obiettività>>, non potevano essere sostenute29. Le critiche sono tuttavia facili per coloro che preferiscono le letture univoche (<<Il genocidio d'ottobre 1993>>) o la dimissione(riluttanza) delle istanze internazionali a uscire il loro proprio rapporto30: questo documento ha almeno il merito di esistere e di togliere il velo su qualche punto ormai accertato.
In Rwanda, l'impotenza radicale del ministero della Giustizia per mancanza di locali, di uomini e di mezzi si rivela duratura. In questo contesto, a parte i benefici politici immediati ricercati, che significano i discorsi martellati senza tregua secondo i quali tutti i superstiti potranno perseguire tutti i carnefici che potranno essere identificati? Gli effetti dell'annuncio -di due volte 30.000 colpevoli annunciati il 2 agosto da Faustin Twagiramungu alla lista dei 220 concipienti(concettuali) poi a quella dei 25 (cf. infra, Documents, p.723)- e della logica che consiste nel lasciare i responsabili politici indicare nominatamente i responsabili di loro scelta, non sono sani. Nessuno dispone oggi dei mezzi (o non ha la volontà) per garantire una giustizia degna di questo nome per decine o centinaia di migliaia di individui. Lasciarlo credere deliberatamente equivale a incitare le vittime a farsi giustizia da soli, cosa che d'altra parte (viene praticata tranquillamente) si autorizzano baldanzosamente alcuni militari del FPR così come dei semplici cittadini tutsi (tra i <<75 crimini>> riconosciuti a fine settembre dalle autorità e le 30.000 vittime annunciate nel rapporto Gersony dell' HCR, il margine di errore sembra un po' forte). Infine, conoscendo la tradizionale lentezza e le alea del sistema delle Nazioni unite in materia di <<atti da genocidio>> e di <<genocidio>>, il realismo e il pensiero di una buona giustizia dovrebbero incitare le autorità nazionali a fissare al più presto degli obbiettivi, un quadro e dei tempi ragionevoli e soprattutto suscettibili di essere effettivamente rispettati. Il fine è quello di rompere una buona volta con la <<cultura dell'impunità>> senza entrare nella logica di processi e regolamenti di conto interminabili. Trattare tutti i massacri e le estorsioni, sanzionare per potere in seguito perdonare, queste doppie esigenze sono incontestabili (imprescindibili). In oltre, una minima chiarificazione dei ruoli dovrà essere espressamente indicata ai finanziatori e agli appoggi giuridici stranieri: di cosa si dovrà occupare il tribunale internazionale, come si articolerà la procedura nazionale, quale sarà il posto delle associazioni per la difesa dei diritti dell'uomo, che ancora oggi, malgrado i loro dinieghi, sono sotto la guida del ministro-militante Alphonse-Marie Nkubito.
Ipotesi per l'avvenire
Quali che siano le posizioni prese, il pessimismo si impone. La profondità dei rancori, l'ampiezza delle distruzioni, la vera spossatezza degli aiuti esterni e <<amici>> della regione sono sufficienti a giustificare un tale stato d'animo. Se si aggiungono i dati e le ipotesi, accertati o probabili, che condizionano il futuro immediato e quello a medio termine, bisogna possedere oggi molta buona volontà o ingenuità per intravedere degli esiti duraturi e soddisfacenti.
L'insistenza della logica della guerra
Ogni ragionamento deve partire dall'ipotesi che il peggio deve ancora venire e che i due protagonisti <<etnici>> continuano a prepararsi alla sfida decisiva (schieramento del Burundi sulla situazione ruandese o riconquista hutu regionale) con lo sfondo dei <<Tutsiland>> e <<Hutuland>>. Nei due paesi, nei due campi, i calcoli costi-benefici di questi scenari del peggio sono permanentemente aggiornati, soggiacenti dietro le strategie d'<<apertura>>.
Da diversi mesi, il Burundi è considerato da numerosi "attori" e osservatori il futuro luogo di scontro con, molto probabilmente, un accanimento che sarà, da tutte e due le parti, simile a quello mostrato in Rwanda. La differenza consiste però da un lato nella maggiore capacità distruttrice di una armata professionalizzata, già molto esperta in materia di repressione popolare e che dispone oggi di appoggi maggiori a Kigali. Dall'altro lato, l'elemento nuovo risiede nel fatto che le popolazioni rurali hutu <<organizzate>> (o non) hanno vinto la loro paura, superato i traumi del 1972. Esse sono pronte all'autodifesa, e molti sono pronti ad affrontare l'esercito anche a costo di decine di migliaia di morti. Numerosi esempi all'interno del paese hanno dimostrato che il ciclo della provocazione e degli incatenamenti può ricominciare in ogni istante (come a Kayanza nel luglio 1994, o a Muhuta, nel sud di Bujumbura, in ottobre).
Per gli strateghi tutsi dell'opposizione radicale, l'obbiettivo sembra essere il proseguimento dell'efficace lavoro di squalificazione del FRODEBU come partito di governo e di distruzione del suo apparato politico a livello dei suoi alti quadri dirigenti, il cui "vivaio" è indubbiamente meno fornito di quello delle formazioni dell'opposizione (cf. infra, sulla formazione delle elites burundesi, P.-F. Ndimira, p.139). Per gli estremisti hutu, la strategia sembra essere da un lato, <<mirare>> alle personalità più importanti dell'opposizione per costringere l'esercito, le forze dell'ordine in generale ad entrare sul serio nel conflitto, dall'altro lato di <<smascherare i traditori del FRODEBU>>. Dall'attenta formula ufficiale:<<Se loro toccano a Sylvestre, noi si attacca i Tutsi>>, a quella più aggressiva:<<Possono prendere tutto al Novotel (nei negoziati), noi allora faremo leva sulla democrazia>> (<<il popolo>>, in armi?), il panorama è spianato.
Si passerà allora da agashavu, la <<piccola rabbia>>, quella di ottobre-novembre 1993 o, come dicono alcuni, <<la metà del lavoro è stata fatta>>, a ishavu , la <<grande rabbia>>. Questione di tempo, di appoggi, di formazione... : gli attentati nei mercati, gli assassinii (riusciti o falliti), la moltiplicazione degli scontri all'interno in nome della pacificazione o dell'autodifesa, tutti questi elementi ricordano il clima ruandese del 1993-1994.
La versione ruandese di uno scenario del peggio fa anch'essa parte delle ipotesi programmate. Da un lato, a Kigali, si afferma, senza alcun dubbio a giusto titolo, che una <<seconda guerra>> sarà vinta come la prima poichè <<la nostra causa è giusta>>. Ma anche là, la ricomposizione delle forze avversarie è una questione di tempo, di appoggi, di formazione... L'influenza degli elementi estremisti sulla grande meggioranza dei rifugiati, la diffidenza o la paura di questi ultimi nei confronti delle nuove autorità danno al <<governo in esilio>> (secondo l'espressione alquanto sorprendente utilizzata dai responsabili della MINUAR!) dei margini di manovra notevoli per il medio termine. Dalla Palestina alla Cambogia, molte analogie col futuro del Rwanda potrebbero essere formulate.
Un esito pacifico è però molto esplicitamente intravisto da alcuni dirigenti nella consolidazione dell'inserimento dei nuovi rifugiati nel Nord-Kivu, anzi nel Sud-Kivu, aggiungendosi i nuovi arrivanti alle centinaia di migliaia di vecchi immigrati banyarwanda (principalmente hutu), già in maggioranza in più distretti del Nord-Kivu. Un tale approccio dà un contenuto concreto alle tradizionali teorie regionali dette di <<rilassamento demografico>> del Burundi e del Rwanda sovrappopolato a discapito dell'anello più debole tra i paesi vicini. Infatti, la formula delle <<frontiere demografiche nate dalla colonizzazione>> utilizzata fino ad allora al più alto livello dello Stato ruandese come minaccia verso l'Uganda <<hamite>>, poco desiderosa di tenersi definitivamente i rifugiati tutsi, sarebbe ormai rivolta contro lo Zaire, costretto in qualche modo a far scattare la solidarietà <<bantoue>> visto che <<dispone di spazi sottopopolati adeguati>>. Questa nuova manifestazione dell'espansionismo banyarwanda beneficierebbe in oltre dell'argomento decisivo della presenza a fianco degli immigranti di 20.000-30.000 militari delle forze armate ruandesi che dissuaderebbero, almeno nell'immediato, le lagnanze degli autoctoni. Per rendere questa colonizzazione <<sopportabile>>31, basterebbe spostare i nuovi arrivanti più all'interno del Kivu verso i distretti lontani meno popolati, cosa che <<una spedizione punitiva contro i "vendicatori" del FAR>> potrebbe assicurare con, in un secondo tempo, l'<<appoggio umanitario della comunità internazionale>>... Profezia annunciata, ma quanto <<realista>> e...realizzabile! Gli attivi richiami al paese dei vecchi Tutsi (cf. la formula maldestra di un ministro del FPR: <<Abbiamo perso un milione di elettori>>), l'istigata partenza degli Hutu dal Bugesera, etc. danno corpo a questa eventuale volontà di giungere a delle situazioni <<purificate>> e vitali.
Le logiche di pace o di tensione pacifica
All'altra estremità del campo delle possibilità, i prerequisiti di una logica di pace basata su alleanze sincere tra gli elementi <<di apertura>> delle diverse parti miranti ad una ricomposizione effettiva dei campi politici nazionali sono perfettamente conosciuti: isolamento e disarmo dei partigiani accertati o dissimulati nella <<logica di guerra>>; riconoscimento reciproco del carattere incontestabile della <<democrazia del numero>> e del <<diritto d'espressione delle minoranze>>; l'organizzazione di un quadro istituzionale che garantisca il loro rispetto (in particolare al livello degli apparati giudiziari e dell'esercito, due istituzioni messe finalmente al servizio del mantenimento dell'ordine legale definito in un quadro politico democraticamente insediato).
Con queste premesse, tutte le combinazioni che si poggiano sul mantenimento di una strategia di tensione tra blocchi cristallizzati o progressivamente ricomposti, sono da prendere in considerazione.
A Bujumbura, la rimessa in piedi delle <<istituzioni>> attorno al tandem tibantunganya-Kanyenkiko può riallacciarsi alla logica della competizione pacifica e della priorità alla gestione dello Stato instaurata nel 1988 dal duo Buyoya-Sibomana. Lo spossamento delle popolazioni e il degrado della situazione economica aprono ai ricostruttori sinceri un campo di attività in cui dei benefici immediati e a minor costo potrebbero essere ricavati. Gli handicap da togliere sono pesanti: messa in opera senza vera convinzione, una tale strada può dare l'illusione di una pace apparente in città mentre il degrado della situazione continuerebbe all'interno. Infatti, una cosa è riunire tutti i protagonisti (o la maggior parte di loro) nello stesso governo, un'altra è far credere alle popolazioni che la riconciliazione e la fiducia prevalgono durevolmente al vertice. Dopo sei mesi di <<negoziati>>, bisognerà che i quadri dei partiti, incessantemente sulla breccia, riprendano la strada dei loro uffici, cioè della politica banale, vissuta giorno per giorno nella gestione di un ministero o sul terreno. Questo <<ritorno a terra>> sarà inevitabilmente doloroso in particolare per coloro che non devono la loro esistenza politica che al carattere eccezionale degli avvenimenti e al proprio opportunismo personale32.
Più globalmente, gli assetti attuali non possono essere considerati che come una tappa. Essi presuppongono degli arricchimenti, degli sblocchi su alcuni punti essenziali (forze armate, giustizia, etc.) la cui ampiezza e calendario di operatività33 riguardano in primo luogo i responsabili confermati nelle loro funzioni. Però, se nessuna prospettiva di consultazione popolare, quale che sia la forma, li obbliga a rompere con la mostruosa indifferenza degli <<strateghi>> di fronte al costo umano degli scontri politici, nessuna conferenza internazionale o nazionale permetterà di ristabilire la fiducia nei cittadini e di sfuggire "all'imputridimento" in corso. Nello stesso modo in cui i membri del governo rifugiati all'ambasciata di Francia e poi all'Hotel Lac Tanganyika si sono concessi, nel novembre 1993, tutto il tempo di <<recupero>> necessario prima di impegnarsi personalmente nel ristabilimento dell'ordine all'interno, ci si è trovati nel luglio e agosto 1994 davanti ad un blocco sistematico del ristabilimento delle istituzioni da parte dell'opposizione il cui braccio armato ha recuperato una leggittimità funzionale e che può contare su un rapporto di forza regionale invertito. Occorrerà attendere dei nuovi <<avvenimenti>> che modifichino gli attuali rapporti di forza per riaprire il dibattito?
In Rwanda, il FPR, proprio come i suoi attuali alleati, conosce perfettamente le debolezze strutturali dello schieramento politico installato a Kigali a metà luglio e la loro relativa impotenza a ristabilire la fiducia e l'unità nazionale malgrado gli innegabili sforzi di questo o quello. Nel contesto attuale, la condanna e la squalifica politica delle forze dell'ex seguito presidenziale impegnate nei massacri e nel genocidio risultano largamente irreversibili e la <<vittoria>> del FPR, che, dopo il 6 aprile, ha messo fine a questo sterminio programmato, è incontestabile. Il suo credito iniziale è indubbio e ne fà la forza politica di referenza. Ciò nonostante, nei confronti della costruzione del Rwanda finalmente sbarazzato <<dal clanismo, dall'etnismo e dal regionalismo>>, lo statuto del vincitore militare non concede alcun diritto politico se non quello di giudicare i fautori della guerra e di vietare il riemergere dei fanatismi che l'hanno guidata.
Una cosa è ragionare nel quadro di una logica di guerra dove la scelta iniziale della lotta armata ha fatto del FPR lo strumento decisivo della <<vittoria>>, un'altra è costruire una pace durevole e un sistema democratico in cui tutte le forze che si sono opposte e che sono state vittime della "deriva fasciante" del MRND e dei suoi satelliti devono poter partecipare ed essere rappresentati secondo le normali regole della competizione politica in uno Stato di diritto. Nella lotta per la ricostruzione politica e sociale del Rwanda, coloro che, hutu e tutsi, hanno condotto una difficile lotta pacifica all'interno del paese e che non avevano voluto unirsi (o l'hanno fatto più tardi) al FPR sono tanto rispettabili e hanno altrettanta leggittimità che i combattenti armati e la folla dei rifugiati tutsi di ritorno che ormai accompagna la vittoria dei loro <<compagni d'armi>>. L'appellativo di <<moderati>> che è dato alle forze alleate dell'interno è oggi frequentemente utilizzata dai vincitori per assimilarli ai politici e popoli da <<rieducare>> classificandoli semplicemente tra i <<collaboratori>> del vecchio regime meno coinvolti. La riorganizzazione di un sistema istituzionale presuppone al contrario che tocchi ai <<moderati>>, ai civili, dell'interno come dell'esterno far cessare di nuocere i sostenitori dell'etnismo hutu che non hanno imparato niente, di vietare ai vendicatori e profittatori di compromettere il ritorno alla pace civile.
In questa ottica, il quasi monopolio di fatto che il FPR esercita oggi sul potere non può che essere transitorio. I partners e le condizioni dell'<<apertura>> sono chiaramente identificati, gli avversari di questa apertura anche. Tutta la questione dipende dal calendario. I principali protagonisti -e tra loro la frangia che attualmente <<decide>>- sembrerebbero tutti e due persuasi di avere delle buone ragioni e delle ottime carte da giocare che gli permettono di lasciare tempo al tempo. Strategia deliberata di consolidamento della sicurezza o mancanza di coraggio politico per sconfessare negli atti i loro rispettivi estremisti, il tempo consolida le esperienze e dispensa dalle scelte: le disfunzioni gravi nel ripristino di un ordine legale minimo tanto in termini di perseguire i <<colpevoli>> quanto nella possibilità di recuperare i beni indebitamente acquisiti dai nuovi occupanti denunciati a Kigali, <<compensano>> gli atti di terrorismo quotidiano di cui sono permanentemente oggetto i rifugiati hutu da parte delle ex forze governamentali e dalle milizie.
Nell'attuale rapporto di forza, l'isolamento politico di cui ritengono di essere vittime i membri del governo a Kigali da parte di numerosi alleati di ieri e di <<amici>> stranieri (paesi, istituzioni, ONG o individui) non si scosta molto dal classico amalgama che fa della vittima un colpevole, nè da un <<revisionismo precoce>> di fronte al genocidio. Il sostegno al nuovo blocco dominante resta intero, ma troppi interrogativi sussistono sulla sua strategia di consolidamento da quando la voglia di conquista sembra aver preso il posto dell'intelligenza e della prudenza di cui il FPR aveva dato prova fino all'inizio di luglio nella gestione della guerra. I paragoni continui del FPR alle forze di resistenza al nazismo sarebbero sicuramente più credibili se, come per le formazioni politiche in questione, di colpo gli fossero riconosciuti una tradizione e una trasparenza democratica. I fronti di allora disponevano di organigrammi accessibili, di istanze di dibattito, di programmi politici negoziati tra i diversi componenti associati, di dichiarazioni e prese di posizione pubbliche che coinvolgevano l'insieme dei loro componenti. Il fatto che siano ormai i paesi della regione (come la Tanzania e il Kenya) e soprattutto il governo americano ad avanzare di fronte al nuovo potere, e con una fermezza sorprendente di quest'ultimo, l'argomento della <<condizione di democrazia>> può confortare solo coloro che, in seno alla nuova equipe, a Kigali e all'estero, si ritengono in posizione di debolezza o di <<asfissia democratica>>.
Al di là dell'unanimismo ostentato, i dibattiti in seno al FPR e al suo movimento vertono sui rapporti tra politici e militari, tra <<Ugandesi>> e <<Burundesi>>, tra Tutsi dell'interno e dell'esterno35, tra il FPR e i suoi alleati; sul tipo di Stato e di equilibrio di potere da mettere in atto, la strategia per il rimpatrio dei rifugiati e per la ricostruzione e, indirettamente, lo statuto delle masse contadine e il posto dell'agricoltura35. Su tutti questi punti, i chiarimenti non sono che appena abbozzati quando invece sono determinanti per il futuro di tutta la regione.
Come prima del 6 aprile, ma ormai sotto la guida del FPR, i giochi politici si conducono a Kigali nell'ignoranza più totale dei <<cittadini>>: nomine di prefetti, nuova composizione dell'assemblea nazionale, destinazione delle poche risorse in personale e mezzi per i vari ministri, etc., lo stesso processo di spartizione della (magra) torta duramente contesa dall'alto e di ricomposizione politica al vertice tra baroni prevale, rinviando ancora una volta le prospettive di apertura democratica ad un domani molto remoto.
Forse non è argomento da concludere, tanto le incertezze rimangono grandi sullo stato dei luoghi e sull'analisi che le diverse forze presenti -al centro di decisioni molto più esplosive di quanto l'apparenza lasci pensare- fanno effettivamente della situazione. Noi diciamo semplicemente che la vicinanza con gli avvenimenti e con gli "attori" è stata vissuta come una difficile prova individuale. Più che il ricordo degli amici perduti, le speranze saccheggiate, l'intolleranza esacerbata (e, bisogna dirlo, rispettabile se non legittima) delle -diverse- vittime, il contatto prolungato con la menzogna, il cinismo, l'<<insensibilità>> degli strateghi piccoli e grandi, nazionali o stranieri, si sono rivelati alla fine molto più insopportabili. Analizzare le crisi ruandesi e burundesi, è prima di tutto uno sforzo costante per non essere preso in trappola dall'emozione e dalle passioni, dalle provocazioni e dalle manipolazioni. Ciò facendo, la cosa più difficile rimane: conservare delle convinzioni, ricordarsi dell'esistenza dei valori della vita e della fratellanza.
Lille, ottobre 1994
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25. Senza sposare l'analisi che vede nella sovrappopolazione e nella <<promiscuità>> proprie della regione la causa fondamentale del disordine delle relazioni sociali, tutto lascia pensare che delle motivazioni assai prosaiche (regolamenti di conto per problemi fondiari, per conflitti di eredità, occasioni di saccheggi - greggi, tegole, mobilia, etc.) alimentate a mezza voce dagli istigatori dei massacri, si sono sovrapposte o hanno ricoperto gli alibi etnico-politici nella mobilitazzione partigiana.
26. Si misurerà in particolare lo scarto tra le posizioni unanimiste espresse nel primo comunicato delle forze politiche e delle associazioni e la riscrittura ulteriore degli avvenimenti <<scatenanti>>, evoluzione identica a quella delle prese di posizione pubbliche di parecchi intellettuali stranieri (cf. infra, Documents p.560).
27. Per mancanza di spazio, non abbiamo potuto riportare i diversi rimpasti che sono stati avanzati e che illustrano, settimana dopo settimana e al ritmo dell'evoluzione della guerra civile ruandese, l'escalation delle esigenze dei partiti dell'opposizione. Molto esplicitamente, l'elaborazione della convenzione di governo aveva per finalità la deviazione della Costituzione, riducendo i poteri dell'Assemblea nazionale (contro il rischio di una mozione di censura) e del presidente (col rischio di eccessi di potere). Si noterà che si tratta per la nuova opposizione di ritornare alla concezione del ruolo del presidente che è stata quella... avanzata da Melchior Ndadaye e dal FRODEBU durante l'elaborazione della Costituzione nel 1992.
28. Come per esempio l'istituzionalizzazione delle forme di solidarietà spontanea tra vicini -significato iniziale della parola umuganda - per esempio in <<lavori obbligatori d'interesse collettivo>>, versione attualizzata delle corvè coloniali. Cf. A. Guichaoua, "Les <<travoux communautaires>> en Afrique centrale", Rivista Tiers-Monde, n.127, luglio-settembre 1991, p.551-575.
29. Come sintomo dell'importanza data ai diritti dell'uomo dalla <<comunità internazionale>>, paragoniamo per esempio i qualche 60.000 dollari EU penosamente destinati dall'ONG all'iniziativa di questa commissione per approdare al rapporto in questione, agli 800.000 dollari che spendeva ogni giorno la MINUAR in Rwanda per i risultati che conosciamo.
30. Fra i due, risalterà il silenzio assordante su questo soggetto del potere giudiziario nazionale!
31. Un simile scenario era già stato prospettato nel corso delle negoziazioni <<informali>> nel 1987. Cf. A. Guichaoua, Il flusso migratorio nelle zone di frontiera dei paesi della CEPGL nell'ottica dell'applicazione della Convenzione sulla libera circolazione dei beni e delle persone, BIT/PECTA (Addis Abeba), CEPGL (Ginsenyi), maggio 1987.
32. Nella sua ultima fase dopo il 16/8/1994, il <<forum della negoziazione>> non raggruppava meno di 33 rappresentanti degli 8 partiti d'opposizione (che al di fuori dell'UPRONA, per coloro che erano stati in grado di presentare dei candidati, non superavano complessivamente il 3% dei voti espressi alle elezioni legislative di giugno 1993). Le <<forze del cambiamento>> quanto a loro, erano rappresentate da 16 delegati dei 4 partiti della <<maggioranza presidenziale>> (avendo raccolto più del 74% dei voti).
33. Punti sui quali divergono gli elementi che sono recentemente usciti dal FRODEBU, cf. infra, p.599, le dichiarazioni di Nyangoma e C. Sendegeya.
34. Dal momento in cui si ricomincerà a parlare (e osservare) normalmente, le sfumature e le sfaldature, inevitabili e normali, appariranno: divergenze <<naturali>> (e banali) di analisi e di comportamento tra politici e militari, opposizioni più complesse tra <<Ugandesi>> e <<Burundesi>> (essendo questi ultimi fra l'altro ritenuti i presunti responsabili di tutte le estorsioni anti-hutu di fronte al giudizio dei primi). Più delicate da assumere sono le accuse dei sopravvissuti dell'interno di essere stati deliberatamente sacrificati dai <<liberatori>>. Si ritrovano là i confronti tradizionali fra clan <<inferiori>> (i cui leader sono qualificati collaboratori per avere preferito unirsi ai tutsi dei partiti dell'opposizione interna piuttosto che seguire la linea <<giusta>> del FPR) e rappresentanti degli alti lignaggi reali rifugiati dal 1959 all'estero e che esercitano in seno al FPR un'influenza ben superiore alla loro rappresentanza formale nelle istanze, etc.
35. La strategia di riconquista politico-spaziale degli ex rifugiati
tutsi crea certamente delle situazioni di fatto dalle quali tutti sanno
che è politicamente impossibile uscire e che porranno a termine dei
temibili problemi verso gli attuali <<assenti>>. D'altra parte,
se il rientro in massa dei vecchi rifugiati e più largamente degli
stranieri <<d'espressione ruandese>> serve alla strategia di
consolidamento del nuovo potere, il paese si priva così dell'appoggio
del HCR e degli aiuti internazionali che accompagnano abitualmente i programmi
di rientro <<organizzati>>. Più globalmente, la polarizzazione
urbana e il discorso industrialista abitualmente tenuto dai dirigenti del
FPR fanno temere che la situazione di vuoto demografico sia sfruttata per
mettere in opera i fantasmi tecnocratici di <<stasamento demografico
delle campagne>> e di modernizzazione rapida dell'agricoltura (riforme
fondiarie, creazione di villaggi, generalizzazione del salariato industriale)
al fine di rompere con il circolo fatale dell'autosostentamento e dell'ammassamento
sul posto. Già ben presente tra certi settori delle elites hutu del
vecchio regime, una tale strategia urbano-politica, cambiata dalle elite
letterate e arricchite della diaspora tutsi d'Europa e della sotto-regione,
potrà trovare dei sostegni effettivi tra i grandi finanziatori. La
ricostituzione in corso di vaste proprietà fondiarie in certi comuni
e la creazione di spazi liberi per installarvi dei vecchi rifugiati potrebbe
dare corpo a questo approccio.