AfricaTroppi stati africani fanno fiascoDi Padre Laurent Magesa
Oggi si da universalmente per scontato che le componenti più importanti di ogni stato moderno siano i suoi cittadini, i suoi governi eletti, un parlamento ed una magistratura indipendenti, strumenti di governo efficienti e disciplinati, compresa una polizia necessaria per mantenere l’ordine interno ed un esercito per garantire la sicurezza esterna. Quando queste componenti non funzionano in modo adeguato, singolarmente o in coordinamento l’una con l’altra, abbiamo le condizioni per uno stato fallimentare. Molti stati africani, purtroppo, già si trovano o stanno per trovarsi in queste condizioni, quasi tutti, grosso modo, a due generazioni dall’indipendenza. Dove, per esempio, un gran numero di cittadini è stato costretto all’esilio o a vivere da sfollato nel suo paese, possiamo veramente parlare dell’esistenza di uno stato funzionante? Una situazione del genere non è purtroppo rara in Africa, dalla regione dei Grandi Laghi con il Burundi ed il Congo come stati esemplari, all’Africa Occidentale con paesi devastati dalla guerra come la Liberia e la Sierra Leone. Ci sono poi paesi come il Sudan, la Somalia e molti altri dove il caos e l’anarchia sono all’ordine del giorno. In Sudan, ad una gran parte della popolazione, non vengono neanche riconosciuti i diritti di cittadinanza, per ragioni razziali e religiose. In questo paese non viene solo negata la possibilità di sfamarsi, l’accesso all’educazione, alla sanità e ad altri diritti sociali che dovrebbero essere garantiti ai cittadini, ma è il governo stesso che frequentemente ne minaccia l’esistenza con i bombardamenti, piuttosto che proteggerli, come sarebbe suo sacrosanto dovere. Ed il Sudan non è che un caso, anche se uno di quelli più estremi. Un sottile e, forse proprio per questo, più insidioso sintomo di stato fallimentare che si riscontra un po’ dappertutto nel continente africano si presenta sotto forma di un’alienazione economica e culturale alimentata di questi tempi principalmente dal processo di globalizzazione. I governi africani falliscono, ahimè, miseramente nell’intento di proteggere i loro cittadini dai pericolosi effetti di questi processi. La ragione di questa incapacità può risiedere nel fatto che l’élite africana che governa non è minimamente toccata dalla povertà e dalle sue conseguenze che colpiscono dolorosamente la gente comune. Ciò è messo in evidenza, fra l’altro, dalle faraoniche case che abita, situate nelle zone più esclusive e spesso cintate delle città e dal tipo di automobili con cui si fa arrogantemente portare in giro. L’aumento della criminalità, da una parte, e la violenza esercitata dallo stato contro ogni forma di protesta scatenata dal mal governo, dall’altra, non stanno a significare altro che la presenza di uno stato fallimentare. Gli effetti negativi della globalizzazione sono insidiosi, poiché provocano nei politici una sindrome che può essere descritta come “emigrazione psicologica”, una sorta di condizione d’esilio, di dislocazione di sentimenti e ragione, simile, nelle conseguenze, ai suoi equivalenti fisici. Una condizione mentale in cui questa gente viene a perdere ogni attaccamento alle istituzioni, alla cultura e all’economia del suo paese. Scompare in loro ogni parvenza di patriottismo, eccetto, forse, quando serve per qualche egoistico fine personale. Abbiamo così dei politici che si trasformano in zombi, virtuali nel loro stesso paese, a casa propria. E’ ormai sotto gli occhi di tutti che l’eccessiva liberalizzazione economica e l’insensata spinta alla privatizzazione di infrastrutture economiche, volute dalle istituzioni internazionali capitaliste, producono questo effetto di stati fallimentari, per lo meno in gran parte dell’Africa sub sahariana. Da questo stato di cose e da politici di questo genere scaturiscono cattivi governi, intolleranti dei punti di vista dell’opposizione, quindi della democrazia, che impediscono l’emancipazione di vasti settori della popolazione. Una situazione, questa, che in Africa è sempre più comune, nonostante la retorica dei governanti e gli sforzi, a volte genuini, di pochi leaders onesti e coscienziosi, che vi si oppongono. In Africa, non c’é costituzione o statuto che non sancisca e garantisca solennemente il diritto di tutti i cittadini adulti e sani di mente di votare ed eleggere il governo che desiderano. Nonostante questo, accuse d’intimidazione, giochi sporchi, brogli elettorali e cose del genere sono la regola piuttosto che l’eccezione, prima e dopo ogni elezione sul continente o sulle isole che lo circondano. E’ successo recentemente in Zambia, così come in Zimbabwe e, mentre scrivo, il Madagascar sta sperimentando una crisi di questa natura ed origine. Non resta che sperare e pregare perché le difficoltà di questi paesi siano superate quanto prima, pacificamente. La mancanza di trasparenza e l’evidente malafede che caratterizzano le elezioni hanno seriamente danneggiato la reputazione di paesi come la Tanzania, altrimenti riconosciuti come stabili ed esemplari. Nel corso delle elezioni del ’95 e del 2000 pesanti accuse di manipolazione dei voti hanno provocato a Zanzibar una deplorevole situazione che ha condotto alla violenza, all’esilio, alla fuga di molti cittadini, alla distruzione di proprietà e alla perdita di vite umane. Sembra non ci sia un posto in Africa in cui problemi di questo genere non tendano a provare, una volta di più, che é in atto un’inesorabile tendenza verso il fallimento dello stato e delle sue prerogative. I sistemi di governo africani sono caratterizzati dalla concentrazione di troppo potere “de facto” nell’esecutivo, elemento che, di per se stesso, costituisce un’eccellente ricetta per il fallimento dello stato di quei paesi. Troppe democrazie in tutto il mondo hanno confermato finora, fuori da ogni dubbio, che, quando si verifica questa eccessiva concentrazione di potere, ci si espone al disastro, al crollo dell’amministrazione, dell’azione di governo. L’esecutivo, il parlamento e la magistratura dello stato dovrebbero rimanere autonomi, poiché, se ciò non accade, come tende ad accadere in Africa, la democrazia viene inevitabilmente strangolata, lasciando libero spazio alla sopraffazione e al conflitto civile, mentre lo stato, come realtà autosufficiente, si disintegra. Tutta una serie di diritti umani fondamentali, così come elencati dall’avvocato Aidan O’Neill, tendono, in queste condizioni, a non contare più niente. Il diritto di non essere torturati o trattati in modo inumano o degradante, di non essere trattenuti in schiavitù o essere costretti a svolgere lavoro forzato, il diritto alla libertà, di ottenere un giusto processo, di essere puniti, esclusivamente secondo la legge, il diritto al rispetto della vita privata e della famiglia, il diritto di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di espressione, di assemblea e di associazione, il diritto al matrimonio ed, infine, il diritto di tutela giudiziaria per qualsiasi altra violazione dei diritti umani. Da questo punto di vista l’indipendenza della magistratura assume un’importanza particolare, anzi fondamentale. In uno stato che funziona, solo quest’ultima deve avere il potere di interpretare la giurisprudenza, sulla base dei dettami della legge suprema dello stato, la Costituzione. Solo la magistratura, perciò, deve avere il potere assoluto di controllare l’esecutivo ed il parlamento che possono, a volte, essere tentati d’interpretare la legge a proprio uso e consumo. Ma, purtroppo, questo potenziale organo di garanzia dello stato si è generalmente compromesso, in gran parte dell’Africa, indebolendosi al punto da essere visto come un semplice strumento nella mani del presidente di turno, comportandosi il più delle volte come tale. Una situazione del genere vanifica la forza e l’autenticità del sistema giudiziario, rendendone illusorie le prerogative. E, dove non c’è giustizia c’è corruzione, o, piuttosto, dove c’è corruzione non c’è posto per la giustizia! Il fatto che in Africa la magistratura non agisca in modo indipendente per garantire giustizia agli oppressi, ma, piuttosto, per conto del potere, è un segno evidente di corruzione: la giustizia, in questo caso, è stata comprata da coloro che governano, più in generale, da coloro che detengono il potere. Sfido chiunque ad indicare un paese africano in cui la corruzione sia un’eccezione, un paese in cui questo fenomeno sia perseguito efficacemente dalla legge, un paese dove il “pesce piccolo”, il David di villaggio, può ottenere giustizia contro il boss che ha potere politico ed economico, il Golia di città. Al contrario, palesemente agli occhi di chiunque voglia vedere, la persona comune è vittima designata in tutti i luoghi e le nazioni di questo continente. La polizia e l’esercito sono gli strumenti del governo istituzionalmente incaricati di mantenere legge, ordine e pace nel caso della prima e di difendere la nazione da minacce esterne nel caso del secondo. Queste due forze dovrebbero lavorare strettamente a contatto con il braccio giudiziario, esecutivo e legislativo dello stato. Invece, in molte parti dell’Africa, si sa benissimo che questi corpi viaggiano per conto loro, carichi di corruzione e di violenza. Funzionari di polizia che chiedono apertamente mance e tangenti sono certamente cosa di tutti i giorni, nei comandi e sulle strade dell’Africa Orientale, ma, si dice sia la stessa cosa anche in quella occidentale. Anche se offre spunto a domande ed interpretazioni diverse, la denuncia che in Kenya c’è più gente che perde la vita per violenze subite da parte di una forza di polizia incompetente e senza riguardi, piuttosto che, per esempio, in incidenti stradali, costituisce, di per se stessa, un motivo gravissimo di preoccupazione. Ditemi voi come si può spiegare il fatto che nel ’99 in Nigeria l’esercito, reagendo all’assassinio di un suo soldato, abbia potuto uccidere centinaia di persone nella regione del Delta, radendo al suolo non so quanti villaggi! L’anno scorso nella regione della cosiddetta Cintura Centrale l’esercito si è comportato nella stessa identica maniera nei confronti di una città, uccidendo, questa volta, migliaia di persone. Incredibilmente, il Presidente Obasanjo, un ex militare, invece di portare alla corte marziale i responsabili, ha difeso i soldati, affermando che avevano semplicemente fatto ciò per cui erano stati addestrati. Non ci può essere segno più evidente di fallimento dello stato! Se dobbiamo considerare come un’indicazione questi fatti inaccettabili per la gravità e la quantità degli atti di violenza perpetrati, la Nigeria, come stato, è decisamente sull’orlo della bancarotta, minacciata com’è da gravissimi eventi che si ripetono negli anni. E ciò è ancora più grave e preoccupante se si considera la dimensione demografica e la potenzialità economica del paese. Sintomi di questo genere si moltiplicano all’infinito attraverso tutto il Continente e sono più che sufficienti per farci fermare e cercare di fare il punto della situazione. Quello che serve oggi è un tentativo coscienzioso di cambiare le cose, prima che si tocchi il fondo, il punto di non ritorno. Auspicabilmente, anzitutto, dovrebbe aver luogo un drastico trasferimento di potere dai governanti ai cittadini, che dovrebbe essere seguito da una riforma dell’economia nella stessa direzione. Solo mutamenti radicali di questo genere potranno far sì che si recuperi la fiducia della gente nella capacità degli stati africani di creare e mantenere strutture di governo credibili. Può sembrare si tratti di qualcosa d’irraggiungibile, ma, a mio modo di vedere, è invece un cambiamento realizzabile. La responsabilità e l’iniziativa devono essere dei leader e dell’élite africana, in generale. Il destino del continente è nelle loro mani e, se non sapranno rispondere a quest’appello, saranno guai tremendi per tutti.
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