- GJERAQINA TUHINA - (IN FUGA DAL KOSOVO)
N on potete immaginare come le voci si diffondevano nella nostra città, anche in tempi normali. Ma dopo l'inizio dei bombardamenti (e delle rappresaglie), c'erano voci su tutto. Dopo la morte di Bayram Klimendi, l'avvocato dei diritti civili, abbiamo sentito dire che molti politici e scrittori erano stati giustiziati. Abbiamo sentito parlare di gente radunata nello stadio principale, ma abbiamo potuto vedere da casa nostra che lì non stava succedendo niente - anche se non posso dire niente sugli altri due stadi della città.
Sapevamo che molte persone erano maltrattate mentre venivano espulse, e che i loro appartamenti erano stati distrutti. Ma il problema più grosso era nell'interruzione delle linee telefoniche: nessuno sapeva niente dei propri parenti. Così la paura era all'estremo, e la gente pensava solo a restar viva.
Ma anche dopo dieci giorni io non pensavo che sarebbe successo. Neanche quando sono cominciati i treni. La linea per Skopje non aveva funzionato per anni, ma dopo che sono stati ripuliti i dintorni di Dragodan, all'improvviso sono partiti, e tutti venivano in qualche modo indirizzati verso la stazione.
Potevamo vederli dalla nostra finestra. In altre parti della città si sparava. Ma qui la gente andava a piedi alla stazione - in silenzio, a testa bassa, camminando. In migliaia, per ore, scortati dalla polizia.
Il primo giorno li vedemmo, e pensammo: "Sorprendente". Il giorno dopo, dicemmo: "Oh, rieccoli". Dal terzo giorno, pensammo che fosse normale, e ognuno voleva solo sapere da quali quartieri veniva quella gente per capire quando sarebbe stato il proprio turno.
Ma tutto ciò non divenne reale finché non arrivarono a casa nostra. Ormai volevo disperatamente partire - ero spaventata e volevo vivere (...). Era un giorno "normale", tranquillo. Avevamo già altre tre famiglie che vivevano con noi, quindici persone nel nostro piccolo appartamento, era ora di pranzo. Mia madre e le ragazze stavano preparando la tavola, carne e riso, che ancora avevamo. A quel punto udimmo un movimento al piano di sotto, e capimmo.
Non potrei dire che erano gentili, ma non furono offensivi. Ne fummo sorpresi. Non ci fu neanche uno sparo, neanche una pistola puntata. Quattro giovani soldati con la divisa scura del ministero dell'interno (Mup) bussarono alla porta e dissero: "Dovete andare. Avete quindici minuti".
Aspettarono pazientemente. Ognuno con calma raccolse le sue cose. Il computer era acceso, così ho mandato un'ultima breve e-mail per dire che non avrei potuto inviare una storia quel giorno: "Pregate per me".
Quando fummo in strada, tutti andavano a sinistra, verso la stazione, e noi girammo verso destra. Non eravamo ancora pronti. Ci recammo da alcuni amici in un altro quartiere dicendo: "Siamo qui". (...)
Passò un giorno. Era una sensazione orribile, contare le ore. Eravamo contrariati perché non c'era stato nessun nuovo attacco Nato vicino la città. Discutemmo di alcune idee per partire, ma nessuna ci sembrava abbastanza sicura. E non volevo prendere quel treno.
In quegli ultimi giorni, ho ceduto. Non è che fossi spaventata, era il contrario: ero sicura - sicura che non avrei più rivisto i miei amici, sicura che niente sarebbe più stato uguale.
A quel punto, dovevo solo uscire. Mio fratello venne con me. Ci mettemmo i cappelli, abbassammo la testa e cominciammo a camminare in fretta. La città, dove vivevano prima 300.000 persone, era ormai mezza vuota. Si poteva sentire il vuoto, come quando in una stanza c'è una sola persona che respira. Pristina era morta.
Si fermò una macchina di fronte a noi, era un serbo, ma uno con cui ero in amicizia. "Hei - disse - siete ancora in giro? Cosa diavolo state facendo? Non sapete che la vostra vita è in pericolo?"
Lo ringraziai per avermelo ricordato.
Ci disse che aveva una via d'uscita. Due suoi amici stavano andando verso il confine macedone. Assicurò che sarei stata al sicuro e che potevano portarmi. Erano già partiti, ma se fossimo andati subito avremmo potuto raggiungerli. Non avevo tempo per riflettere, ma volevo credere che non ci avrebbe fatto del male. Saltammo su.
Dopo un po' sulla strada raggiungemmo l'altra macchina. Ci fu una breve conversazione e salimmo. Non ci furono presentazioni, l'autista e il suo amico non sembravano interessati. Erano funzionari della dogana jugoslava.
Procedendo verso il confine a Tetovo, per la prima volta in dieci giorni vidi bene la città. C'erano troppi carri armati, troppa polizia. Ovunque. C'erano veicoli armati di fronte a tutti gli edifici governativi. Il centro non era molto danneggiato, a eccezione dei negozi. Perfino i semafori funzionavano, anche se nessuno li rispettava. Ma quando attraversammo altri quartieri, soprattutto quelli residenziali, era tutto bruciato. Era strano: avevo vissuto a Pristina per 23 anni ma mi sembrava di non conoscere più la città.
La strada era tranquilla. Mi avevano raccontato di tutti i combattimenti e molti dei villaggi lungo la strada erano già stati dati alle fiamme. Non c'era molta più distruzione di quella che avevo già visto.
C'erano alcuni checkpoints e alcuni veicoli venivano fermati da civili armati, ma le strade erano sostanzialmente vuote e noi passammo tranquillamente. I funzionari chiacchieravano, lamentandosi della scarsità di sigarette a Pristina e delle lunghe giornate che li attendevano. Videro che non ero nell'umore per parlare.
Il confine si annunciò con la fila dei rifugiati - 10 chilometri. Gente in macchine, trattori, carri, e diverse migliaia a piedi, in fila per uscire dalla Jugoslavia. (...).
Il mio "autista" mi portò in testa alla coda, e mi lasciò appena oltre il confine. Chiesi se volevano vedere i miei documenti, dissero di no: "Fa' un buon viaggio, e buona fortuna". Potevano non aver capito che ero albanese? In ogni caso, ero fuori dal Kosovo, dalla Jugoslavia, dal pericolo. Mi sentii rinata. Non tutti sono stati così fortunati. Nella terra di nessuno, migliaia di persone aspettavano da giorni. Ho visto un'anziana donna morta. Hanno portato il suo corpo in un campo e l'hanno sepolta lì. (...).
Avevo un telefono cellulare, e dopo aver fatto sapere alla mia famiglia che ero ok, divenni il centro di una mini-ressa perché tutti lo volevano in prestito. Così ho parlato con parecchia gente. Non avevano idea di dove sarebbero andati o di cosa avrebbero fatto. "Se siamo fortunati, qualcuno ci darà una stanza", dicevano. Ma non avevano motivi di sperare. (...) Io sono stata fortunata: ho parenti in Macedonia, e un familiare ha trovato il modo di venirmi a prendere (...).
La cosa che abbiamo temuto tanto a lungo era successa. Andando via in macchina, stavo lasciando la Jugoslavia e la Mup, la paura. Ma stavo anche lasciando il Kosovo, e dovrò iniziare la mia vita daccapo. Tuttavia, penso che la gente tornerà indietro. Vedo già persone che vogliono tornare. Hanno questa bizzarra sensazione di essere solo partiti, e che la loro terra d'origine è vuota. Che, piaccia loro o no, il Kosovo, per ora, appartiene ai serbi.
* Gjeraqina Tuhina è corrispondente dell'Institute for War Peace Reporting. Questa testimonianza, tratta dal sito Internet dello stesso Istituto, è del 5 aprile.