AfricaCostretti a tornare dai loro persecutoridi Clement Njoroge
Mark è un rifugiato sudanese di 18 anni che vive in Kenya. E' arrivato nel 1994, dopo essere stato testimone del massacro della sua famiglia da parte dei soldati del governo di Khartoum, che lo hanno lasciato unico superstite. Dopo aver camminato per tre settimane con altri che come lui fuggivano dalla guerra, ha attraversato il confine con il Kenya ed è diventato automaticamente un rifugiato. Tuttavia, a differenza di molti altri minori accompagnati dalla famiglia e dai parenti, Mark era solo ed era troppo giovane e confuso per capire la necessità delle formalità legali, come l'immediata rgistrazione degli stranieri al loro arrivo nel paese. Quindi è rimasto in Kenya come rifugiato senza documenti di identificazione adeguati. Ora, quattro anni dopo si trova davanti la prospettiva di essere rimpatriato forzatamente nel suo insicuro paese, dove potrebbe trovare la morte immediata sia a causa della guerra che della carestia. Un destino tragico bene espresso dalle parole di un rifugiato ruandese che nel 1996 ha dovuto affrontare una situazione simile di rimpatrio coatto dalla Tanzania: "Ci costringono a tornare per finire nelle mani dei nostri persecutori". Questa opinione è emersa nel corso di un incontro dei vescovi africani, la conferenza pastorale organizzata dai vescovi AMECEA a Nairobi. Nel corso dell'incontro è stato lanciato un appelllo per una reale comprensione della questione dei rifugiati e il loro trattamento umano, denunciando che molti di loro ancora stanno soffrendo per i traumi psicologici subiti per essere stati sradicati dalla loro trerra natale e dalla loro vita quotidiana. Considerazioni che molti dei governi colpevoli preferiscono ignorare.
Secondo la relazione annuale di Amnesty International (1997), "per certi paesi, il rimpatrio non volontario è diventato il modo più efficace per liberarsi dei rifugiati. Questa 'soluzione' viene rafforzata dal fatto che i sette paesi africani da cui proviene il numero più alto di rifugiati - Liberia, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Rwanda, Burundi e Repubblica Democratica del Congo (DRC), stanno tutti impiegando troppo tempo per stabilizzarsi. Attualmente nessuno di loro ha vissuto una fase stabile negli ultimi 5 anni. Quindi ben pochi dei rifugiati scelgono il rimpatrio volontario. L'anno scorso sui 3,5 milioni di rifugiati del continente, solo lo 0,6% ha optato in questo senso. Nella pratica del rimpatrio coatto, i paesi di accoglienza si difendono citando i problemi di sicurezza collegati ai rifugiati ed esagerando il problema delle risorse economiche e sociali. Fidal, preside al St. Kizito Educational and Cultural Centre in Ruanda, una scuola che offre istruzione e consulenza ai bambini del Ruanda e del Burundi nella regione di Riruta, nei dintorni di Nairobi, è incerto sul futuro della sua scuola. "Temo che saremo costretti a chiudere la scuola, perché stiamo di nuovo attraversando un periodo di insicurezza per i rifugiati. Insegnare in questa situazione sarebbe del tutto inutile. Potrebbe concretizzarsi una situazione per cui a un certo punto non saremo più in grado di tenere a scuola i bambini", conclude. Un alto numero di rifugiati è destinato a essere colpito dal rimpatrio coatto. Tra questi sono presenti cittadini del Ruanda, del Burundi e della Repubblica Democratica del Congo (DRC), del Sudan, della Somalia, dell'Eritrea, dell'Etiopia e dell'Uganda. L'aspetto più inquietante è che l'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite non abbia rilasciato una dichiarazione sulla questione. Nel 1995 il Kenya ha rimpatriato forzatamente migliaia di rifugiati somali, persino quando le strutture istituzionali del governo centrale del paese erano crollate. L'anno seguente la Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire) ha fatto lo stesso con centinaia di migliaia di rifugiati del Ruanda - 200.000 secondo le stime di Amnesty International - che cercavano rifugio nel paese. Le autorità della Tanzania hanno imitato l'esempio qualche mese dopo, con il rimpatrio coatto di circa 500.000 di rifugiati del Burundi e del Ruanda. Oltre 5.000 rimpatriati ruandesi sono finiti in prigione in attesa dell'esecuzione per crimini che molti affermano essere completamente fabbricati. Secondo la relazione di Amnesty International e della Human Rights Watch/Africa 1997, l'aspetto più triste dei rimpatri forzati è il coinvolgimento di agenzie dell'ONU in violazione alla Convenzione ONU del 1951 sullo status dei rifugiati. Nella loro dichiarazione formale i vescovi hanno espresso viva preoccupazione per la situazione dei rifugiati. "La mancanza di tutela dei rifugiati li ha riportati in una situazione precaria nei paesi da dove erano fuggiti. Sono spesso molestati, arrestati e costretti al rimpatrio forzato". Nonostante la Convenzione ONU consenta il rimpatrio volontario, non prevede il rimpatrio coatto. Quindi sulla scia dell'adozione delle misure contro i rifugiati della maggior parte dei governi, secondo la conferenza vescovile la Chiesa deve ora articolare una posizione più chiara ed esplicita al riguardo di questo angoscioso problema.
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