"Il lupo perde il pelo ma non il vizio", ci sono proverbi, come questo, che contengono spietate verità. Lo costatiamo nel primo articolo del quarantunesimo numero di Africanews in lingua italiana. Ci arriva dalla Zambia, paese sul quale, da alcuni anni, hanno messo gli occhi gli investitori sudafricani sia nell'agricoltura che nello sfruttamento minerario. Qualsiasi paese africano da il benvenuto a capitali stranieri che possono dare ossigeno all'economia locale ma quasi sempre quest'elementare equazione di mercato non quadra e, guarda caso, pende sempre dalla parte di chi ha i soldi, del lupo capitalista.
Nel nostro caso si tratta di smisurate disparità nei trattamenti economici dei dipendenti di queste società con capitale sudafricano, nazione, notiamo bene, che dal 1994 è guidata dalla maggioranza nera prima con il mitico Mandela e ora con l'economista Thabo Mbeki. Pur dando per scontata una differente capacità o esperienza lavorativa, appare evidente la sproporzione fra gli oltre 4 milioni di lire mensili dati a un autista sudafricano e le circa 150mila di uno zambiano. Sono situazioni che, seppur in misura meno eclatante, si verificano anche in Italia.
Abbiamo dunque citato questi casi di "razzismo economico" al quale il cosiddetto "libero mercato" ci ha abituati ma che si comincia a combattere in molte parti del mondo. Dalla Zambia però ci arriva l'immagine di un altro razzismo, quello più becero, stupido, logoro ma sempre vitale. La selezione, la discriminazione, la separazione effettuate in base al colore della pelle. Nel nostro caso gli episodi appaiono ancor più odiosi dato che tale "scelta" viene operata da neri nei confronti di altri neri e il tutto per compiacere ai bianchi.
Per la conoscenza che abbiamo dell'Africa possiamo, per fortuna, dire che i "casi Zambia" non sono molti; purtroppo però esistono e perpetuano una situazione di antagonismo, di sudditanza, di rancori che possono poi sfogarsi con estrema violenza.
Il secondo e il terzo articolo sono della stessa natura del primo nel senso che ribadiscono come le "ragioni economiche" esercitino il loro strapotere contro le "ragioni umanitarie". Il primo caso riguarda le piantagioni di cacao nel Ghana e nella Costa d'Avorio dove, e lo hanno riconosciuto gli stessi produttori di cioccolato e lo ha dimostrato con un filmato la rete televisiva Channel 4, lavorano migliaia di bambini oltre agli adulti che vengono scambiati come fossero semplici oggetti. L'altro caso riguarda sua maestà il re petrolio che dal Sudan prende la via del Kenya. Sarebbe un normale scambio commerciale se in Sudan non fosse in atto una guerra civile fra il Nord e il Sud che dura, esclusi alcuni anni fra il 1972 e il 1983, dall'indipendenza ottenuta nel 1956. E sarebbe ancor più normale se il Kenya non fosse il presidente di turno dell'organismo che sta tentando di por fine a questo immenso dramma sudanese e se i soldi ottenuti col petrolio non venissero impiegati dal governo islamico di Khartoum per comprare armi da usare nella guerra contro il Sud Sudan.
Ciò che avvilisce di più è però l'atteggiamento della Costa d'Avorio che si è praticamente schierata con l'industria e contro i legislatori che vogliono far cessare lo sfruttamento dei bambini. Lo sconforto aumenta se si pensa che in questa nazione, sconvolta negli ultimi tempi da tumulti popolari e ammutinamenti dell'esercito, cerca di difendere il gettito che proviene dalla vendita di cacao agli Stati Uniti. Cerca di mantenere la situazione com'è, nel timore che il mercato si rivolga verso altri produttori e il cacao rimanga invenduto. E con il cacao non si può sfamare una popolazione.
Africanews staff