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N.13 - Marzo 1999

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Kenya

Scontri etnici organizzati ad arte

di Christian Dhanji

La violenza del dopo elezioni ha colpito alcune zone del paese. Un rapporto recente attribuisce all'assenza della libertà di stampa e alle macchinazioni da parte del governo la causa dei disordini.

Anche se le elezioni generali in Kenya sono trascorse bene, con meno violenza di quanta non ce ne sia stata nel 1992, quando sono state tenute le prime elezioni dopo il ritorno di una democrazia pluripartitica, la violenza del dopo elezioni è esplosa subito dopo. Ciò ha posto fine a ogni speranza che la prevaricazione politica potesse essere cosa del passato.

I primi disordini sono scoppiati nel distretto Laikipia, nella provincia della Rift Valley, una regione densamente popolata da membri della comunità Kikuyu della diaspora. La comunità veniva attaccata per avere votato per il Partito Democratico (Democratic party - DP), all'opposizione, in una provincia che era a maggioranza pro governativa. Due giorni dopo la violenza aveva preso piede in vaste aree del distretto, prima di spostarsi verso Njoro, Molo e Nakuru, altre zone a maggioranza Kikuyu, facendo centoventisette morti, in gran parte del gruppo etnico Kikuyu.

Ma anche se le autorità e i media hanno rappresentato la violenza come 'scontri etnici' tra le locali comunità Kikuyu e Kalenjin, un rapporto recente pubblicato da Article 19, un gruppo di sostenitori dei diritti umani con sede a Londra, attribuisce invece la violenza alla assenza di libertà dei media nel paese. Il rapporto, di ventisette pagine, intitolato Kenya: post-election political violence (Kenya: violenza politica del dopo elezioni) sostiene che è la mancanza di questa che ha portato alla caratterizzazione della violenza come etnica, offuscando così i legami tra questi problemi in apparenza locali e il conflitto politico al livello nazionale tra il KANU (il partito di governo) e il DP.

Secondo il rapporto il fatto che la violenza abbia avuto luogo esclusivamente nelle zone di Molo, Nakuru e Laikipia, dove il DP aveva vinto, dimostra ampiamente che la violenza ha una dimensione politica. Una dimensione che a detta del rapporto è resa evidente dai discorsi tenuti dalla maggior parte dei candidati governativi al parlamento nel corso della campagna elettorale. Questi discorsi hanno portato a tensioni che sono poi esplose quando il leader del DP Mwai Kibaki ha messo in discussione i risultati della vittoria del presidente Daniel Arap Moi con una petizione in tribunale, giudicata da molti sostenitori del KANU 'politicamente sbagliata'.

Che gli attacchi fossero anche politici è dimostrato dalle loro modalità, simili a quelle degli attacchi che si sono manifestati in altre occasioni di conflitto nella provincia tra il 1991 e il 1994, prima e dopo le prime elezioni pluripartitiche nel 1992, in cui i sostenitori del KANU, in maggioranza Kalenjin, attaccavano membri di gruppi etnici in gran parte favorevoli all'opposizione, fondamentalmente Kikuyu e Luo. Ma la differenza tra allora e il 1998 è stata che allora i Kikuyu si erano riorganizzati e avevano attivamente controattaccato.

I sospetti politici erano anche enfatizzati dall'apparente riluttanza della polizia a porre un freno alla violenza. C'è stata persino un'occasione in cui la polizia non ha agito contro predatori che stavano saccheggiando e appiccando il fuoco sotto gli occhi del dipartimento di polizia, di giornalisti locali e stranieri e di membri del clero. Inoltre anche alcune autorità giudiziarie sembravano essere riluttanti a applicare la legge equamente quando la maggioranza degli imputati accusati di omicidio erano membri della comunità Kikuyu che aveva pagato il maggior prezzo in termini di vittime.

Secondo il rapporto gli scontri nella provincia della Rift Valley hanno portato alla luce una serie di questioni legate al diritto di espressione nel paese. Aspetti che si sarebbero manifestati attraverso incitamenti, restrizioni alla libertà di movimento, dicerie e disinformazione. Ognuno di questi aspetti, secondo il rapporto, ha finito per rinfocolare il montare della violenza. Sempre secondo il rapporto la violenza è stata anche incoraggiata dalla modalità di proprietà e controllo dei media nel paese. Il fatto che ambedue siano nelle mani della classe dominante e che siano altamente politicizzati ha portato al fatto che alla maggioranza degli operatori del settore dei media sono state negate informazioni o la via d'accesso ad esse a causa di sospette o reali fedeltà etniche o politiche; il risultato è stato che le storie finivano per essere distorte. Questo è il motivo per cui c'è stata un'assenza di resoconti accurati nella copertura degli scontri da parte dei media.

Il rapporto afferma poi che "la violenza nella provincia della Rift Valley in Kenya è un importante esempio di un fenomeno che sta prendendo sempre più piede nell'Africa sub-sahariana. I governi assumono segretamente entità delegate, come le milizie etniche o religiose, perché attacchino sostenitori dei partiti politici di opposizione o critici del governo. Ciò perpetua al livello locale le misure restrittive del governo del partito unico anche quando il questo proclama la sua adesione ai principi democratici al livello nazionale."

Riassumendo le conclusioni del rapporto, Frances D'Souza, direttore esecutivo di Article 19, dice: "Qualunque sia la scintilla iniziale che ha dato il via alla violenza, in Kenya le condizioni che hanno permesso che montasse non sono cambiate. La libertà di espressione e i flussi di informazione sono ancora limitati, il governo controlla ancora le trasmissioni radiotelevisive - principale fonte di informazioni per la maggior parte dei Kenyani, e permane la cultura dell'impunità. In altre parole, il terreno è fertile perché abbiano luogo comportamenti analoghi."

Il rapporto dice infine che la strada politica del paese continua a essere ingombra di questioni serie e irrisolte, come il dibattito Majimboista (federalismo etnico), il perno principale del processo di revisione della Costituzione, la successione presidenziale, la questione della terra e il problema dell'impunità lì dove, sempre a detta del rapporto, c'è stata una mancanza di credibilità dell'imparzialità del processo giuridico.

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