L'OBIEZIONE DI COSCIENZA
Nel giugno del 1998, dopo un'attesa di molti anni, il Parlamento italiano approvava la nuova legge sul servizio civile. Siamo ora a una fase di transizione. Ha dunque senso chiedersi: i giovani in cerca di un'alternativa al servizio militare (in Italia superano annualmente la cifra di 50.000) hanno ricavato benefici dalla nuova normativa? Le loro intenzioni, riconosciute legittime già dal 1972, sono oggi tenute in maggior conto? Ma quali sono precisamente queste intenzioni? E quali le difficoltà o le delusioni a cui un giovane, nell'esercizio del suo diritto a prestare un servizio civile al posto del servizio militare, rischia di andare incontro?
Per raccogliere indicazioni attendibili sull'argomento, abbiamo approntato un questionario a scelta multipla e l'abbiamo sottoposto a "obiettori" impegnati, durante i mesi di aprile e maggio, presso enti o associazioni delle province di Arezzo, Firenze e Prato. Non ci siamo tanto preoccupati di mettere insieme un campione che garantisse la maggiore rappresentatività possibile. Abbiamo piuttosto inteso valorizzare gli incontri formativi e informativi con giovani del servizio civile.
Sono stati così riempiti 68 questionari, spesso in sedute protrattesi per diverse ore e molto vivaci. Diamo qui i risultati, commentandoli con i pareri formulati dagli obiettori stessi durante le conversazioni.
L'ESPERIENZA DEGLI OBIETTORI
Le prime tre domande riguardano l'esperienza personale degli intervistati: le motivazioni della loro scelta; le modalità di accoglimento della domanda di impiego alternativo al servizio militare; l'impiego delle energie, messe a disposizione della collettività. Per leggere correttamente il prospetto che riassume le risposte occorre tener presente che è stata data la possibilità di indicare anche più voci fra quelle suggerite nel questionario.
1) Quali sono le motivazioni che ti hanno indotto a scegliere. il servizio civile?
|
17 (25%) |
2) Come ti è stato possibile esercitare il diritto all’obiezione di coscienza e al servizio civile?
|
6 (9%) |
3) Nell'ambito offerto al volontariato, quali iniziative ti sembrano più urgenti?
|
20 (29%) |
Le risposte alla prima domanda mettono in rilievo anzitutto un dato: la stragrande maggioranza degli intervistati ha scelto il servizio civile indotta non tanto dal rifiuto assoluto dell'uso delle armi, quanto piuttosto dalla convinzione che a "difesa della patria" si possano offrire interventi più vantaggiosi del servizio militare nelle caserme. Se un quarto dei giovani rientra nella fattispecie dei veri obiettori di coscienza fortemente ispirati dal principio della non-violenza, i restanti tre quarti non risultano particolarmente sensibili a ragioni di principio, ma attenti all'utilità sociale delle loro prestazioni. Per cui è comprensibile che alcuni, senza sentirsi in contraddizione con se stessi, abbiano manifestato dispiacere per non poter conseguire, a causa della scelta del servizio civile, la patente di caccia o entrare in corpi armati dello Stato.
La terza domanda intendeva conoscere meglio l'ambito delle motivazioni e insieme il giudizio sulla gravità dei bisogni o delle emergenze sociali. Anche qui si è delineata una maggioranza nettissima, che ha collocato in primo piano - come è emerso dalla discussione - "l'assistenza alle persone", e precisamente ai minori in difficoltà (69%), agli anziani (29%) e ai disabili, ai popoli bisognosi della cooperazione internazionale (18%).
I pochi che hanno optato per "l'appoggio agli enti locali" si sono preoccupati di sottolineare le due ragioni all'origine della scelta. La prima consiste nell'impreparazione o nella istintiva ripulsa ad assistere gli anziani non autosufficienti oppure i disabili. La seconda si fonda sulla consapevolezza di possedere una buona conoscenza dell'informatica e sulla disponibilità a offrire la propria opera specializzata in favore soprattutto degli "uffici di segreteria" dei vari enti locali. Da qui la comprensibile insoddisfazione di tutti quelli che sì sono sentiti "usati" dalle strutture pubbliche come comodi tuttofare o tappabuchi da impiegare nei settori poco ambiti del facchinaggio, della portineria, dello smistamento di volantini o di bollette, del collegamento fra i diversi uffici dislocati in punti della città lontani l'uno dall'altro... Situazioni del genere denunciano gravi limiti in molti funzionari pubblici, che non dimostrerebbero alcun "rispetto per la persona" degli "obiettori", nessuna attenzione per le motivazioni che stanno dietro il gesto di offrire la propria disponibilità.
Può sorprendere infine che, tra le iniziative di cui ci sarebbe più bisogno, solo il 25% dei nostri giovani abbia segnalato "interventi sull'ambiente". Ma questo orientamento trova la sua spiegazione nella preferenza per i rapporti personali manifestata - come abbiamo già rilevato - da quasi tutti gli intervistati.
Una sorpresa maggiore riservano le risposte alla seconda domanda. È vero, la maggioranza relativa degli intervistati (il 40%) lamenta una "eccessiva attesa": in termini numerici da 11 a 14 mesi. Alcuni hanno richiamato l'attenzione sull'impossibilità di organizzare la propria attività lavorativa a causa dei brevissimo spazio di tempo (due o tre giorni) che di solito intercorre fra la comunicazione dell'accoglimento della domanda di servizio civile e la convocazione effettiva.
Detto questo, però, bisogna riconoscere che il 60% dei giovani si dichiarano sostanzialmente soddisfatti. Il 25%, infatti, ha trovato possibile esercitare "con facilità" il diritto all'obiezione di coscienza e al servizio civile; mentre il 35% (più di un terzo) si è sentito sempre rispettato nelle proprie convinzioni. Onore ai carabinieri, che ancora hanno svolto le indagini sui nostri intervistati al momento di inoltrare la loro richiesta di servizio civile.
ORIENTAMENTI PER UN'EDUCAZIONE ALLA PACE
Le successive tre domande sono volte a individuare, con l'aiuto degli "obiettori" da noi avvicinati, gli orientamenti funzionali a un'efficace educazione alla pace. In particolare la ricerca si sofferma sul contesto sociale giudicato più conveniente, sugli obiettivi cui attribuire la priorità, sui luoghi e sui soggetti che appaiono maggiormente idonei.
La formulazione di quest'ultima parte del questionario è desunta, spesso alla lettera (cfr. le espressioni tra virgolette), da un documento edito nel giugno del 1998, e curato dalla Conferenza Episcopale Italiana e dalla Commissione Giustizia e Pace. Si tratta della "nota pastorale" intitolata appunto Educare alla pace.
Cominciamo anche qui con l'esporre in forma sintetica i dati raccolti.
4) Quali condizioni servono meglio a creare il contesto sociale per educare alla pace?
|
41 (60%) |
5) Quali obiettivi si impongono con maggior urgenza a chi vuol educare alla pace
|
55 (81%) |
6) Per educare alla pace quali sono, a tuo parere, i luoghi e i soggetti più idonei?
|
55 (81%) |
Evidentemente i giovani intervistati, in percentuale molto elevata (60%), sottoscrivono senza riserve quanto sostiene la citata Nota pastorale a proposito di "cultura della regola": "L'illegalità è nemica della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell'economia" (n. 21).
Non pochi tuttavia hanno sottolineato l'importanza della questione politica (ossia di una partecipazione democratica effettiva) e della questione sociale (cioè di un'economia a servizio della comunità umana), collocandole "alla base" di una solida educazione alla pace (39%).
Nelle risposte alla quinta domanda si è delineato un consenso assai vasto (81%) sul valore dei "dialogo". Questa parola, insieme a "rispetto", rappresenta uno strumento concettuale ricorrente nei discorsi dei nostri giovani. Sembra effettivamente da loro accantonato il termine "tolleranza", così di moda nei secoli XVII e XVIII. Il suo limite d'altronde risulta già nell'etimologia: non fa piacere a nessuno essere "sopportato" come un peso. Avere invece "rispetto" per qualcuno vuol dire mettersi di fronte a lui e guardarlo, oggettivamente ma senza pregiudizi, come diverso; "dialogare" poi significa stabilire un rapporto con l'altro, nella convinzione che per questa via, mentre si costruisce l'identità personale, si giunge ad arricchirsi reciprocamente.
Quasi un quarto degli intervistati, indicando la "gestione dei conflitti" come obiettivo di grande valore, ha riproposto il primato della politica sull'uso delle armi.
Nella individuazione dei luoghi e dei protagonisti più idonei a promuovere un'educazione alla pace si riscontra una convergenza altrettanto ampia. La famiglia, privilegiata com'è dall'81% degli intervistati, risulta il luogo ideale per formare l'uomo alla concordia anche fra i popoli. Viene così confermata l'impressione che la comunità familiare -come ammette il documento Educare alla pace (n. 28) - sia appunto "la cellula e il paradigma della convivenza sociale". Evidentemente i giovani coinvolti nell'intervista hanno la fortuna di provenire da famiglie che sono riuscite a realizzare la loro naturale vocazione ad accogliere e coltivare la vita, a praticare l'etica del "prendersi cura", a istituire una feconda quotidiana collaborazione fra le diverse generazioni.
Se il ruolo positivo di tante associazioni nel promuovere rapporti improntati alla convivenza pacifica appartiene (quantunque ridimensionato nei risultati dei questionario) ai fatti certi, complessa è risultata l'analisi sul significato della scuola, che pure ha avuto una funzione decisiva nella vita di un terzo dei nostri giovani. Qualcuno di loro ha, tenuto a precisare di aver frequentato scuole private. Altri hanno rilevato che di per sé la scuola dovrebbe essere il luogo più adatto alla formazione civile e sociale di un giovane. Se in troppi casi questo non succede - hanno aggiunto alcuni - la colpa dipende dal fatto che la nostra scuola "istruisce, non educa".
CONCLUSIONI
L'impressione fondamentale, ricavata soprattutto nel corso delle conversazioni, è che i giovani da noi avvicinati abbiano raggiunto un grado elevato di maturità. Una maturità che trova modo di esprimersi e insieme di crescere alla scuola dei casi dolorosi o problematici della vita, con i quali l’espletamento del servizio civile pone a contatto. Colpisce sentire dei giovani tra i 24 e i 28 anni parlare, con la competenza che deriva dal coinvolgimento personale nei fatti, di anziani non autosufficienti, e delle difficoltà enormi a cui vanno incontro i familiari impegnati in un'assistenza continua, prolungata, priva di prospettive di guarigione, spesso non gratificata (per la natura stessa di malattie come il morbo di Alzheimer) da gesti o parole esprimenti un minimo di riconoscenza. Non minore sorpresa suscita la scoperta di obiettori che senza darsi delle arie, anziché pensare a sé e al proprio futuro, si fanno carico delle crisi dei minori disagiati o dei disabili. Più in generale, ammirevole appare nei nostri giovani l'attenzione alle gravissime questioni collegate con la salvaguardia dell'ambiente, o con la cooperazione internazionale in favore di popoli vittime tuttora di malattie endemiche, dell'analfabetismo, della povertà assoluta, della fame.
Ovviamente la scuola del servizio civile insegna anche a impegnarsi nella politica. Anzitutto sviluppando lo spirito di partecipazione democratica alla storia del paese reale e, in particolare, alle traversie delle fasce sociali più deboli. In secondo luogo riproponendo per la soluzione dei conflitti internazionali il primato appunto della politica e della diplomazia sulla forza distruttiva delle bombe. Mettendo infine in primo piano la grave questione della produzione e dell'impiego delle armi. È vero: esistono casi nei quali l'intervento militare si impone. L'alternativa dei l'acquiescenza passiva di fronte a insopportabili violazioni dei diritti umani non appare certo percorribile. Ma l'intervento armato deve necessariamente ridursi alla "guerra", anzi alle attuali "iperguerre", che puntano al totale annientamento dei "nemico"? Non si possono immaginare eserciti addestrati secondo i metodi e le finalità dei corpi di polizia istituiti a difesa dell'uomo? Eserciti posti agli ordini di un governo mondiale come doveva essere l'ONU, e perciò sottratti alle esasperazioni del nazionalismo? Proprio interrogativi del genere, che riguardano la globalizzazione della politica nell'era atomica, sono posti con la forza dell'esempio dai tanti giovani contrari a un servizio militare impostato secondo le vecchie modalità.
Considerando l'arricchimento che deriva in termini di umanità dall'esperienza dei servizio civile, non si possono ascoltare senza sconcerto le proposte relative alla creazione di eserciti nazionali formati da professionisti, pronti a difendere "gli interessi vitali oltre i limiti dei confini territoriali" (usiamo la terminologia del Nuovo modello di difesa italiano per gli anni '90). Ma sulla base di questo abnorme ampliamento dei concetto di "sicurezza nazionale", non si finisce per inseguire lo scopo inconfessato di militarizzare la politica estera, dopo aver abolito la "sovranità" solo degli Stati più deboli? E non può divenire questa la via per liberare le forze armate dal fastidioso ingombro dell'obiezione di coscienza? Lo stesso servizio civile avrà ancora un futuro, se si avvera l'ipotesi di abolire l'esercito di leva?
Lonnano, 31 maggio 1999 |
Francesco Pasetto |