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Alex Langer

Alex Langer

Pluralismo etnico
etnico è bello?
dipende...












Ancora una volta il richiamo di Langer è rivolto al singolo; all’interno della rubrica «Stili di vita» della rivista «Senza confine» Langer affronta il problema della convivenza etnica, e punta ad una soluzione profonda, radicata nel tessuto sociale più che nella politica. Alex, nato e cresciuto in una terra di confine, sa bene che l’accettazione dell’altro e della sua diversità non avviene automaticamente perché proclamato da un documento ufficiale, ma ha un valore nel momento in cui diventa stile di vita.

C'è oggi un gran parlare di "revival etnico", e non poca confusione in giro. Alcune cause "etniche" ispirano a tutti (o quasi) un'istintiva simpatia: la rivendicazione dei tibetani di recuperare il loro diritto a una patria, le aspirazioni di minoranze come gli occitani o i gallesi alla loro lingua e storia, le richieste di risarcimento e riparazione provenienti dai diversi popoli "indios" dopo 500 anni di oppressione e negazione. Già un po' meno scontate appaiono le posizioni di popoli che in nome della loro etnia senza Stato e sovranità chiedono un riconoscimento politico più preciso e quindi ricco di implicazioni conflittuali: i baschi, gli scozzesi, i kurdi...

Ed ancor più controverse risultano le condizioni di chi rivendica la vera e propria autodeterminazione politico-statuale per il proprio popolo, il proprio gruppo etnico, la propria tribù: dai palestinesi ai croati, dai lituani agli albanesi del Kossovo. Le vicende che sono seguite alle nuove indipendenze conseguite in questi ultimi dodici mesi, dall'agosto 1991 al luglio 1992, con una disseminazione di guerre aperte o latenti, dai Balcani al Caucaso, non incoraggiano certamente una beata rincorsa dell'autodeterminazione etnica o nazionale, soprattutto se un territorio è, come avviene nella maggior parte dei casi, popolato da persone e gruppi di diverse lingue, religioni, tradizioni, culture.

Tra i vari approcci sensibili, due appaiono simmetricamente incapaci di contribuire ad una soluzione pacifica dei conflitti e conducono nel vicolo cieco: quello statalista-centralista e quello statalista-etnico.
Esempi del primo se ne conoscono a volontà: la difesa degli stati cosiddetti nazionali (che poi veramente nazionali non sono quasi mai) assume che solo alcune nazioni sono veramente tali e meritano uno Stato, e che gli Stati non devono essere minacciati da aspirazioni autonomiste o separatiste. I sostenitori della "ragion di Stato" in quasi tutti i paesi del mondo stanno con questo approccio: che si tratti del Kashmir conteso tra India e Pakistan o della Corsica. Conseguenza logica: la repressione di movimenti autonomisti o separatisti contribuisce al mantenimento dell'ordine e della pace.

Il secondo approccio a prima vista può: risultare più libertario: viva l'indipendenza di chi la rivendica, viva il diritto di tutti a proclamare il proprio Stato, la propria sovranità. Un po' più complicate appaiono le cose al secondo sguardo: quando si nota che la nuova indipendenza della Slovacchia mette paura alla minoranza ungherese che vive lì, e che tra la nuova Polonia, la nuova Lituania e la nuova Ucraina si riaprono questioni territoriali e di confine, o quando si realizza che molti dei nuovi Stati riservano la loro cittadinanza a chi è etnicamente conforme, diventano "lo Stato degli sloveni", "lo Stato dei lettoni", ecc.

Non esiste una soluzione politica comune proponibile a tutte le rivendicazioni e conflitti etnici, nazionali, di confine. Ma esiste qualcosa che attiene allo "stile di vita", e che va più in profondità: fa una gran differenza concepire la propria identità collettiva di segno etnico come un'identità compatibile con quella degli altri, o concepirla invece come esclusiva. Nel primo caso si potrà immaginare e praticare una buona convivenza con altri gruppi etnici, altri popoli, altre religioni, e considerare il "proprio territorio", sì, casa proprio, ma non casa in esclusiva. Nel secondo caso sarà assai più difficile che altre identità collettive possano coabitare con la stessa dignità e libertà sullo stesso territorio.

L'alternativa tra un atteggiamento di esclusivismo etnico (o religioso, o razziale, o nazionale) ed una scelta di convivenza pluri-etnica, pluri-culturale, pluri-razziale, non è per niente facile. Troppo più semplice e netta la prima ipotesi: l'Africa agli africani, la Slovenia agli sloveni, la Padania ai padani... E troppo difficile, per molti, la seconda impostazione: l'Italia che fa posto anche ad altre identità e culture, Israele che non è più uno Stato di ebrei per ebrei, il nuovo Sudafrica che non rovescerà semplicemente di 180° la situazione pre-esistente passando dall'integralismo etnico della minoranza bianca dominante a quello della maggioranza nera.

È questione di ordinamenti, di garanzie, di diritti, di autonomie, certamente.

Ma assai prima ed assai più profondamente è questione di "stili di vita". Credere che si sta meglio quando non si è disturbati dalla presenza di altri, o che si possono realizzare i propri diritti solo quando si è in maggioranza, o far dipendere comunque i diritti e la condizione delle persone della forza della loro etnia o nazione, è assai più diffuso di quanto non si pensi. Non sono solo gli elettori dei vari "Fronti nazionali" o delle "Leghe" a coltivare questa vocazione semplicistica alla purezza etnica, e non è solo il terribile dramma jugoslavo che ci conduce davanti agli occhi cos'è una politica di epurazione etnica.

La convivenza pluri-etnica ha oggi bisogno di sperimentazioni coraggiose, più che di petizioni di principio ideologiche e convincenti solo finché si ragiona a pancia piena e senza problemi occupazionali. E di stili di vita favorevoli alla complicata coesistenza tra i diversi.


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