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N.37 - Maggio 2001

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Sudan

Anche fra alleati ci si uccide

Di Matthias Muindi

Le etnie Dinka e Nuer, unite nella lotta al regime di Khartoum, sovente si combattono per una rivalità nella spartizione degli aiuti internazionali. Intanto ancora una volta la siccità e la guerra civile hanno fatto scoppiare una carestia nel Sudan meridionale. Le agenzie di cooperazione temono che se gli aiuti non arriveranno immediatamente milioni di persone moriranno.

Secondo una recente dichiarazione della diocesi di Rumbek,, nei prossimi mesi nel Sudan meridionale più di un milione di persone rischia di morire di fame se la comunità internazionale non si attiva offrendo immediatamente aiuto alimentare. Le vittime designate sono sudanesi sfollati dalle loro capanne a causa dei combattimenti fra le fazioni in lotta e della siccità che sta dilagando in questi giorni nel Sudan centro meridionale. Gran parte della popolazione colpita vive in squallidi campi profughi del sud e se non riceve un aiuto immediato, secondo la chiesa cattolica e le agenzie umanitarie che lavorano in Sudan, il mondo sarà presto testimone di un'altra catastrofe umanitaria in quel disgraziato paese.

La chiesa ha lanciato l'avvertimento ai primi di marzo in seguito ad una estesa ed approfondita ricognizione compiuta dal Vescovo cattolico di Rumbek, Cesare Mazzolari, che ha viaggiato nelle aree colpite dalla guerra della regione del Bahr El Ghazal. In un comunicato stampa rilasciato in marzo il Vescovo ha annunciato che un milione di persone rischia di morire per l'aggravarsi degli scontri in atto nella zona fra i ribelli del Sudan Peoples Liberation Army (SPLA) e le milizie pro governative islamiche conosciute come Murahiliins. Secondo l'alto prelato le vittime sono al momento intrappolate in un area di 300 kmq nel Bahr, con un epicentro di pericolosità e gravità della sofferenza situato fra Mayen Abun e Nyamlell. "La loro situazione è pietosa ed è chiaro che la comunità internazionale non ne è consapevole. Questa gente rischia davvero una morte imminente." Riferisce il Vescovo Mazzolari.

E' la seconda volta in tre anni che il Bahr si trova nella morsa della carestia. Nel 1998 circa 200'000 sfollati sono morti in seguito ad una tremenda carestia sviluppatasi in quella zona e fu solo dopo che le terribili immagini di bambini e mamme morenti di fame andarono sugli schermi che il mondo si mosse per cercar di fermare l'aggravarsi della tragedia. Di fronte ad una immensa regione come il Bahr preda di una grave siccità, all'intensificarsi dei combattimenti e ad una risposta di basso profilo della comunità internazionale, il Vescovo lancia l'appello temendo il ripetersi del tragico evento del 1998, affermando:" Le loro abitazioni, scorte di cibo e proprietà sono state messe a fuoco nel corso degli attacchi dei militari, i Murahiliins hanno razziato il loro bestiame ed ora questi disgraziati sono costretti a vivere lontano dalle sorgenti d'acqua in condizioni di povertà totale ed isolamento." Gran parte dei 55'000 sfollati avvicinati da Mazzolari proviene dalle zone del fronte dei combattimenti a sud ovest di Malwalkon, dove l'SPLA e i Murahiliins si scontrano dall'inizio di febbraio. Questi scontri hanno lasciato molti morti fra i combattenti ed ora, con la stagione delle piogge in arrivo ad aprile, sui sopravvissuti incombe la minaccia di epidemie, dal momento che gran parte dei cadaveri è stato sepolto sotto pochi centimetri di terra.

Al campo di Akwemko 2.800 sfollati sopravvivono grazie alle razioni alimentari fornite da Médécins Sans Frontières (MSF), mentre altri sfollati nei due campi di Maniel e Burrap tirano a malapena avanti nutrendosi di piante selvatiche. I 25'000 accampati a Wanyjok, a 6 km da Malwalkon, ricevono razioni alimentari da World Food Programme (WFP) nelle località di Malwalkon e Akwemko. Testimoni riportano che altri sopravvivono tagliando l'erba nelle vicine paludi, vendendola per fare qualche soldo ed acquistare vestiario ed altri beni basici essenziali per loro stessi e i loro bambini. C'è altra gente che è stata sfollata forzatamente dalle forze governative, semplicemente per il fatto che risiedeva in aree confinanti con la zona petrolifera, nel cosiddetto Unity State. Sebbene non siano stati forniti dati precisi, Roger Winter, Direttore esecutivo del Comitato Statunitense per i Rifugiati afferma che:" La pulizia etnica legata allo sviluppo dell'estrazione petrolifera nel Sudan meridionale sta causando un massiccio spostamento forzato di popolazioni inermi." Di fatto WFP è impegnata attualmente a nutrire gente sfollata da Bentiu, la capitale dell' Unity State, ricco di petrolio.

Ma la chiesa non è la sola istituzione ad essere allarmata dalla dimensione della catastrofe provocata dalla guerra e indirettamente dalla presa di coscienza degli eventi che si sta dimostrando totalmente inadeguata di fronte ad una tragedia di tale portata. Invero, il 23 febbraio scorso, pochi giorni prima della petizione di Mazzolari, l'Appello Consolidato Inter Agenzie delle Nazioni Unite è uscito con una dichiarazione che metteva in guardia sull'imminente pericolo che un'ennesima catastrofe umanitaria si stesse per abbattere sul Sudan. Tre mesi fa il rapporto dell'Appello Consolidato aveva chiesto 60 milioni di dollari sotto forma di viveri ed assistenza varia per far fronte ai bisogni urgenti di 600.000 persone considerate "a rischio immediato". Ma, nonostante l'alto profilo delle Agenzie componenti l'Appello, la risposta dei paesi donatori è stata estremamente modesta. Dall'inizio di marzo l'Appello ha ricevuto solamente l'1% dell'ammontare richiesto. Tale risposta ha allarmato il Sottosegretario Generale per gli affari umanitari delle Nazioni Unite Kenzo Oshima che ha espresso profonda preoccupazione per una risposta tanto inadeguata ad una situazione già molto compromessa. Il WFP ha fatto già presente che se questi fondi richiesti dall'Appello non saranno immediatamente assicurati l'Organizzazione non sarà in grado di nutrire gli affamati. L'Unicef si esprime grosso modo nella stessa preoccupata maniera affermando che potrebbe essere costretta ad interrompere presto i suoi interventi di emergenza nel campo di acqua, igiene e sanità.

Queste richieste di aiuto umanitario arrivano nel momento in cui si chiede agli Stati Uniti di farsi avanti ed usare i potenti canali diplomatici per porre fine alla guerra civile che ha trasformato in un inferno la terra dei Nuer, nel Sud del paese. Il 1° marzo l'organizzazione Human Rights Watch con sede a New York ha scritto al Segretario di Stato americano Colin Powell chiedendo che l'amministrazione Bush faccia uso della sua influenza per far sì che le fazioni ribelli del sud pongano fine agli scontri. "Siamo allarmati dai recenti sviluppi militari che minacciano di entrare in una spirale fuori controllo," ha scritto Jemera Rone, ricercatrice del gruppo che si occupa di Sudan. "Sollecitiamo l'amministrazione Bush ad intervenire diplomaticamente sulle fazioni militari del sud e sulle autorità civili in uno sforzo rivolto a fermare la violenza legata alle differenze etniche. Si tratterebbe di un ottimo esempio di come un intervento diplomatico americano tempestivo ed intelligente può esercitare tutto il suo peso determinante nella risoluzione dei problemi."

Sovrapponendosi alla guerra in atto fra L'SPLA e il governo di Khartoum, negli ultimi due mesi si sono verificati violenti scontri fra clan Nuer rivali, dovuti soprattutto a divergenze sull'appoggio all'SPLA e la distribuzione di aiuti alle comunità. Fin dai tempi della spaccatura dell'SPLA nel '91 gran parte dei clan Nuer sostiene il Sudan People Democratic Front ( SPDF) guidato da Riek Machar, un comandante Nuer ex SPLA. Ogni Nuer che sostiene l'SPLA è stato visto come un traditore, in quanto questo movimento è dominato dall'etnia Dinka, la più importante della regione. D'altra parte L'SPLA vede le fazioni Nuer che le si oppongono come creazioni di Khartoum e le tratta come tali per cui, agli occhi di molti nazionalisti Nuer, le incursioni nel loro territorio condotte dall'SPLA vengono ormai viste come un atto provocatorio dell'etnia Dinka. Questo è il motivo per cui l'attacco condotto il 22 febbraio dal comandante Nuer dell'SPLA Peter Gatdet saccheggiando e mettendo a fuoco la città di Nyal nel Upper Nile occidentale è stato accolto con rabbia dai Nuer.

Questa reazione si è espressa in tal modo specialmente dopo che si era venuti a sapere che il reparto di Gatdet era principalmente composto di combattenti Dinka e la vendetta è stata considerata la ragione principale dell'attacco. L'anno scorso è stato riferito che forze Nuer appartenenti all'SPDF, contrarie a Gatdet, hanno attaccato la sua zona mettendo a fuoco e saccheggiando le abitazioni, violentando donne e ragazze. A questi scontri si deve imputare il caos che si è impadronito della terra dei Nuer in queste ultime settimane, che si è tradotto in un esodo massiccio dalle proprie case delle popolazioni, creando purtroppo le condizioni ottimali per l'imperversare della carestia.

Comunque, la vendetta e la conquista delle reciproche terre non sono gli unici problemi che alimentano l'animosità fra Dinka e Nuer. E' stato anche detto che la responsabilità di ciò deve essere attribuita anche alla distribuzione sbilanciata degli aiuti fra le aree sotto controllo SPDF ed SPLA nelle aree Nuer. Diverse agenzie umanitarie hanno confermato infatti che le zone sotto controllo SPDF, cioè i Nuer, ricevono più aiuti di quelle controllate dall'SPLA , spingendo quest'ultima ad organizzare degli attacchi per "pareggiare" a modo suo i benefici.

E' ancora presto per temere una conflagrazione su larga scala del conflitto fra Dinka e Nuer, ma se si materializzasse la minaccia Nuer di vendicarsi dei Dinka è possibile che la dimensione del conflitto si possa allargare parecchio. Desta particolare preoccupazione la condizione dei Dinka che sono rientrati ai loro villaggi dopo l'accordo di pace di Wunlit nel 1999, che pose fine a nove anni di ostilità fra Nuer e Dinka. Alla stessa stregua sarebbero esposti al pericolo di ritorsioni quei Nuer che si sono rifugiati in aree Dinka. Non c'è da meravigliarsi che Human Rights Watch stia sollecitando Washington ad intervenire sul piano diplomatico. " Gli Americani hanno una tremenda influenza su quelli del Sud. E' venuto il momento che la usino" afferma Rone, che al tempo stesso vorrebbe che Khartoum venisse trattenuta dall'armare le milizie che allontanano con la forza migliaia di persone nell'Upper Nile orientale. Altrimenti, se le agenzie di cooperazione non ricevono i fondi necessari ed il governo degli Stati Uniti si rifiuta di intervenire, accadrà presto che il mondo dovrà prepararsi ad un altro evento orrendo, che una volta di più vedrà il Sudan come protagonista.

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