TanzaniaLa dura lotta della chiesa per difendere la propria credibilitàdi Laurenti Magesa
Nel corso degli ultimi anni in Nord America e in Europa sono stati ampiamente riportati casi passati e presenti di comportamento immorale da parte di alcuni rappresentanti del clero della Chiesa Cattolica Romana. Oggi casi simili vengono denunciati anche in Africa. Era solo una questione di tempo. Con la crescita e il consolidamento delle politiche multipartitiche in tutto il continente africano, la stampa è molto più libera e il controllo ecclesiastico sui mass media si è allentato. Oggi i giornalisti non si sentono più controllati dallo stato o dalla chiesa e possono pubblicare le loro scoperte, qualsiasi esse siano, chiunque riguardino.
Sono falliti i tentativi iniziali da parte di alcune autorità
ecclesiastiche, in diverse regioni del continente, di impedire la
diffusione sui media di notizie poco lusinghiere sul clero e la
chiesa, o di definirle opera di persone malevole.
I vescovi che sostengono questa impostazione attribuiscono i casi
di cattiva condotta a una carenza nella formazione in seminario e
citano il detto "Tale il seminarista, tale il sacerdote". Il documento, ancora allo stato di bozza, verrà certamente approvato dalla prescritta "maggioranza di due terzi del TEC in sessione plenaria" necessaria per l'entrata in vigore, come prevede la norma n° 60. La struttura del documento è onnicomprensiva nei suoi obiettivi e a una prima lettura sembra quasi un testo pastorale. Tra l'altro "specifica il ruolo del vescovo diocesano, enumera i vari aspetti della vita sacerdotale nelle circostanze quotidiane, (e) indica il codice di comportamento tra un sacerdote e i diversi gruppi del popolo di Dio nella Chiesa...". Tuttavia l'obiettivo centrale è inequivocabilmente giudiziario, come emerge chiaranente dal paragrafo 4 dell'introduzione: "Lo scopo principale del presente codice di comportamento è servire quale guida giuridica e normativa per tutti i sacerdoti che vivono e operano in Tanzania...". Il TPCC elenca le peggiori mancanze del clero locale e indica pene e sanzioni individuate dai vescovi, applicabili "dopo che le ammonizioni e i penosi tentativi di dissuasione presso il sacerdote colpevole perché cambi linea di condotta abbiano totalmente fallito". Le tre aree di comportamento d'importanza prioritaria sono "l'infedeltà al celibato, l'abuso di alcolici e il coinvolgimento in attività inadeguate o aliene allo stato e alla vocazione sacerdotale, come le attività affaristiche e commeriali, la politica, ecc.". Come il vescovo ha sottolineato, l'elenco non è esauriente ma questi sono i settori che emergono e che richiedono interventi urgenti. Pochi potranno contestare il fatto che fosse ormai necessario un richiamo ai sacerdoti del paese ad essere più fedeli alla loro vocazione e a non abusare della fiducia che la gente ripone in loro. Questo vale per le aree individuate dai vescovi ma anche per altre, familiari con la realtà della Chiesa in Tanzania, che incontreranno molte difficoltà con la scelta del ricorso all'opzione giuridica quale modo migliore per introdurre una riforma del clero, e lo stesso vale anche per diversi aspetti del codice stesso. Il Capitolo II del Codice (ad es., Disposizioni 16-25) definisce il ruolo del vescovo diocesano in termini noti: deve promuovere la comunione, la carità e il dialogo tra i suoi sacerdoti, al loro interno e tra loro e il vescovo. Deve anche mostrare attenzione e cura particolari per quei sacerdoti che potrebbero trovarsi in difficoltà e far sì che tutti abbiano di che condurre una vita dignitosa e "mantenere la libertà apostolica". Ma proprio qui risiede il problema centrale. I vescovi stimolano a sufficienza questa comunione tra i sacerdoti e la collaborazione con il vescovo? O è il potere gerarchico e giuridico dei vescovi presentato come essenziale? In altre parole, nella vita quotidiana in Tanzania il vescovo viene considerato prima di tutto un legislatore o un pastore? La Disposizione n° 16 del TPCC difinisce i vescovi diocesani "ecclesiastici a cui è stata affidata una diocesi o qualsiasi entità ad essa equivalente, e che abbia tutti i poteri ordinari, adeguati e immediati necessari per eseguire liberamente il proprio ufficio di insegnamento, di santità e di direzione". Esiste il pericolo di limitare questa definizione al ruolo gerarchico e giuridico del vescovo, quasi escludendo la sua primaria responsabilità pastorale. Sembra che sia stata questa enfatizzazione a far scegliere ai vescovi un'impostazione giuridica per tentare di risolvere i problemi della chiesa in Tanzania, estraniandosi quasi completamente dalla situazione. Nel documento non si fa cenno a un "mea culpa" da parte dei vescovi, un gesto che sarebbe stato eminentemente pastorale. Non si può amministrare la moralità per legge; ed è vero soprattutto in questo caso. Non esistono metodi esclusivamente giuridici per garantire la fedeltà del clero alla sua vocazione e la legge deve essere applicata non come norma, ma come eccezione in situazioni estreme. La prevenzione è più auspicabile e il modo più efficace per aiutare i sacerdoti a rimanere fedeli alla vocazione risiede proprio nel campo pastorale. Quale assitenza e guida pastorale ricevono i sacerdoti? E qual è il loro grado di maturità e autenticità? Perché mentre l'approccio giuridico rischia di considerare le persone come bambini da punire, l'opzione pastorale è più portata a considerare i sacerdoti degli adulti e ad essere più comprensiva rispetto ai duri eventi della realtà umana. L'opzione pastorale richiederebbe un accurato esame dei motivi per cui il clero tanzaniano ha fallito nell'impegno al celibato, abusando di alcolici e con il coinvolgimento in attività commerciali. Il metodo sarebbe induttivo, con "Sacre Scritture, documenti conciliari e post conciliari e il Codice di diritto canonico del 1983", usato per sostenere, non per ristabilire, la linea di principio. Cominciare con le disposizioni contenute nelle Scritture in modo deduttivo tende a renderle più refrattarie a un'interpretazione contestuale. Prendiamo ad esempio il problema del coinvolgimento dei sacerdoti in attività affaristiche o commerciali. Senza dubbio è un problema nella misura in cui è motivo di scandalo, ma la questione da porsi è come mai un numero così alto di sacerdoti lo faccia. Gli affari e il commercio sono un'attività complicata, che richiede tempo, e pochi inizierebbero un'attività senza un motivo valido. Nella Disposizione 34 il documento dichiara che i sacerdoti hanno "tutti i diritti di ricevere un giusto compenso", abbastanza da consentire loro di "mantenersi, andare in vacanza ogni anno, pagare il salario di chi si dedica al loro servizio e assistere personalmente i bisognosi". Una cosa è affermare un "diritto" del genere in un documento, ben altra assicurarsi che venga rispettato. Molti pastori confermeranno per esperienza diretta che non viene spesso rispettato. Qui la motivazione del bisogno supera quella dell'avidità. Se se ne tiene conto, allora la Disposizione 49 del TPCC per cui "...(ai sacerdoti) è vietato concludere affari personalmente o con altri, sia per proprio beneficio che per quello di altri", diventa non solo illogica, ma praticamente irrilevante. È notorio che la maggior parte dei sacerdoti non è stata in grado di offrire il proprio contributo, dato che non c'è stato nessun dibattito aperto sul documento, come invece sarebbe stato necessario nello spirito del dialogo e della collaborazione; allora forse il documento sarebbe stato più ricco, veramente pastorale e molto più realistico. A parte il discutibile principio teologico sulle donne sottostante alla Disposizione 44 che sugggerisce di non avere "servitù di sesso femminile (sic) nel presbiterio" - le donne, come sempre, qui vengono considerate possibile causa di peccato - e altri divieti collegati contraddicono la realtà concreta. Oggi, in molte diocesi, molte donne sono coinvolte nell'attività pastorale, anche come catechiste e collaborando con i sacerdoti devono trovarsi insieme molto spesso. Un sacerdote come dovrà comportarsi con il divieto "non dovrà troppo frequentemente viaggiare insieme o visitare una donna da solo"? E come può un sacerdote (o una suora) africano capire la normativa in base alla quale "non dovranno rimanere o dormire in una casa privata (presumibilmente persino dei parenti) ma bensì nel presbiterio o convento più vicino"? Se sul contenuto de TPCC ci fosse stato un dibattito più ampio e aperto qualche errore sarebbe stato evitato. Gli studi sulle religioni africane da lungo tempo hanno stabilito al di là di qualsiasi dubbio che, secondo la mentalità e il contesto africani, non esiste una distinzione netta tra sacro e profano. Tutto in Africa ha un potenziale religioso o un significato sacro, eppure nella Disposizione 14, i vescovi insistono che tale "chiara distinzione" esiste! Potrebbe forse essere il risultato del desiderio del TEC di affrontare e risolvere in fretta i problemi ecclesiastici codificando la moralità del clero?
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