La lingua della guerra Questa è una guerra della lingua, una guerra nella lingua, una guerra attraverso la lingua. Prima ancora di essere un imbroglio del diritto internazionale è un imbroglio delle parole e dei loro significati. Ci viene detto: la guerra per la pace, la forza per i deboli, l'ingerenza umanitaria, gli effetti collaterali, gli ordigni soft. Questa guerra si combatte per ossimori e metonimie. L'ingerenza semantica ("la guerra nella pace") anticipa, veicola e giustifica l'intervento bellico. E' un passaggio dalla retorica della guerra come l'ha vissuta il Novecento a un esercizio abitudinario della lingua comune: il Novecento ci ha abituato a un'idea della guerra accompagnata da mobilitazioni di massa, da interventismi, da adunate oceaniche e coreografie militaresche, insomma da un rapporto stretto, eccezionale tra "discorso della guerra" e "azione della guerra" (il balcone, gli altoparlanti e la radio di Mussolini, il cinema della von Riefensthal e le parate nazionalsocialiste): l'ambiente semantico della guerra era definito in uno scenario generale in cui il discorso comune veniva proiettato, condotto, esaltato, univocizzato, "violentato" o "sollevato". Qui, ora non è più così: qui, ora la lingua viene messa al lavoro direttamente, dal suo interno, dai suoi riferimenti, dalle sue radici, dai suoi significati, stravolgendoli, inframmezzandoli, circoscrivendoli, impedendone le distinzioni. Lavorandoli. La flessibilità linguistica è messa al servizio della inflessibilità bellica. La guerra non è mai stata "dichiarata" (come invece in uno dei più famosi discorsi di Mussolini: "... la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di...") in una ufficialità linguistica, perché l'eccezionalità linguistica la definirebbe nettamente. La normalità di questa guerra invece deriva direttamente dalla sua normalizzazione linguistica. E' qualcosa di diverso quindi dallo strappo, dalla mobilitazione, dalla definizione di uno scenario: è la collocazione della guerra come evento comune "dentro" la normalità del linguaggio, "dentro" la normalità quotidiana, "dentro" la normalità della produzione. "Dentro" l'Impero. La guerra fa parte delle cose, questa guerra fa parte delle cose. La stupefazione comune di fronte a un evento straordinario quale la guerra viene messa a tacere con un esercizio della tonalità discorsiva che non è mai eccezionale, retorico. Briefing quotidiani condotti con estrema tranquillità, brevi dichiarazioni in una soffusa aura di semplicità, conferenze stampa in cui l'angoscia, il timore, la preoccupazione, l'indignazione non trovano mai espressione linguistica (a parte Harold Pinter) né nelle domande né nelle risposte. Tutto è sotto controllo linguistico. Si sta solo facendo un "lavoro". Si sta solo facendo un lavoro. L'accento cokney, da proletario di quartiere londinese, del portavoce Nato James Shea dovrebbe renderlo perfino "simpatico". Sottrarre le parole della guerra ai loro significati comporta due effetti stranianti: il primo è quello dell'assenza di un "nemico" nominativamente preciso, quindi di un obiettivo preciso. E' solo un'ottusa ostinazione quella che va ricondotta alla ragione, un inceppamento del meccanismo normale dei flussi, una strozzatura improvvisa su cui operare. L'assenza di esaltazione della nemicità ha però il terribile effetto di non definirla esattamente; in questo senso non avendo "dichiarato" il nemico, non avendone definito i contorni, è "tutta quella cosa lì" che va sistemata: una guerra non dichiarata, non detta, una guerra dove non ci sono le parole per definire il nemico, non ha distinzioni linguistiche per "popolazione civile" e "obiettivi militari", per "impianti di produzione" e "strutture belliche". Mentre nella guerra contro Saddam si continuava a giustificare il bombardamento di un deposito farmaceutico come "sospetto" di essere in realtà luogo di fabbricazione di armamenti chimici (una parola ne nascondeva un'altra, un significato ne mascherava un altro), qui ormai è "tutta quella cosa lì" che è palesemente fuori regola, ambulanze, civili, radio e tv, ponti, militari serbi, profughi, Kosovo e Serbia e Montenegro, i Balcani insomma. La "società belligerante" serba va tutta estirpata (mi fa davvero senso ritrovare un concetto che ho usato durante lo scontro di classe degli anni Settanta in Italia, quello della "società belligerante", per descriverne il conflitto, adesso in mano di analisti americani per giustificare l'annichilimento della Serbia). E' un salto rispetto la retorica del processo di Norimberga e le migliori intenzioni dei tribunali internazionali: adesso il criterio esplicito è che "nessuno poteva non sapere e reagire, quindi è corresponsabile". Tutto è nemicità se niente è specificamente nemicità. Tutto è obiettivo. La logica degli scudi umani che usava Saddam è già saltata a piè pari. Cazzi loro. L'altro effetto straniante è quello della difficoltà di usare le parole opposte alla guerra, quelle di pace, diplomazia, trattato, sospensione. La flessibilità linguistica bellica usa già tutte queste altre parole decontestualizzandole dai loro significati e inserendole nel flusso linguistico della guerra: nessuna di queste parole riesce a fermare la guerra perché la guerra agisce già attraverso queste parole. Il flusso linguistico della guerra corre attraverso la rete dei significati delle altre parole, di quelle che le erano opposte. Il pudore e il disagio che si ritrovano a usare parole opposte alla guerra (la pace) derivano dal sentirle prive di significato, "occupate militarmente" dalla guerra. La guerra ha esteso il suo protettorato linguistico sulle altre parole. Queste parole, resistenza, pace, hanno adesso senso solo se usate dentro un'altra lingua, dentro dialetti, dentro etnie, ma qui ognuna significa l'opposto dell'altra. La parola "pace" come la parola "resistenza" suonano diversamente, significano cose opposte per un serbo e per un albanese. Ma non è l'osservazione che la linea della guerra traccia significati differenti, mappa steccati linguistici: chi ricorda Remarque sa che le parole di pace e di odio della guerra significavano lo stesso di qua e di là, chi ha visto "La grande illusione" di Renoir sa che l'insensatezza della guerra era vissuta egualmente di qua e di là. E' che l'Impero ha costruito la sua lingua universale, la neo-lingua orwelliana, in cui le parole di pace e di guerra sono gestite direttamente e manipolate nello stesso flusso linguistico; e solo alle etnie, ai dialetti, alle lingue territoriali sono lasciati i significati linguistici differenti. In questa deterritorializzazione dei significati delle parole condotta dall'Impero linguistico, e in questa riterritorializzazione condotta dai nazionalismi, parlare, dire in modo universale è impossibile. A ciascuno la sua lingua. Il tempo della guerra Fin dall'inizio della guerra il suo tempo è stato sottratto a qualunque misurazione. Non solo per gli aspetti dell'incommensurabile legati alle tecnologie, quelli dell'impressionante relazione tra l'individuazione di un obiettivo, la sua messa in mirino e la sua distruzione, quelli cioè dell'"attimo"; oppure, all'opposto quelli della durata, ad esempio relativamente agli effetti di rilascio della radioattività di una bomba all'uranio, calcolato in un milione e mezzo di anni. Tra questi due incommensurabili si muove la distruzione. Non c'è altro "durante", l'unico durante che si riesce a concepire è una continuità dell'elemento distruttivo, una sequenza di attimi distruttivi o un rilascio di radioattività per l'"eterno". L'accelerazione della distruzione ha un suo alleato nella lentezza della distruzione. Il durante è sottratto alla misurazione umana, manuale. La durata ha carattere indefinito e la sua unica definizione è data dal carattere definitorio della distruzione. Solo quando tutto sarà distrutto tutto sarà finito. Perché tutto finisca, perché il tempo finisca, tutto deve essere distrutto. Questa compressione e dilatazione del tempo, questa accelerazione e questa eternità, quella stessa che osserviamo nei flussi della produzione, ha dunque carattere combinatorio. Il tempo della guerra è adesso ma è anche dopo, è dopo ma è anche adesso. Fin dall'inizio della guerra lo scenario in cui s'è mossa la politica internazionale è stato quello del dopo-guerra, ma non nel senso di immaginare delle azioni atte a definire la fine della guerra e l'inizio di un tempo successivo, ma piuttosto nel senso di agire dentro la guerra come se si fosse già nel dopo-guerra. Le continue dichiarazioni tranquillizzanti del nostro ineffabile presidente del Consiglio, i piani di pace preparati dall'adesso elegante ministro tedesco degli Esteri Fisher, le elusive prese di posizione di buona parte della cultura europea, le manovrine della diplomazia internazionale si collocano in un tempo parallelo, in una dimensione altra del tempo, quella appunto del dopo-guerra, come se in questa altra dimensione ci fosse del tempo disponibile perché indefinito dato che l'altro tempo, quello della guerra, è tutto occupato dall'attimo all'eterno. Qui, Clinton può dichiarare i suoi piani di ricostruzione, prestare attenzione ai russi, ascoltare gli alleati europei, rispondere con sofferenza alla gerarchia ecclesiale cattolica e ortodossa. La combinazione del tempo nella guerra, l'arte combinatoria del tempo della guerra, rilascia tempo per una dimensione virtuale del dopo-guerra. Muoversi nel tempo del dopo-guerra, anzi inquadrare in questo tempo le azioni di guerra, è come minimizzarle. E' come minimizzare l'intanto, l'adesso, il durante. Comprimerlo fino a renderlo irriconoscibile. C'è un continuo slittamento del tempo della guerra nella dimensione del dopo-guerra. Che intanto la guerra continui, che non si trovi un tempo adesso per fermarla, per dichiararsene fuori e contro, non conta. Bisogna muoversi nel dopo-guerra perché questo giustifica la presenza nel tempo di guerra. Non si possono lasciare a se stessi i profughi, i serbi e la ricostruzione. Che sia la guerra di adesso a provocare tutto questo non conta. L'ossessione (quanto disastrosa nella storia d'Italia) è sedersi al tavolo degli Alleati per discutere del dopo-guerra, e si discute adesso intanto che la guerra è. La guerra non continua, la guerra è. Anche qui, come per il linguaggio, il suo tempo diventa quotidiano, diventa perpetuo. La proposizione kantiana per una pace perpetua si rovescia nel suo opposto. A noi resta non il tempo della pace, ma quello del dopo-guerra. Noi possiamo sperare non che si instauri la pace, ma che venga il dopo-guerra. Ovvero, che la guerra abbia il suo corso e il suo tempo. E' questo che ci ripetono tutti i belligeranti per ragioni umanitarie. Invece dell'Apocalisse la ricostruzione. I corpi della guerra Questa guerra è immateriale e senza corpi, questa guerra è concreta e i corpi vengono esibiti. L'immaterialità delle azioni di guerra viene data dalla continua distinzione della guerra dal cielo dalla guerra on the ground, quella di terra. L'immaterialità di questa guerra sta nel suo elemento aereo e celeste, nel suo simigliare ad Ariel e non a Calibano mentre la tempesta infuria. Nel configurare l'immaginario, il segno della guerra, gli effetti della guerra sono secondari rispetto al gesto della guerra, al movimento della guerra, alla provenienza dell'azione di guerra. Che la guerra sia distruzione appartiene contemporaneamente alla ragione e all'istinto, alla strategia e alla tattica, non configura la forma dell'immaginario sebbene il discorso, la comunicazione sociale costruisca poi trama. Lo stupore davanti al fungo atomico è altra cosa dall'orrore o dal calcolo dei suoi effetti. La Prima guerra mondiale, ad esempio, porta il segno della trincea. La trincea è il suo segno, la sua forma. Dalla trincea si assalta, nella trincea si vive prima dell'assalto, in trincea ci si ribella e si costituisce coscienza, alla trincea si torna persino dopo i combattimenti massicci dispiegati (come Verdun). La battaglia è palmo a palmo, come nel Carso. Il fango della trincea si imprimerà nella memoria storica e la letteratura, il cinema, la narrazione orale con esso costruiranno l'immaginario. Qui, ora la materia è aerea e volatile, qui la forma dell'immaginario ha la stoffa dei nostri incubi. Questo ricetto dei corpi assegnati alla guerra (i corpi militari, quelli alleati invisibili o senza perdite statisticamente significative, ma persino l'esercito serbo non si vede) ci dovrebbe tranquillizzare sulla sua consistenza ridotta dato che non ci sono i corpi della guerra a scontrarsi proprio mentre esalta la magnitudine degli effetti devastanti sui corpi qualunque. Qui, i corpi vengono esibiti, ma solo in quanto vittime da una parte o dall'altra (i profughi in viaggio di qua e di là, corpo materiale delle selvatichezze serbe, le bombe a caso con uccisi innocenti, corpo materiale delle selvatichezze alleate). I corpi materiali sono solo vittime, e solo in quanto vittime (o prigionieri) si diventa materiali e si viene esibiti. L'immaterialità della guerra si riferisce ai corpi solo se questi sono corpi del dopo-guerra. Le vittime non sono quelle provocate direttamente dai raid aerei ma quelle che vi pre-esistono o vi susseguono. I corpi sono insignificanti rispetto le strutture. La guerra del cielo trova la sua materia non nei corpi nemici ma nelle strutture. Un ponte può saltare benché sopra vi viaggino dei profughi, un convoglio può essere colpito indipendentemente dai suoi componenti, persino un'ambulanza può beccarsi una bomba perché è visibile, i palazzi saltano, dei ministeri, della tv, gli impianti, non importa se abitati, se vissuti, se zeppi di corpi. Solo le strutture sono "visibili" dall'alto: nella logica immateriale della guerra del cielo, di questa Apocalisse i corpi non sono calcolati e calcolabili, sono sempre e comunque un effetto collaterale, insignificanti. I corpi delle vittime sono sottoposti al controllo, non all'annientamento. I rilevamenti satellitari permettono (attraverso il calore dei corpi, suppongo, e la forma assunta da decine di migliaia di corpi in movimento in fotografie sempre più ridotte) l'individuazione dei corpi e il loro controllo. I corpi delle vittime vengono ammassati, spinti, spostati, trasferiti, impiantati, spiantati, rifocillati, curati, piagati, separati, riuniti, smaterializzati, in un orrore da "lager mobile". Smaterializzati. Essi sono già corpi del dopo-guerra. Privati del riferimento al territorio verranno reinnestati "dopo". Questa guerra combina le forme tipiche della distruzione bellica con le forme del controllo di polizia. Le strutture appartengono alla guerra del cielo che "non vede" ed è indifferente ai corpi; i corpi appartengono alle operazioni di polizia che "non vede" ed è indifferente al territorio. Fermare la guerra con i nostri corpi, come nella Prima guerra mondiale, mi sembra davvero difficile. I nostri corpi non riescono a materializzare questa guerra. Ai nostri corpi sono affidati solo i corpi delle vittime, gli unici materiali, da curare, assistere, forse anche controllare. La guerra di terra, come ho già detto, forse non ci sarà. L'immaterialità della sua forma nell'immaginario sopravanza e impastoia intanto l'urgenza di fare ora. La supposta materialità dell'intervento di terra costruisce il tempo del "dopo". A un suo disinnesco si appigliano la politica e la diplomazia per rendere indifferente e digeribile l'adesso. L'accumulazione di truppe, che è adesso, vive nel tempo del "dopo", nel senso che prepara la gestione del dopo-guerra (un protettorato nel Kosovo? una gestione militare di tutta l'area dei Balcani?) e nel senso che è una minaccia nel presente. La guerra è intanto. La sua concretezza ha effetti disastrosi enormi (in vite, in ambiente, in strutture, in scenari) che sono già intanto. un miracolo Un miracolo è dunque quello che ci serve, lo straordinario, il mai visto, l'inimmaginabile, l'insolito, quanto è fuori della nostra portata. La politica, cioè. Pervasa non più dalla volontà di potenza ma dal delirio di impotenza. Nell'epoca dell'Impero non ci sarà più possibile fare ricorso alla nostra Wille zur Macht, alla potenza della nostra soggettività, alla politica come forma della volontà, perché essa è tutta abitata dall'arbitrio (la mediazione del diritto come terreno delle volontà è completamente stritolata dall'arbitrio che non consente mediazioni). L'arbitrio costruisce ambienti hobbesiani di conflitto generalizzato per poterli regolare e fondare sovranità. Questa sovranità dell'Impero si conferma nell'esercizio del proprio arbitrio. La politica che possiamo regolare nasce dalla cooperazione della nostra impotenza. Davvero però il ricorso alla nostra corporeità è possibile solo nei confronti delle forme del controllo piuttosto che nei confronti della guerra. Con i nostri corpi possiamo agire verso le vittime non contro i carnefici. Manifestare è cosa buona e giusta, ma non basta. E' quindi importante dare forma alla disponibilità verso le vittime, sottraendoli quanto possibile al controllo, al "dopo-guerra", con la coscienza di un impegno duro, di una lotta, di una battaglia in questo. Non basta e non è possibile solo il gesto solidale: esso è troppo vicino alle forme del controllo. Bisogna sottrarre i corpi, i nostri e quelli delle vittime a questo. L'impegno "umanitario", l'impegno "volontario", l'impegno "non-governativo", l'impegno del "terzo-settore" parlano vocaboli di una lingua già pervasa dalla guerra e dal controllo. Le retrovie e la ricostruzione sono appunti i loro luoghi e il loro tempo. Un miracolo di politica basta sulla cooperazione dell'impotenza. E sull'urgenza come suo tempo perpetuo. L'urgenza, l'immediato deve essere il suo tempo. Il miracolo richiede l'assoluto e investe la politica del relativo. Oggi non c'è altro tempo, altro riferimento, altra lingua che quello della guerra. Non ci è dato parlare d'altro perché altrimenti il miracolo non si rivela. Esso richiede forme della cooperazione (la costituzione immediata di un forum, di un cartello, di una associazione con strutture, coordinamenti, campagne ecc.) e forme della dismissione. La cooperazione dell'impotenza, la politica della non-potenza, il miracolo possono nascere mettendo a frutto la straordinarietà del quotidiano, l'enorme molecolarità del quotidiano. I suoi gesti devono articolarsi attraverso il criterio della disobbedienza civile. La diserzione non può essere altrui, non può essere dei corpi della guerra: questi sono immateriali e invisibili o destinati al dopo-guerra. Non ci sono tradotte "che van in montagna" da fermare o trincee da cui scappare. La diserzione deve essere civile, la diserzione deve essere politica, la diserzione deve essere sociale. La diserzione dev'essere nostra nella forma della disobbedienza, della politica. Chi ritiene che questa sia una guerra contingente, chi ritiene che ci si trovi solo di fronte alla contingenza d'una guerra, non ha capito, credo, la costituzione dell'Impero. Continuerà ad agire come se ci trovassimo in un tempo "altro". Un miracolo della politica è dunque possibile, la politica del miracolo è praticabile. Investire la politica della nostra impotenza è possibile. La fragilità degli Alleati è enorme sul terreno della politica tanto quanto è enorme la sua potenza sul terreno della guerra. La fragilità dei governi alleati nasce tutta dall'avere sussunta l'opposizione e la sua rappresentanza piuttosto che espulsa e circoscritta all'esterno come nella "guerra fredda". Qui bisogna agire, qui l'assoluto deve investire il relativo. L'Impero è solo una immateriale "tigre di carta". I serbi lo sanno bene. Se continuano a resistere. Miracolosamente.