TanzaniaFine di un sogno in Tanzania?Di Mathias Muindi e Clement Nyoroge
Quando nel gennaio scorso il sedicenne Juma Mabruk si è unito alla marcia pacifica organizzata dal partito dell'opposizione CUF (Civic United Front ) per chiedere di rifare le elezioni generali dello scorso ottobre a Zanzibar, non aveva la più pallida idea di finire a ritrovarsi senza casa. Nel giro di sole dodici ore si sarebbe invece travato ad essere fra i primi rifugiati nella storia della Tanzania. Ha lasciato l'isola di Pemba diretto al vicino Kenya attraversando l'omonimo canale, dopo che forze paramilitari erano intervenute violentemente sulla dimostrazione, uccidendo per lo meno duecento persone. La polizia aveva in seguito imposto una sorta di coprifuoco che tuttora permette alle autorità di esercitare controlli severissimi sulle due isole gemelle di Zanzibar e Pemba. Juma è scappato con altri verso il porto di Shimoni nel distretto di Kwale, nel sud del Kenya, imbarcandosi su di un sovraffollato dhow con la protezione dell'oscurità ed un proiettile nella coscia. Da questo porto la polizia kenyota lo ha prelevato e ricoverato per due settimane all'ospedale distrettuale, insieme ad altri quindici. Ora, mentre ripensa ai tragici eventi che gli hanno cambiato la vita, trascorre la convalescenza, insieme agli altri, sdraiato su una stuoia in una povera casa di fango di Milalani Market all'interno della foresta di Shimoni. Milalani è un piccolo mercato di duecento anime situato fra la città di Msambweni e Shimoni, dove si trova il resto dei rifugiati. A Shimoni gli ottocento rifugiati passano le loro giornate inebetiti sotto il sole cocente, lamentandosi a bassa voce della deprecabile condizione in cui si trovano. Nessuno di loro si è mai sognato di trovarsi in simili difficoltà senza sapere da che parte sbattere la testa. Nella condizione di non essere neanche riconosciuto ufficialmente come rifugiato dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Il loro sconcerto è espresso efficacemente da Ayub Rashid, padre di sei figli, che ha visto per l'ultima volta la sua famiglia sulla costa di Pemba tre settimane fa. " E' tutto veramente molto strano, e non sappiamo assolutamente cosa fare," dice il quarantottenne Rashid, mentre si prende cura dei feriti all'ospedale. Hassan Omar Taranganyu, un uomo d'affari kenyota proprietario di un dhow che ha trasportato centinaia di rifugiati dal momento in cui sono scoppiati gli scontri, ammette che nei sei anni in cui ha lavorato con la sua barca in zona non ha mai neanche lontanamente potuto pensare che un giorno i tanzaniani sarebbero fuggiti dalla loro madre terra a causa di violenze politiche. Ma, ora che è successo, non può far altro che assistere i più bisognosi, dicendo: "Non ho lasciato e non lascio a terra nessuno che mi faccia capire di voler andare via." Fino a questo momento l'UNHCR (l'Alto Commissariato per i Rifugiati) ha offerto ai rifugiati assistenza sotto forma di tende, cibo, materassi, e medicine, ma tutto ciò non basta anche perché le cifre aumentano. Le tende di plastica provvisorie sono costantemente minacciate di essere portate via dai violenti venti oceanici, spaventando a morte molti dei settanta bambini accampati a Shimoni. E ancora, dato che il campo è spontaneo, sprovvisto anche dei minimi servizi sanitari, ci si comincia a preoccupare di un possibile scoppio di epidemie, o per lo meno del diffondersi di malattie in genere. Le autorità kenyote parlano di spostare i rifugiati, anche se di fatto non esistono campi per rifugiati sulla Coast Province dove ospitarli. Ma è la mancanza di comunicazioni che preoccupa di più molti degli esiliati. Hadiya Haji è fuggita a Shimoni con suo nipote dodicenne, studente alla scuola elementare di Mitulaya e non sa più nulla di suo marito e del resto della sua famiglia. Il nipote, un ragazzino dall'aria spaventata, piccolo per la sua età, ha visto per l'ultima volta suo padre vicino al porto il giorno che se ne è andato e, sebbene il padre avesse promesso di ricongiungersi a Shimoni il giorno dopo, non ha saputo più niente di lui. Mohamed Khamis, padre di due figli, trentunenne, passa gran parte del suo tempo pensando preoccupato alla sua famiglia ancora bloccata a Pemba e, sebbene speri che siano al sicuro, non ne è poi tanto convinto e dice fra le lacrime: "Ho provato a chiamarli al telefono, ma non sono stato fortunato. La situazione mi preoccupa molto." Quasi tutte le informazioni che i rifugiati ricevono sono portate a voce dai nuovi arrivati, il risultato di conversazioni telefoniche o del relè di commercianti che si muovono fra Shimoni e Pemba. Questo stato di cose ha fatto in modo che si potessero diffondere voci di ogni genere e Juma afferma, apprensivamente, di aver sentito che la polizia sta in agguato al porto per portarsi via chiunque rientri. Dice anche di aver sentito che i feriti vengono tenuti nelle celle della polizia, invece di essere ricoverati nei reparti d'ospedale e che la polizia ha confiscato i referti di coloro che sono riusciti a farsi curare. Gira anche la voce che ci siano ancora corpi in decomposizione per le strade e che i villaggi di Pemba si siano svuotati, perché la gente rimane nascosta nella fitta foresta dell'isola aspettando che la repressione finisca o di imbarcarsi su un dhow per la traversata di sette ore verso il Kenya. Queste sono le storie che girano ma, voci o non voci, i rifugiati sono certi che la vista di dhows sempre più affollati e lo sbarco continuo di carico umano a Shimoni costituisca la miglior prova che purtroppo la situazione è ancora ben lontana dall'essersi normalizzata. Fra i rifugiati si trovano ben quattordici politici del CUF appartenenti sia alla Camera dei Rappresentanti, il Parlamento delle isole , sia al Parlamento nazionale tanzaniano e sebbene essi non siano i primi leader politici africani a fuggire in esilio, il fatto che provengano dalla Tanzania la dice molto lunga sulla caotica fase politica nella quale è scivolato questo paese. Per oltre quarant'anni la Tanzania ha rappresentato un esempio di maturità politica e pacifica convivenza etnica, elementi che le hanno permesso di rimanere esente da guerre civili, salvo la rivoluzione del 1964 che ha portato all'unione delle due isole attualmente in crisi con la terraferma, sotto la guida del Presidente e Maestro fondatore Julius Nyerere, che mise mano alla sperimentazione del "suo" socialismo. Ma, negli ultimi dieci anni è cresciuta la pressione politica dei leaders delle isole perché si rivedesse l'assetto stesso dell'unione. Le loro critiche si sono concentrate sulla scorretta distribuzione delle risorse, a loro svantaggio, naturalmente. Un argomento questo che ha sempre infastidito la terraferma, al punto che non lo ha mai voluto neanche prendere in considerazione. Ora potrebbe essere il momento di doverlo fare, poiché la questione ha assunto contorni nuovi e la dimensione della violenza. Le probabilità di guerra civile a breve termine sono praticamente nulle, ma i prodromi lo stesso non mancano. " Sono pronto a tornare indietro e continuare la lotta, dato che ancora non è cambiato niente," dice Khamis Mohamed, un attivista ventottenne del CUF che durante gli scontri è stato colpito due volte ad un braccio. " Questo governo ci è stato imposto e ciò per noi è inaccettabile " aggiunge. Una persona di mezza età, Rashid Bakari, interviene dicendo: " La nostra posizione è la stessa. Vogliamo giustizia. Abbiamo aspettato a lungo dalla rivoluzione ad oggi, senza vedere niente. Tutto ciò che vogliamo è vedere qualcosa di nuovo." Sentimenti come questi esprimono la frustrazione di gente che lamenta di non aver mai visto sortire cambiamenti dal rituale democratico del voto che ha caratterizzato la transizione politica in Africa nell'ultimo decennio. L'iniziale euforia è sparita, dopo che i grossi papaveri succedutisi nei vari governi hanno sabotato il processo delle riforme. Questa situazione è stata messa bene a fuoco in un rapporto del '99 di Human Rights Watch in cui si sostiene che la lotta per lo sviluppo democratico in Africa sembra essersi bloccata fra un sogno di cambiamento ed un incubo, con la vecchia guardia che non desidera altro che silurare il processo di riforma. L'incubo si è ora infiltrato in Tanzania, un paese che, paradossalmente, in questo momento sta cercando di riportare la pace fra le fazioni in lotta del Burundi. Fino ad oggi il governo non ha indicato a quali riforme potrebbe mettere mano o quando sarebbe disposto a farlo, ma i suoi sostenitori sono stati unanimi nel dire che non si può andare a nuove elezioni dopo che le ultime sono state invano truccate proprio da coloro che chiedono di rifarle. "…che il CUF accetti il risultato delle ultime elezioni, riconosca la presidenza di Amani, ed occupi i suoi posti nella Camera dei Rappresentanti ed a quel punto, prometto, vedrete significativi miglioramenti del clima politico a Zanzibar." Afferma il vice presidente del paese Omar Juma. Con i leader dell'opposizione ed i rifugiati in esilio intenzionati a non tornare a casa finchè le riforme non sono avviate, la guerra è ormai aperta e la Tanzania è ormai esposta al pericolo di una grave crisi. Il CUF ha innalzato la temperatura politica appellandosi ai paesi donatori affinché facciano pressione sul governo perché rispetti le sue richieste, dell'opposizione. All'inizio di questo mese il capo del CUF Ibrahim Lipumba ha scritto alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario Internazionale e all'Unione Europea invocando il loro aiuto per costringere il presidente Benjamin Mkapa ad annullare i risultati delle elezioni. Contemporaneamente un altro leader del CUF, Seif Hamad, ha incontrato il nuovo sottosegretario per l'Africa del Foreign Office di Londra, Brian Wilson, per discutere l'argomento, ma senza sortire alcun risultato dal momento che Tony Blair ha da parte sua affermato che nuove elezioni non avrebbero cambiato in alcun modo le cose. La posizione presa dagli inglesi è in linea con quella degli americani e consiste nel non prevedere in alcun modo il congelamento degli aiuti e ciò fa temere all'opposizione che una reazione morbida come questa possa influenzare a sua volta anche le istituzioni di Bretton Woods. L'unione Europea ha ammonito che se si continua ad esercitare un eccessivo uso della forza ed abuso dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza ciò avrà inevitabilmente un impatto negativo sulle sue relazioni con la Tanzania. L'Unione non sta bluffando, dal momento che ha già reagito in modo simile nel 1995 in seguito ad una disputa politica dello stesso genere. Gli Stati Uniti non si unirono all'Unione nel praticare le sanzioni e, al contrario, l'amministrazione Clinton si impegnò a rafforzare i legami con il governo di Mkapa annoverando il presidente fra uno dei rappresentanti della nuova genia di leaders africani che lavoravano meglio per garantire stabilità e sviluppo. La posizione americana si basa sul timore che il CUF possa essere un'organizzazione fondamentalista dato che il grosso del sostegno al partito proviene dalle isole dove il 97% della popolazione è musulmana. Tale valutazione ha irritato alcuni analisti che appoggiano il CUF. Fra questi Natalie Arnold, un'antropologa americana che ha fatto ricerca a Zanzibar, la quale afferma che l'islamismo praticato a Zanzibar è di natura fortemente moderata. Ed aggiunge: " Prende la forma di un orientamento sociale generale, piuttosto che di una pratica religiosa specificatamente indirizzata o regolata come tale. Non è, come in alcuni altri paesi, da vedere in alcun modo in opposizione all'occidentalizzazione, alla tecnologia o ad un'istruzione pubblica e laica. Ciò che maggiormente va rimarcato in questo contesto è che l'islamismo a Zanzibar condivide pienamente l'indirizzo generale occidentale relativo ai diritti umani ed alla democrazia." Le organizzazioni di difesa dei diritti umani sono state anche irritate dall'atteggiamento americano di fronte al documento di Human Rights Watch che chiedeva di pensarci due volte prima di dare denaro ad un paese che è tanto determinato ad usare violenza incontrollata sui suoi cittadini che non sostengono il partito al governo. Il paragrafo 19. del documento afferma infatti che è ormai giunto il momento che la comunità internazionale chiarisca al governo tanzaniano che ciò che accade a Zanzibar ricade pienamente sotto la sua responsabilità. I rifugiati affermano che l'ordine di sparare è venuto molto dall'alto, infatti poche ore dopo la carneficina il presidente di Amani, Abeid Kharume, si è congratulato con la polizia per i suoi sforzi, ammonendo chiaramente coloro che hanno partecipato alle dimostrazioni che sarebbero stati severamente puniti. Si è perfino detto che alcuni dei funzionari di polizia che hanno partecipato all'intervento di repressione sono stati promossi sul campo. Del resto, è particolarmente significativo il fatto che Kharume nel suo discorso non abbia affatto chiesto alla polizia di trattenersi dagli eccessi, né tantomeno ripreso quei funzionari che si sono lasciati andare ad atti inaccettabili di violenza sui dimostranti. E' questo genere d'arroganza che ha convinto molti osservatori che la fuga dei rifugiati non rappresenta la fine di una disputa politica, bensì l'inizio di qualcosa di molto più grande e pericoloso: la fine del sogno di un paese "arcobaleno". I rifugiati sono fuggiti in Tanzania per più di cinquant'anni, durante i quali il paese è stato un importante sostenitore dei movimenti di liberazione nel Continente. Pare che tutto ciò sia stato dimenticato dai leaders politici di oggi che sembrano ora, al contrario, desiderosi di inserire la Tanzania nel novero delle pericolose repubbliche di banana che non si preoccupano di produrre ed esportare rifugiati come Juma.
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