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Versione italiana

N.12 - Febbraio 1999

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Grandi Laghi

Un incubo senza fine

di Bernard Munyanziza

Per i civili della regione dei Grandi Laghi, lacerata dalla guerra, la vita è un incubo senza fine. Il nostro corrispondente ha incontrato due sopravvissuti che hanno testimoniato che la morte è ormai un fenomento ormai quotidiano.

Quello a cui il mondo sta assistendo da un paio di anni nelle interminabili guerre in Africa centrale, appare come una sistematica aggressione contro l'umanità. Il genocidio di civili innocenti in atto nella regione ricorda la Germania nazista. Centinaia di migliaia di persone vengono uccise dalla fame, dalla malattia o vengono brutalmente uccise in Congo, Rwanda, Burundi e Uganda. Quelle che seguono sono le storie di due civili disarmati che descrivono il destino di milioni di altri. Mukanyangezi Daphrose è una donna sulla trentina dell'etnia Tutsi, originaria di Masisi, nel Congo orientale, dov'è in atto una nuova guerra. Prima di fuggire la donna viveva con la famiglia nella fertile regione di Masisi, dove insegnava nella scuola primaria. Nel 1993, in seguito allo scoppio di scontri nella regione, Mukanyangezi è fuggita a Goma, un città del nord. All'epoca si temeva un gruppo di opposizione armata, il Maimai, sostenuto da soggetti Tutsi. Mukanyangezi aveva già perso il fidanzato negli scontri, la sua casa era stata completamente saccheggiata, le mucche uccise e il raccolto distrutto. A Goma è stata picchiata, derubata di tutto e violentata dai soldati dell'ex-presidente Mobutu Sese Seko.

Nel 1996, quando l'attuale presidente Laurent Kabila ha iniziato la sua guerra, la donna cominciò a nutrire la speranza di poter vivere tranquilla a casa sua. Sfortunatamente, nel 1997, quando soldati ruandesi attaccarono gli abitanti della regione Masisi, questa speranza divenne solo un sogno. Vennero cacciati e nacque un forte sentimento anti-Tutsi. Mukanyangezi e altri abitanti della regione attraversarono il Rwanda e si stabilirono nel campo di Mundede, nella prefettura di Gisenyi, nella regione nord-occidentale del paese. In seguito il campo venne attaccato da grupppi armati che cercavano giovani Tutsi per la formazione militare. Anche i genitori di Mukanyangezi vennero uccisi ma lei sfuggì di nuovo alla morte e si diresse verso nord-est, nella prefettura di Byumba.

Le dure condizioni del campo la costrinsero a fuggire prendendo un autobus fino a Kigali, poi a Ruhengeri e alla città di confine di Cyanika, dove sfortunatamente venne arrestata con gli altri. "Siamo stati arrestati da truppe ruandesi che ci hanno ordinato di tornare al campo. Ci hanno detto che ancora non era ora di tornare a casa", racconta Mukanyangezi. Due mesi dopo ha avuto la fortuna di entrare in contatto con un amico che vive a Nairobi ed è riuscita a lasciare il Rwanda per trasferirsi in Kenya.

Ho incontrato Alphonse Giraneza, un giovane Hutu sulla ventina, al centro di smistamento dell'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite a Nairobi, dove è andato per registrarsi come rifugiato. "Ho lasciato la mia regione natale nel dicembre 1990 dopo l'attacco dell'Esercito Patriottico del Rwanda (RPA) nella nostra regione, nel comune di Muvumba. Mio padre era un funzionario statale nel governo e mia madre era segretaria in un progetto di comunità rurale. I miei due fratelli e sorelle frequentavano la scuola secondaria". Suo padre venne ucciso dal RPA nel campo di Nyacyonga nel 1993.

Giraneza, unico sopravvissuto della sua famiglia, ha assistito alla morte di una delle sue sorelle, morta dopo tre giorni di cammino da Kigali in Congo. "Abbiamo superato il confine del Rwanda a nord-est e siamo entrati nello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo). Durante la marcia la gente veniva uccisa, ferita o mutilata dai bombardamenti. A Goma siamo arrivati al campo rifugiati di Mugunga, dove mia sorella è morta di colera.

"Nel 1996", continua, "le forze di Kabila hanno attaccato il nostro campo rifugiati e io ho perso mio fratello e la mia unica sorella. Il resto della mia famiglia è fuggito verso le colline Masisi e dopo due notti da incubo siamo tornati nella nostra regione natale." Arrivato al villaggio, la famiglia di Giraneza si rese conto di dover affrontare un'altra sfida: la loro casa era occupata da un maggiore dell'esercito. "Ci hanno dato dei fogli di plastica che abbiamo usato per costruirci un rifugio sul retro della casa. Quando mia madre e mio fratello hanno chiesto che la casa ci venisse restituita, due persone in uniforme gli hanno sparato uccidendoli. Io ero andato a una festa nuziale con un mio vecchio compagno di scuola".

Gli assassini, rendendosi conto che Giraneza non era tra i morti, lo inseguirono cercando di eliminarlo in modo che nessuno potesse reclamare la proprietà. "Questo è il motivo per cui sono qui", conclude Giraneza. Sul suo viso si legge la disperazione, il trauma, lo sconforto e il suo sguardo non sembra trovare più significato nella vita.

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